(2ª parte) È
con l’introduzione dell’energia elettrica che avviene la grande
trasformazione, pur se lenta e graduale. Gli impianti a gas esistenti
prima dell’elettricità, infatti, mal si adattavano a installazioni
precarie e temporanee come un parco giochi. Non solo, le prime
lampade elettriche permettono la fruizione del parco anche di notte,
con conseguente prolungamento dell’orario di apertura. Iniziano a
modificarsi anche le decorazioni: dagli intagli e gli specchietti
adottati fino a quel momento, si passa a giochi di luce e colori
vivaci. Resta però sempre netta la distinzione tra i due mondi: uno
quello della fiera, povero ed emarginato, di origine nomadica, e
l’altro più ricco, frutto di investimento di capitali. Prova ne
sia che accanto alle ultime novità tecnologiche permangono le
attività più tradizionali del “Tiro all'anatra”, i vari
bersagli, il “labirinto orientale a specchi”, “il padiglione
delle bestie feroci”, il circo equestre, il serraglio e via
dicendo.
Nel
1929 Renzo Bacchetta, con lo pseudonimo di Remba, ci fornisce un
vivace racconto di quale fosse l'offerta merceologica della Fiera di
San Pietro sulle pagine del “Regime Fascista”: «Da piazza Cavour
fino in fondo a Corso Vittorio Emanuele nulla di straordinario. La
solita interminabile processione di gente che si pigerà sui
marciapiedi di sinistra, parallelamente al quale s'allineano l'un
dopo l'altro banchettini e carrettini di ogni genere: dai gelati ai
paralumi, dai bastoni alle scarpe, dalle cravatte alla tiramola,
dalle stringhe ai fiori artificiali, dai cestini di vimini ai
bicchieri di vino...infrangibili ,dai gemelli per polsini alle calze
a un franco il paio, dai dolciumi a due soldi l'etto alle ochine dal
collo mobile, dal bussolano alle cornici, dai tegami a prezzi di
fallimento ai pizzi d'ogni qualità, dai tappeti ai giocattoli d due
soldi, dai cuscini disegnati alle oleografie di Garibaldi, dalle
pesche benefiche al palloncino di guttaperca, e che più me ha più
ne metta perchè v'è di tutto perfino i libri a quattro soldi.
Poveri scrittori! Niente di notevole fin qui, dunque, perchè è
tutta roba che a prezzi su per giù uguali, si può acquistare in
qualsiasi giorno dell'anno in uno dei tanti negozi cittadini, si può
vincere o perdere a seconda se la sorte ti arride o meno in una delle
pesche o lotterie che di quando in quando si tengono a scopo
benefico. Però v'è questo di buono: che spendi del denaro ma hai
della merce. Magari, se vuoi, merce di scarto che dura...fin che
dura, ma qualcosa hai. Non si può negare.
Dove
comincia il sensazionale, l'eclatant,
il pugno nell'occhio alla gente, il soprannaturale, ciò che colpisce
la fantasia di chi è ancora disposto a bere grosso, è più oltre,
proprio sul piazzale di porta Po». Lo sguardo smaliziato di
Bacchetta si posa sui baracconi assiepati nel piazzale, cogliendone
l'aspetto anacronistico di spettacolo occasionale, ricco di
invenzioni e cialtronerie, in cui il pubblico viene sommerso da
richiami, attrazioni, lusinghe e meraviglie: «Oltrepassata la
giostra delle automobili e il solito tiro al bersaglio, bambocci e
pipe di gesso, ecco il primo baraccone delle meraviglie: la donna
fulmine. Due uomini gonfian le gote soffiando l'uno in una
trombettina da lattaio l'altro in una cornette dalla quale le note
escono così armoniose da straziare anche le orecchie meno sensibili
alle melodie degli strumenti a fiato. Poi un imbonitore dalla facile
loquela pronuncierà il suo sproloquio che meriterebbe la nobile
fatica d'uno stenografo e che qui riproduciamo quasi fedelmente:
“Colto e spettabile pubblico – egli comincia senza aggiungere,
come si usava una volta, “ed inclita guarnigione” - Qui in uqesto
modesto padiglione voi vedrete due fenomeni viventi: la donna fulmine
e Kaly la schiava degli indiani.La donna fulmine che qui vedete –
ed in così dire indica una giovane bruna, ammantata in una specie di
cappa giallo oro che tiene nella mano alzata due lampadine elettriche
– ha ottenuto il più strepitoso successo in tutti i teatri di
varietà del mondo. (uno del pubblico: Bum!; ma l'imbonitore dalla
facile loquela, imperterrito, continua). Il suo corpo andrà ad
