La cattedrale di San Giusto a Trieste |
E' un legame antico quello esistente
tra Cremona e Trieste. Basti pensare che, secondo la tradizione, si
fa risalire il toponimo Servola ai soncinesi chiamati dal vescovo
cremonese Rodolfo Pedrazzani, originario di Robecco d'Oglio, tra il
1301 e il 1320 per attendere alla cura dei campi nella sua villa di
Sylvula, come il promontorio era chiamato fin dai tempi romani. Altri
vogliono invece che gli abitanti di Soncino venissero richiesti per
terminare la cattedrale di San Giusto, data la loro abilità nel
lavorare la pietra. Sarebbero stati proprio loro a realizzare il
grande rosone, seguendo il modello rappresentato da quello del duomo
di Cremona, realizzato nel 1274, negli anni in cui Pedrazzani vi era
canonico. Ma vi è anche un documento del 1330 che parla di un
pagamento di 24 soldi patriarcali per aver fornito quattromila pietre
al comune triestino ad un certo Morandino da Robecco, evidentemente
chiamato dal vescovo compaesano per sopperire alla carenza di
“picapreda” necessari a portare a termine la grandiosa
ricostruzione del duomo. Sia i soncinesi che i robecchesi esperti
nella lavorazione di pietra e marmo provenivano probabilmente dalle
zone prealpine bresciane, ricche di cave e miniere e la loro presenza
doveva essere abbastanza radicata in quel di Servola, visto che i
loro discendenti erano chiamati “Sancin” o “Sanzin” ancora
nel 1648, anno a cui risale la prima testimonianza scritta. Di certo
per oltre mezzo secolo, sul far del Trecento, i cremonesi, chiamati,
ma più spesso spinti in Friuli dopo essere fuggiti dalla loro città,
furono protagonisti indiscussi della vita politica, sociale e
culturale della regione. Ad iniziare da Rodolfo Pedrazzani.
Rodolfo Pedrazzani, nominato vescovo di
Trieste l'8 agosto 1302 da papa Bonifacio VIII su indicazione del suo
amico ed estimatore, il patriarca di Aquileia Ottobono de'
Rovari-Feliciani, originario di Piacenza, era nato a Robecco verso la
metà del Duecento. Nel suo stemma di famiglia, dove campeggia un
camoscio su un monte verde, sono ricordate le probabili origini
montane, comuni a tanti scesi in pianura in quegli anni alla ricerca
di lavoro. E la fortuna non dovette mancare alla famiglia Pedrazzani,
che dal 1246 al 1420 conta sei decurioni nella Magnifica Comunità di
Cremona, tra cui Ruggero, che nel 1264 fu eletto dai senatori tra i
Comandanti del Corpo di milizia urbana e nel 1270 figura con altri
sedici consiglieri nel governo del quartiere di Porta San Lorenzo.
Nel 1288 il nostro Rodolfo figura Dottore dei decreti, Protonotaro
apostolico e Canonico della Cattedrale, cioè, a differenza dei suoi
predecessori esperti
nell'uso della armi, laureato in diritto canonico, un corso che era
possibile seguire solo a Bologna, Reggio Emilia o a Padova. E'
probabile che la scelta fosse caduta su quest'ultima università, già
frequentata in quegli anni da altri cremonesi, come Guglielmo da
Enrigino, ricordato come
“decretorum doctor” e poi decano di Aquileia tra il 1307 ed il
1352 e da Giambonino da Gazzo. A proposito di Guglielmo, questi era
fratello di Giuseppe e di Sapere, il cui figlio, pure chiamato
Guglielmo, divenne a sua volta canonico (1331) e poi decano del
capitolo della cattedrale aquileiese (1360-1367). Giuseppe ebbe
almeno sei figli, legittimi o naturali: Odorico (“natus”, cioè
figlio naturale), Giovanni, Francesco, Nicolò, che nel 1341 risulta
essere canonico di Udine, e Guglielmo (“natus”), anch’egli
canonico di Udine nel 1343. La famiglia era di origine cremonese, ma
probabilmente dovette lasciare la patria poiché legata ai della
Torre milanesi, che furono sconfitti dai Visconti nella lotta per il
controllo della metropoli lombarda. Giuseppe forse insieme con il
fratello Guglielmo, entrò così a far parte della clientela di
Pagano, vescovo di Padova dal 1302, e uno fra i maggiori
rappresentanti dell’ampia consorteria familiare dei della Torre.
