Casa di tolleranza negli anni Venti |
Il
20 febbraio 1958, sessant'anni fa, il Parlamento approvò la
legge n.75, più nota con il nome della sua creatrice, la senatrice
socialista Lina Merlin. La legge aboliva la regolamentazione della
prostituzione in Italia e, di conseguenza, portava alla chiusura
delle “case chiuse”, che avvenne nel giro dei sei mesi
successivi, il 20 settembre 1958. L’intento era quello di
contrastare lo sfruttamento delle prostitute. L’iter della legge
Merlin era stato molto lungo (la prima bozza risaliva al 1948) e
contrastato: la proposta creava, infatti, una spaccatura trasversale
nell’opinione pubblica italiana. Fra gli oppositori, Indro
Montanelli pubblicò nel 1956 un pamphlet polemico intitolato “Addio,
Wanda!”, che, in un certo senso, rispondeva al libro pubblicato
l’anno precedente da Carla Voltolina, moglie del futuro Presidente
Pertini, e dalla stessa Lina Merlin, intitolato “Lettere dalle case
chiuse”, che raccoglieva 70 lettere ricevute dalle ragazze delle
case di tolleranza e dal personale di servizio. Alcune favorevoli,
altre contrarie alla chiusura. La
senatrice Angelina
Merlin,
detta Lina, era stata maestra elementare della provincia di Padova,
classe 1887, partigiana.
Durante
il periodo fascista Angelina era stata spedita al confino in Sardegna
perché aveva rifiutato di aderire al regime. Dopo la proclamazione
della Repubblica, è stata
l'unica donna nella prima legislatura repubblicana, eletta con il
partito socialista. Si racconta che quando la sua discussa
proposta di legge arrivò in Parlamento Lina invitò Pietro
Nenni ad ordinare al partito di votare a favore. «Altrimenti –
disse – farò i nomi dei compagni che sono proprietari di casini».
E lui: «Dio mio, Lina, e come faccio ad avvertirli tutti?».
Dal
1958 ad oggi, il tema della prostituzione continua a rimanere al
centro del dibattito politico e innumerevoli sono state le proposte,
anche recentemente, di variazione e di revisione della legge n.75. Al
momento dell'approvazione della legge le "case chiuse"
erano 560 e ospitavano circa 2.700 prostitute.
Quando,
con l'applicazione della legge Merlin, il 20 settembre 1958 vennero
chiusi i bordelli, a Cremona erano presenti una settantina di
prostituite distribuite in sette case di tolleranza. Bordelli
esistevano però anche a Crema, in via Vico Sala 9 e a
Casalmaggiore, in via Centauro 23. Le case chiuse cremonesi erano in
via Bardellona, in via De Stauris, in via dei Dossi, in via
Cavitelli, in via Fogarole e in via Castore Polluce. I peggiori
lupanari si trovavano in via Bardellona, all’angolo con via Aselli,
e in via Vacchina, una laterale di via Bissolati. Il “Vacchina”
era uno dei noti casini che esistevano nella zona di porta Po,
l’altro era in vicolo Dei Dossi. Il “Vacchina” era diretto
dalla signora Maria, una corpulenta matrona sulla cinquantina dalle
labbra rosso corallo. Anche l’altro bordello di via Dei Dossi era
abbastanza declassato. Il tenutario era chiamato “el padròon de
le vache” e disponeva di un nugolo di scugnizzi che durante la
presenza delle truppe americane in città, andavano alla ricerca dei
“boys” da portare al casino. Ed in cambio, quale ricompensa,
ricevevano la possibilità di dare una sbirciatina a qualcuna delle
signorine del casino, quando riuscivano a racimolare almeno quattro
clienti. In via Bardellona i casini erano due: il primo era situato
verso la curva di via Aselli, il secondo un po’ più all’interno.
Quello verso via Aselli era squallidissimo e frequentato da nugoli di
militari. Le prostitute vestivano sottovesti nere lerce, mentre i
clienti aspettavano il loro turno su panche in legno in condizioni
peggiori di quelle delle stazioni ferroviarie. Il secondo bordello di
via Bardellona era invece un po’ più dignitoso: la tenutaria si
chiamava Carlina, era un donnone con un grembiule nero che inforcava
occhiali cerchiati in metallo che la facevano sembrare più
un’oblata che una maitresse. Il personaggio più noto del mondo
del piacere nostrano era però la Egle, tenutaria del casino di via
Fogarole. Tarchiata, dai capelli giallo polenta, la voce rauca per le
molte sigarette. Un giorno nei pressi del suo bordello avvenne un
fatto di sangue: uno spazzino uccise l’amante a colpi di pistola.