essere caricato nell'interno da alte correnti elettriche da 125 a 700
volts che potrebbero causare la morte della fanciulla. Ma anche più
sorprendente sarà la catena umana da dieci a venti persone che
formeranno il cerchio della morte giachè ad esse questa fanciulla
trasmetterà la corrente elettrica di cui è carico il suo corpo
provocando l'accensione di queste lampadine”. Il professore –
come lo ha chiamato colui che sembra il direttore della baracca
pomposamente chiamata padiglione scientifico – ha finito. Il
direttore stesso narra allora la dolente istoria di Kaly la schiava
degli indiani. E' costei una figura di donna che s'intravede formosa
sotto un ampio manto, per esso giallo-oro e che nasconde il volto
sotto un fitto velo bianco come usano le donne orientali. “Kaly –
spiega il secondo imbonitore dallo scilinguagnolo anche più sciolto
del “professore” - fu fatta schiava dagli indiani ed il suo corpo
tatuato dalla gola ai piedi. Sono di così grande valore i suoi
tatuaggi che il suo corpo fu comperato dal Museo di Londra. Signori,
lo spettacolo va a cominciare. Avanti, si paga la misera e vergognosa
moneta di una lira. Una sola lira per mezz'ora di spettacolo
scientifico che a Milano, Torino, Napoli, Roma, costava quattro o
cinque lire. Avanti, avanti, signori. Numerosi altri spettatori
attendono nell'interno. (Alza il lembo della portiera e dentro non si
vede anima viva; allora la cala in fretta e furia e poiche nessuno
del pubblico si muove,scende in mezzo a loro a distribuire mezzo
decimetro quadrato di carta sul quale sono esaltati i due mirabolanti
fenomeni viventi). Molti tiran via, altri entrano. Quando s'è fatto
un gruppo d'una ventina di persone, lo spettacolo meraviglioso ha
cominciamento. Il corpo della donna fulmine accende le lampadine
elettriche, naturalmente con una corrente che anche un innocuo
sorcetto casalingo tollererebbe; Kaly è tatuata...con le calcomanie.
Ecco i fenomeni viventi. Tutto qui? Sì, e un franchino è un po'
troppo. Ma v'è l'arte dell'imbonitore nel darla a bere e il fiato
suo vale pur qualcosa anche se elargisce con troppa facilità
l'appellativo di ignorante a chi a chi non entra perchè non è né
gonzo né tonto e perchè pensa che una liretta non è una moneta
vergognosa, ma rappresenta bensì venti soldi, cento centesimi e ci
vuol tempo e fatica a guadagnarli. E tiriamo avanti. Un qualche cosa
che vorrebbe parere la tolda d'una nave, un puzzo nauseabondo di
salsedine, un giovanotto in candida tenuta di marinaio e stivaloni di
gomma, un uomo in maniche di camicia che urla a perdifiato in un
portavoce di latta: il cane marino ammaestrato, lo spettacolo va a
cominciare. Su ampi cartelloni si vedono riprodotte belve feroci
d'ogni regione della terra. Anche qui un franchino per entrare. Ma
bisogna riconoscere che se altre belve non vi sono da vedere
all'infuori di un orsacchiotto, quattro scimmiette ed un serpente,
quella povera foca che guizza come un pesce in una vaschetta di
qualche metro quadrato e si rizza poggiandosi alla ringhiera con le
zampe, strepitando come un'ossessa, ben si guadagna la liretta coi
numerosi esercizi che il suo domatore le fa eseguire.
Lasciamo
andare il teatro meccanico col ciabattino, il materassaio ed il
maniscalco che ci meravigliarono bambini, trent'anni fa; sorvoliamo
sul globo della morte perchè ornai è da maggio che Cremona lo
conosce; né ci interessala predizione dell'avvenire che si può
ottenere con un ventino da da uno dei tanti – oh, quanti! -
meccanismi a forma di cuore, disseminati in ogni canto del piazzale,
meccanismi
i quali, se tu chiedi “Sarò felice?”, ti rispondono “domani
piove”; né ci indugeremo a parlare del palazzo misterioso perchè
tutti i “morosi” sanno cos'è, e nemmeno della donna cannone
perchè di moli come la sua ne vediamo passeggiare alcuni esemplari
anche per Cremona, senza meravigliarci; non ci cureremo neppure del
museo anatomico, antico quanto le fiere, e nemmeno dei baracconi
degli specchi che deformano le nostre immagini, per correre
direttamente a vedere Ramayana. Qui l'imbonitore è in camice bianco
come l'infermiere di una qualunque guardia medica; ma un uomo in
camice bianco, sul palco di una baracca da fiera, è un'attrazione.