Non è escluso che a Padova
Giuseppe
abbia frequentato scuole di grado superiore e forse anche di tipo
universitario, come certamente fece il fratello Guglielmo. Di sicuro
egli fu notaio e dal 1306 fu al servizio della curia del vescovo
Pagano.
Dunque
tra Aquileia, Udine, Trieste e Padova la presenza cremonese era
richiesta, fortemente radicata e strettamente partecipe delle vicende
politiche di quella regione.
Lo
stesso Rodolfo, d'altronde, quando giunse a Trieste nel 1302, venne
accompagnato da un nutrito gruppo di “familiari” che non
necessariamente erano persone legate al vescovo da stretti vincoli di
parentela, ma tutti quelli che componevano il suo seguito, dipendenti
o familiari che fossero, tutti ovviamente robecchesi. Non c'è da
stupirsi per la presenza di tanti lombardi tra Aquileia, dove aveva
sede il patriarcato, e Trieste che vi era soggetta. Già da molti
anni la Santa Sede, riservandosi il diritto di nominare il patriarca,
aveva cercato di rafforzare il fronte anti-imperiale e guelfo in una
regione periferica strategica per gli equilibri politici italiani. La
scelta dei pontefici, ultimo tra questi Bonifacio VIII, era dunque
caduta su elementi fidati, di formazione curiale romana e del tutto
estranei al contesto feudale friulano, legato all'imperatore e ai
suoi fedelissimi, i conti di Gorizia. Ottobono, patriarca di
Aquileia, e Rodolfo, fanno parte di questa folta schiera di presuli
convinti sostenitori della dottrina teocratica e della linea politica
di papa Caetani. Una delle prime azioni intraprese da Rodolfo è la
ripresa dei lavori per integrare e unificare tra di loro le due
chiese gemelle di Santa Maria Assunta e San Giusto in un'unica
cattedrale, già iniziata dai suoi predecessori, ma che ora ragioni
di fede, di immagine e prestigio spingono ad ultimare. Rodolfo con il
suo impegno ed il suo zelo si conquista l'apprezzamento del
metropolita Ottobono, che lo aveva “raccomandato” a Bonifacio
VIII, e ora lo gratifica rendendolo partecipe di importanti momenti
pastorali e politici, inasprendo, però, il risentimento che già
covava nei suoi confronti il vescovo di Padova Pagano della Torre,
per essergli stato preferito dal pontefice alla sede di Aquileia.
E
qui il cammino del vescovo Rodolfo Pedrazzani, poi morto il 7 marzo
1320, si incrocia inevitabilmente con quello dell'altro grande
cremonese destinato, qualche anno dopo, a diventare decano
aquileiano.
Il rosone di San Giusto |
Guglielmo
da Enrigino nacque probabilmente negli anni Ottanta del Duecento, da
famiglia cremonese. La data può essere ipotizzata osservando il suo
curriculum universitario, dove infatti è qualificato come “doctor
decretorum”, titolo senza dubbio conseguito nello “Studium” di
Padova, città nella quale compare in diverse riprese anche dopo
essere approdato in Friuli, fra il 1308 e il 1309 e poi fra il 1311 e
il 1312, e dove verosimilmente si trovava per studiare diritto
canonico. Il suo arrivo in Friuli avvenne durante gli anni di governo
del patriarca Ottobono (1302-1315), che era stato prima vescovo di
Padova,
ma Guglielmo era legato soprattutto a Pagano della Torre che subentrò
a Ottobono quale vescovo della città euganea e divenne a sua volta,
nel 1319, patriarca. Del resto Pagano aveva mantenuto saldi rapporti
con il Friuli e, tramite i suoi parenti, interferiva costantemente
nelle questioni della Chiesa aquileiese. Che la famiglia di Guglielmo
fosse vicina alla consorteria dei Torriani è confermato dal fatto
che il fratello Gabriele fu, come abbiamo visto, notaio e scriba di
Pagano durante l’episcopato padovano, per poi accompagnarlo ad
Aquileia insieme con una numerosa “familia” costituita per lo più
da lombardi, soprattutto cremonesi. Ed è appunto in armonia alle
fortune di questo nutrito gruppo di persone provenienti dalle città
lombarde, affluito in Friuli fin dai tempi di Raimondo della Torre
(1274-1299) e forse anche di Gregorio di Montelongo (1252-1269) e
ingrossatosi nel primo Trecento, che si colloca anche la vicenda di
Guglielmo.