Quando fu celebrato il processo la Egle venne chiamata in qualità
di testimone e i cremonesi che affollavano l’aula per il clamore
suscitato dall’omicidio passionale, manifestarono un certo
imbarazzo non sapendo se salutarla o meno. Un altro noto casino era
il “Belfiore” di via Cavitelli, molto trascurato: la casa era
buia, i divani su cui sedevano i clienti in attesa erano ormai
sfondati con le molle che uscivano dal fondo, ma il bordello era
frequentatissimo per la bellezza di alcune delle ragazze che
periodicamente vi lavoravano. Il bordello più elegante era in ogni
caso il Polluce di via Castore Polluce, una laterale di via Milazzo,
nei pressi della chiesa protestante. Era il ritrovo più caro di
Cremona, dove ogni consumazione superava di 150 lire le tariffe
fissate per le altre case di tolleranza cremonesi. L’interno era
grazioso e l’arredamento di buongusto. La tenutaria era una certa
Mimma, milanese, esile, intelligente, di buona cultura, che
contrastava con la portinaia, un donnone di 120 chili che incuteva
terrore. Il Polluce era frequentato dalla Cremona “bene” e vi si
usava il “libero”: in buona sostanza il cliente di rispetto aveva
facoltà di scegliere la ragazza da solo. Per quanto riguarda
l’origine, le ragazze che esercitavano a Cremona erano
principalmente venete. Vi erano anche alcune milanesi, qualche
meridionale e molte emiliane.
Le
case di tolleranza cremonesi furono anche spesso al centro di episodi
di cronaca nera, a causa dei loro frequentatori. Non erano rari i
sequestri di armi e di droga, soprattutto cocaina. Per questo motivo,
ad esempio, fu chiusa nel novembre 1928 la casa di tolleranza di via
Villa Glori 14 e la sua tenutaria Annita Bellotto condannata a sette
mesi di carcere e 3500 lire di multa. Ad altri sei mesi di carcere e
mille lire di ammenda fu condannato nell'aprile 1929 un certo Emilio
Medica per aver mantenuto aperto un bordello non autorizzato. Altre
volte le condanne riguardavano l'adescamento all'esterno della casa,
come nel caso di due prostitute che sostavano davanti all'ingresso di
vicolo Traverso 10 “richiamando in tal modo l'attenzione dei
passanti”, e della tenutaria del bordello, che si presero un mese
di carcere sempre nel giugno del 1929. Nel giugno del 1951 venne
arrestato un giovane macellaio per aver colpito al volto una ragazza
di una “casa chiusa” rompendole il setto nasale.
In
epoca storica la presenza di case di tolleranza organizzate è
documentata fin dal XIV secolo, come ha dimostrato la giovane
studiosa Barbara Venturini nella sua tesi di laurea “La
prostituzione a Cremona nella prima età moderna” presentata
presso l'università degli studi di Pavia nell'anno accademico
2009/2010. La normativa del
Trecento prevedeva l'allontanamento delle meretrici
dalla Cattedrale, dove probabilmente si recavano per adescare
clienti, dalle maggiori piazze e dalle vie, dove era loro proibito di
transitare durante il giorno. Le prostitute erano, quindi, obbligate
a risiedere all'interno del postribolo, dal quale non potevano
allontanarsi per più di dodici metri.
Un'ulteriore
norma prevedeva la presenza di un postribolo solo all'interno dei
confini della piazza, forse spiegabile con il mutato atteggiamento
dei governi che avevano intuito l'utilità sociale e soprattutto
economica della prostituzione.
Anche i documenti d'archivio confermano l'esistenza di un postribolo
nella città negli anni precedenti al 1559. Nonostante
questa attenzione alle meretrici erano imposti particolari vincoli:
anche a Cremona erano costrette a portare un mantello di fustagno
bianco di riconoscimento e non potevano circolare all'interno della
città se non nei giorni e negli orari consentiti. Le meretrici,
secondo gli “Ordini fatti sopra il vestire” del 1572, non
potevano portare oro, argento, capi di seta, gioielli e perle, erano
obbligate ad indossare una berretta senza alcun tipo di ornamento, e
una “cintola” o banda rossa che pendesse per tutta la lunghezza
del vestito. Non potevano abitare nelle vicinanze della città e dei
sobborghi cremonesi, se non nei
luoghi
destinati ai postriboli, in caso contrario avrebbero dovuto pagare
una pena di venticinque lire imperiali. Le stesse meretrici, ma anche
terzi, non potevano gestire un postribolo all'interno dell'area della
Cittadella, compresa tra piazza del Duomo, piazza Stradivari e piazza
della Pace, pena una multa e la cacciata dal luogo. A loro era
consentito uscire dal postribolo solo il sabato per effettuare la
spesa, mentre in tutti gli altri giorni della settimana non potevano
muoversi in città, a meno che indossassero il mantello di
riconoscimento lungo fino ai gomiti. Quelle che contravvenivano agli
ordini potevano essere spogliate pubblicamente degli indumenti
indossati
da
parte delle milizie del Podestà.