Ramayana è un nome sonoro, ricorda una canzone in voga, “Ramona”,
ed una chitarra da caffè concerto; un pizzico di esotismo che basta
a far lavorare di fantasia anche che non ne ha voglia. La gente si
accalca li dinanzi e spera di vedere forse una ballerina selvaggia
con gli anelloni d'argento al naso ed alle orecchie e invece...brrrr:
un fenomeno vivente ma di quelli che fanno raccapricciare; nientemeno
che una donna senza testa.
-Senza
testa?
-Sì,
senza testa...visibile. Cioè la testa ce l'ha ma non si vede: fuori
è coperta da un pezzo di tela bianca (chissà come deve respirare
male, povera donna!, e dentro la baracca è dietro a due specchi
messi ad angolo che, riflettendo le pareti tutte di egual colore
della cabina nella quale sta seduta, danno l'illusione ottica che la
poveretta sia senza testa.
-Ci
son tanti uomini senza testa in giro – diceva iersera una signora
arguta -, che non vale proprio la pena di spendere una lira per
vedere una donna.
Risa
generali di quelli ch'eran vicini e squagliamento generale. Ma
l'imbonitore in camice bianco, dopo aver levato gran rumore
sbatacchiando ripetutamente un gong di nuovo genere, accarezza e
batte le sue mani su quelle della sventurata ragazza per persuadere
il pubblico dell'autenticità di esse e quindi comincia la dolorosa
istoria dell'unico fenomeno del genere. E il pubblico ascolta
incuriosito. “Spettabile pubblico – e anche lui dimentica
l'inclita guarnigione. Che si sian tutti passata la parola? - questa
giovane ragazza ha 20 anni e 4 mesi, è figlia del celebre
esploratore Williams Persyl che nel settembre 1926 seguì il padre in
una esplorazione nelle Indie: una notte i componenti la spedizione
furono catturati da un gruppo di indiani. Il capo dei quali, dopo
aver tentato di sedurre questa disgraziata ragazza, la fece torturare
e poi le fece tagliare la testa. Faceva parte della spedizione il
celebre chirurgico tedesco Beckmann di Berlino, il quale avrete
certamente sentito parlare sui vostri giornali. Questo scienziato
volle studiare e sperimentare il corpo di questa povera ragazza per
farla vivere senza testa. E vi riuscì perchè da oltre due anni
questa disgraziata vive senza testa come voi vedete, nutrendosi per
mezzo di un tubo di gomma di uova, brodo e latte. Signori, questo
fenomeno della scienza è stato visitato da medici, chirurgici,
autorità per avere i nostri permessi; potete vederlo anche voi
entrando nel padiglione, ma non sdraiata come è adesso, ma seduta
sulla sedia a muoversi. Noi siamo reduci da Parigi, la Spagna,
Londra, Berlino, premiati con medaglia d'oro all'esposizione di Roma
e Milano, ora siamo in questa nobile città di Cremona. Avanti,
avanti, con una lira venite a vedere la donna senza testa per tre
giorni soltanto, (oggi dirà due), fenomeno vivente a Cremona”.
Meno male che l'imbonitore è sincero: senza testa per tre giorni
soltanto. Dopo la riavrà, poveretta!, anche in pubblico e non
solamente in privato come ora. Ma il baraccone fa affari d'oro.
Nessuno crede al fenomeno vivente, neanche il più candido ingenuo,
ma tutti entrano a vedere seduta sulla sedia la povera ragazza senza
testa, e la più parte escono domandandosi con profondo
convincimento: ma non l'avrà proprio, la testa?».