Egli,
si può dire, rappresenta più di ogni altro il profilo dell’élite
dirigente forestiera che si impiantò in Friuli, spesso, come è
stato per gli operai di Soncino, per radicarvisi definitivamente. Non
si trattava solo di parenti e di “fideles” dei patriarchi, ma
anche di un personale preparato su un piano culturale e giuridico e
pronto a soddisfare le esigenze e le pratiche di governo e
amministrative della chiesa aquileiese: un personale non facilmente
reperibile in Friuli. La conseguenza fu la progressiva estromissione
del gruppo dirigente friulano dai posti di comando e dai benefici più
redditizi del patriarcato. Esso fu appunto sostituito da questi
personaggi, che venivano compensati per i loro servigi con un
plebato, un seggio o una dignità capitolare, una prelatura o, se
laici, con beni di natura beneficiale-feudale. In tale contesto la
carriera di Guglielmo ad Aquileia
fu particolarmente brillante e raggiunse presto il suo apice, mai poi
superato. Il 21 maggio 1307 il vescovo Pagano della Torre comunicò
al patriarca Ottobono e al capitolo della cattedrale che il decanato
di Aquileia, vacante, era stato riservato dal legato papale Napoleone
Orsini a Guglielmo, figlio naturale (“natus”) di Enrigino da
Cremona, allora arciprete della chiesa di S. Maria di Sarmazza di
Padova, e intimò loro di accoglierlo entro sei giorni e a
conferirgli il possesso della prebenda. Da quel momento Guglielmo
resse il decanato per più di quarant’anni, cumulando anche un
canonicato a Cividale.
Una responsabilità non da poco, perchè egli ricopriva la seconda
dignità ecclesiastica della diocesi, dopo quella dell’ordinario,
e, vista la particolare sovrapposizione di poteri spirituali e
temporali dei patriarchi, spesso si trovò costretto ad agire su più
fronti. La sua azione è testimoniata da numerosi documenti, per lo
più inediti, compresi nei protocolli dei notai di curia, ma è
sinteticamente resa in una breve nota biografica vergata sul
necrologio della cattedrale di Aquileia, che ne attesta la stima e
l’onore con cui era considerato dai suoi confratelli.
A
partire da tale ricordo, si può riassumere la pluridecennale
permanenza friulana di Guglielmo secondo tre filoni: uno
politico-istituzionale, uno ecclesiastico-religioso, uno culturale. I
primi due sono sicuramente meglio documentati, ma il terzo è forse
quello che potrebbe riservare maggiori sorprese. Per gli obblighi
della sua dignità, Guglielmo era tenuto ad assistere con assiduità
il patriarca e gli episodi di collaborazione non mancano e
testimoniano una fedeltà che rimase salda sotto i patriarcati di
Ottobono, Gastone e Pagano della Torre, Bertrando di Saint-Geniès,
Nicolo di Lussemburgo, anche se mostrò la migliore intesa
specialmente con Pagano e con Bertrando. Pagano impiegò più volte
il decano come ambasciatore o nunzio nelle continue guerre e
trattative che lo opponevano ai conti di Gorizia o a Venezia,
soprattutto per le questioni istriane, fra il 1330 e il 1331, nelle
quali egli diede prova di capacità diplomatiche, sebbene
condizionate dalla endemica fragilità degli accordi e dei
compromessi che venivano continuamente raggiunti e infranti.