La
prostituzione veniva permessa, ma nessuna persona, però, poteva
fermarsi nel postribolo dopo il terzo suono della campana serale, né
abitare con le donne né cercare ricovero nelle taverne vicine, pena
una multa di cinque libbre imperiali. Gli stessi proprietari delle
locande, dove i lenoni erano soliti condurre le donne protette
durante la notte, non potevano dare alloggio oltre il terzo suono
della
campana né a una prostituta né a un protettore. Lo stesso valeva
per le maitresse che erano obbligate inoltre a denunciare la presenza
di eventuali lenoni che le prostitute tenevano in casa. La severità
dei regolamenti, tuttavia, non impedì che in città sorgessero
problemi di convivenza con
il
vicinato. Dopo la chiusura del postribolo pubblico nel 1559 le donne
venivano ospitate da un certo Tommaso Nuvolone e dalla moglie, detta
la Barzotta, nella propria casa nella vicinia di San Sebastiano,
fuori le mura della città. Lamentando il disagio causato dalla
situazione, i vicini
decisero
di chiedere al Senato di Milano di espellerle, ma Tommaso,
appellandosi alla mancanza oggettiva di un postribolo, invitò il
governo spagnolo a concedergli il permesso di ospitare legalmente le
donne pubbliche nella propria abitazione. Con ogni probabilità il
permesso non fu accordato, se nel 1576 alcune donne, probabilmente
prostitute, vengono censite in una zona diversa della città, dove
vivevano da sole in affitto in case situate nella vicina di San
Paolo, nella contrada di Santa Tecla che, lontana da luoghi sacri e
vicina alle mura, poteva costituire il luogo più adatto
per
esercitare il mestiere più antico del mondo. Nel 1592 nella zona di
San Bassano, a ridosso delle mura e limitrofa alla vicinia di S.
Paolo, le donne che vi vivevano da sole o con figli a carico
erano
59 e, non essendovi l'indicazione della professione, erano quasi
sicuramente prostitute.
Di
fronte alla presenza del fenomeno della prostituzione dilagantele
risposte della città di Cremona furono molteplici. Nel 1587 i membri
della Compagnia della Carità istituirono la Casa del Soccorso, nota
anche come conservatorio di San Raffaele, nella vicina di Santa
Lucia, zona marginale abitata in prevalenza dai ceti popolari e dagli
indigenti, per fronteggiare il fatto che “molte giovinette, per non
haver parenti, ne altri che buona cura di loro tenessero, facilmente
perdevano l'honestà, et la salute insieme, con offesa di Dio, et
ruina dell'anime”. Per “rimediare a tali disordini col divino
aiuto, et col favore, et auttorità dell'Illustrissimo, et
Reverendissimo monsignor Nicolò Sfondrato Cardinale, et Vescovo di
detta Città, fondarono, et eressero un luogo pio, comperato à
proprie spese da essa Compagnia, chiamato il Soccorso...e dove sotto
il reggimento di honeste, et prudenti
persone
si riducessero le figlie senza recapito, et pericolose di cader in
peccato, et ivi fossero provedute di vivere, et vestire, e amaestrate
nella christiana disciplina, et esercitate nelle sante virtù, et
honesti costumi. Et poi a suo tempo si procurasse di consegnarle à
parenti loro, se pur n'havessero de' buoni, ò di dar loro altro
onesto ricapito”. Le giovani che potevano essere ospitate nella
casa dovevano avere un'età anagrafica compresa tra i dieci e i
trent'anni e un'origine espressamente cremonese. Era assolutamente
vietato l'ingresso a “quelle che haveranno perduta la verginità...,
le stropiate, ò mal sane, et inferme; non le ispiritate...nè le
pazze, purchè l'accesso avvenisse secondo le volontà delle giovani
e non su costrizione del padre o della famiglia. Sempre grazie
all'azione
della
Compagnia della Carità venne fondato nel 1595 il conservatorio di S.
Maria Maddalena, che accolse le malmaritate, cioè le donne sposate
che si trovavano in difficili situazioni coniugali, le donne in
pericolo di perdere la propria honestà e quelle che, dopo averla
perduta, desideravano
la
redenzione”.