Decisamente
movimentata l'edizione del 1931, con la fuga di un leone dal
serraglio. La sera del 30 giugno i posti sono gremiti per assistere
all'attrazione annunciata: il parrucchiere di porta Po Attilio
Pernice deve entrare nella grande gabbia circolare posizionata al
centro del padiglione per radere il domatore mentre tiene a bada tre
leoni, un maschio maestoso, una femmina e quello che tutti ritengono
essere un leoncino, ma che in realtà è un leone adulto nano. Il
programma si svolge regolarmente: gli esercizi degli orsi bianchi, le
acrobazie di un puma, le iene che saltano il cerchio, gli stessi
leoni. Tranne uno, proprio quel leoncino che si rifiuta di eseguire
gli esercizi, rispondendo con ringhi furiosi agli scocchi di frusta
del domatore e rifugiandosi sotto gli sgabelli, al punto che il
domatore decide di interrompere il numero per passare al seguito, con
una gara di lotta greco romana tra un lottatore di una settantina di
chili ed un gigantesco orso bruno che, ovviamente, si conclude con la
vittoria del primo, dopo un ultimo assalto furioso dell'animale
respinto a colpi di frusta. Il pubblico è eccitato ed anche
intimorito dalla piega che ha preso la spettacolo, quando, accolto
dagli applausi, entra nella gabbia il parrucchiere Pernice sedendosi
su uno sgabello collocato nel centro, brandendo il suo lucente rasoio
con una mano e con l'altra fumando una sigaretta. Con sorriso
sprezzante, vestito di tutto punto nella sua giacca bianca da lavoro,
osserva il “leoncino” percorrere il corridoio in ferro che
conduce alla gabbia, lanciandogli la sua sfida. Ma l'animale ruggisce
e torna sui suoi passi. Il circo in cui si svolge lo spettacolo è
costituito da un rettangolo lungo una ventina di metri e largo la
metà, lungo il lato principale di accesso corre una balconata,
mentre sul fronte opposto sono posizionate le gabbie degli animali
collegate l'una all'altra da un passaggio costituito da sbarre di
ferro a forma di U rovesciata. Le belve, uscendo dalle gabbie entrano
nel corridoio che consente di raggiungere la grande gabbia centrale,
il corridoio ha due cancelli: uno immette alla gabbia e l'altro, sul
fronte opposto, verso il lato estremo del serraglio. I posti
principali per il pubblico sono dislocati sui due lati brevi del
rettangolo della pista. Per una disattenzione non viene chiusa bene
quest'ultima uscita e proprio da questo varco insperato esce il
leoncino che si era rifiutato di entrare nella grande gabbia centrale
e con un balzo compare ruggendo in mezzo al pubblico. Gli spettatori
delle prime file lanciano urla di terrore, si alzano e cercano di
guadagnare l'unica uscita, pigiandosi gli uni sugli altri, le madri
afferrano disperate i bambini, le balaustre cedono sotto il peso,
altri si accalcano in uno stretto pertugio tra le gabbie cercando di
sollevare il tendone e guadagnare la salvezza all'esterno. Nel
trambusto generale, il leone, impaurito, si è nel frattempo
rifugiato sotto le gabbie che racchiudono il puma, l'orso bruno ed un
esemplare di leopardo. Ma nessuno si è curato di lui, tutti cercano
urlando di mettersi in salvo. Molti cercano rifugio nella stessa
gabbia centrale, dove i guardiani hanno chiuso il corridoio delle
belve per lasciare entrare dai cancelli gli spettatori impauriti. Ad
evitare conseguenze peggiori contribuisce il tempestivo intervento di
cinque agenti di Ps e di alcuni carabinieri della vicina stazione di
porta Po, che riescono a riportare un po' di ordine tra i fuggitivi.
Molti hanno trovato rifugio nelle vicine osterie, ed altri negozianti
sono corsi ad armarsi di pistole. Il leone, dal canto suo, impaurito
non abbandona il suo rifugio, braccato da militari e agenti giunti a
dar man forte ai loro colleghi. Gli addetti del circo collocano una
gabbia portatile accanto alla gabbia dove il leone è nascosto,
costringendo l'animale ad entrarvi a forza di punzecchiature di
forcone. Verso mezzanotte il trambusto è finito,ma il circo è stato
distrutto dalla folla terrorizzata. E non è neppure la prima volta.
Cinque anni prima, proprio il 30 giugno 1926, quattro leoni erano
fuggiti da un circo equestre che aveva piantato le tende a porta
Venezia e per più di un'ora avevano scorrazzato per la città,
divorando un gatto, azzannando il cavallo di un vetturino e
concludendo infine la fuga nella chiesa dei frati Cappuccini di via
Brescia.