Bertrando, quasi alla fine del suo patriarcato, si rivolse a
Guglielmo in una celebre lettera nella quale ricapitolava la sua
azione di governo. Il documento a suo modo dichiara il grado di
partecipazione che a quell’opera aveva prestato pure il decano,
lodato dalla nota obituaria per aver difeso «viriliter e tamquam
verus pugil eiusdem ecclesie» i diritti minacciati dai nemici
esterni, Veneziani e Trevigiani avanti gli altri. Tuttavia i momenti
di maggiore impegno sul piano politico toccarono a Guglielmo durante
le vacanze della sede patriarcale succedute alla morte di Ottobono,
nel gennaio del 1315, e di Pagano nel dicembre del 1332. Nella prima
circostanza egli fu affiancato dal conte Enrico di Gorizia, che
fungeva da capitano generale per il Friuli, nella seconda, sia pure
solo per pochi mesi, dal nunzio papale Pietro “de Talliata”. In
entrambe le evenienze, che si protrassero per molti mesi, benché fra
mille difficoltà, seppe traghettare le sorti del patriarcato nelle
mani del nuovo ordinario («rexit et gubernavit laudabiliter et
potenter», scrive l’anonimo autore del suo elogio), allacciando
subito con lui rapporti di fiducia. Sotto il profilo più
propriamente ecclesiastico-religioso ,Guglielmo seppe innanzi tutto
tutelare e aumentare i redditi del proprio capitolo, acquisendo per
la prebenda decanale la pieve di Trivignano e lasciando una notevole
quantità di legati pii ad utilità dei suoi confratelli. Fra il 1330
e il 1339 Guglielmo promosse una delibera capitolare che
razionalizzava la complessa macchina della celebrazione degli
anniversari del capitolo e dava regole precise per la suddivisione
degli introiti, materia che suscitava continue liti. Sono inoltre
ricorrenti suoi interventi per mantenere la disciplina capitolare.
Egli partecipò ai sinodi diocesani e ai concili provinciali
convocati dai patriarchi, fra i quali spiccano quelli del 1335 e del
1339 ove con una larga adesione dei vescovi suffraganei fu redatta
una legislazione provinciale, che rimase sostanzialmente immutata fin
dopo il concilio di Trento. Nel 1325 Guglielmo donò “pro anima”
al capitolo una mezza marca aquileiese, da pagarsi annualmente in
perpetuo, in occasione della festa delle quattro vergini aquileiesi
Eufemia, Dorotea, Tecla ed Erasma, per retribuire i partecipanti
all’officio divino che si stabiliva di celebrare. A prima vista si
tratta di un normale lascito devoto, tuttavia esso forse non era
estraneo a un orizzonte diverso, nel quale si contemperavano
religione e cultura, intesa nella sua ricaduta artistica. A questo
periodo, infatti, viene normalmente datata la realizzazione dell’arca
delle Vergini aquileiesi, ascritta a un ampio programma di
committenza monumentale pensato da Pagano della Torre, che sarebbe
stato ben consapevole pure delle sue valenze ideologiche e
propagandistiche. Guglielmo viene descritto come «elegancia moribus
et scientia inter alios excellens et conspicuus»: al di là delle
lodi di maniera per un defunto, forse in lui si può riconoscere uno
degli ispiratori o dei compartecipi della “politica” artistica di
Pagano e una sensibilità culturale che, sia pure ipotizzabile per il
suo cursus
di
studi, era rimasta sinora in ombra. Guglielmo morì ad
Aquileia l’8 febbraio 1352, non
prima di aver favorito la carriera di un omonimo nipote, figlio di
ser Sapere, canonico aquileiese dal 1331 e anch’egli decano fra il
1360 e il 1367. E, come lui, di origine cremonese
Nessun commento:
Posta un commento