Terminata
la guerra, nel 1948 la fiera di San Pietro torna in gran parte
rinnovata. Arriva il “Wall of death”, il muro della morte, che
presenta una troupe esclusivamente femminile: quattro donne che
girano vorticosamente in moto e bicicletta sulla pista realizzata in
un cilindro verticale in legno, inventa in America agli inizi del
Novecento e diffusa in Europa dal 1937 quando un pilota marciano, Bob
Carew, ne costruì una in Olanda per iniziare una lunga tournèe che
lo portò fino in Russia. L'attrazione è curata da Gustavo Cottino,
conosciuto come “il re degli imbonitori”, uno dei maggiori
impresari del “Wall of death”. In via Ruggero Manna c'è il
padiglione “Dalla terra alla luna”, una specie di castello
incantato da cui entrano ed escono le solite carrozzelle e il “bob
canadian” a cui si sale con un tappeto girevole per poi scendere
attraverso un canale che compie evoluzioni vorticose. Dopo vent'anni
di assenza torna anche la ruota panoramica. Nel 1952 arrivano i
piccoli aeroplani, comandati da volante ed agganciati ad un braccio
snodabile di ferro: sono una vera novità, in quanto la giostra è
stata brevettata solo un anno prima dal suo inventore, Albino Protti,
un geniale meccanico con la passione del volo che, assemblando
residuati bellici come i serbatoi degli aeromobili o le ralle dei
carriarmati, aveva creato nel 1939 la prima giostra aerea. Ma le
dimensioni delle nuove giostre, a causa della ridotta disponibilità
di spazi del piazzale di porta Po, impongono ormai la necessità di
ripensare la dislocazione delle attrazioni della fiera di San Pietro
in un'altra sede più adatta.
Nel
1956 i padiglioni delle giostre dal piazzale di porta Po si
trasferiscono nell'attuale ubicazione in largo Marinai d'Italia:
l'area, dislocata su una superficie di circa 12 mila metri quadrati
raggiungibile con due rampe in terra battuta, è stata ricavata
abbattendo una boschina che ora costituisce una sorta di recinto
attorno al Luna Park. I banchi dei venditori ambulanti, nonostante le
riserve manifestate in un primo tempo, dall'originaria dislocazione
lungo corso Vittorio Emanuele, compresa tra piazza del Comune e
piazza Cadorna, e le vie limitrofe, vengono allineati lungo il lato
destro di viale Po, dal ponte del Morbasco fino alla barriera
daziaria. Per l'occasione viene allargata la sede stradale
raddoppiando la pista ciclabile già esistente sul lato destro e, a
livello sperimentale, vengono installate le prime panchine di marmo.
Nelle operazioni preliminari al trasferimento vengono segnati 307
posteggi, in gran parte assegnati a sorteggio. Da un punto di vista
merceologico 51 banchi vendono tessuti, 43 bancarelle offrono
calzature e bigiotteria, 33 sono i banchi di mercerie, 11 vendono
ceramiche, 5 espongono quadri artistici, 12 sono di giocattoli, 28
vendono dolciumi, 3 pizzi e merletti fiorentini ed infine 10
bancarelle offrono gioielleria. Conclude la sfilata il banco di
torrone di Antonio Zucchelli, il decano degli ambulanti cremonesi.
Per
la prima volta la fiera gode anche di un accompagnamento sonoro,
affidato alla ditta Walter Gorno: lungo il viale viene installato un
gigantesco impianto di amplificazione con venti altoparlanti ed una
cabina centrale di trasmissione collegata telefonicamente con due
punti della fiera che, all'occorrenza può servire per eventuali
segnalazioni di smarrimenti o necessità di soccorsi urgenti.
Da
qualche anno si parlava della necessità di trasferire la fiera di
San Pietro in altra zona, sia perchè la dislocazione dei banchi
merceologici lungo corso Vittorio Emanuele era causa di notevoli
disagi per il traffico urbano, sia in quanto le dimensioni del
piazzale di porta Po, oggetto di ristrutturazione con l'inserimento
della fontana e lo spostamento delle linee aree dei filobus,
limitavano pesantemente le esigenze del Luna Park per le dimensioni
raggiunte dalle moderne attrazioni. Nell'edizione del 1954
l'ottovolante era stato confinato in fondo allo slargo di via
Bissolati ed i padiglioni si addossavano completamente alle
abitazioni. Altri padiglioni erano stati innalzati in via Ruggero
Manna e via Porta Po vecchia , tra le proteste dei residenti, mentre
il Prefetto, per ragioni di decoro, aveva vietato lo stazionamento
delle bancarelle davanti al palazzo del Governo. Nel 1955 le
bancarelle erano tornate a disporsi in corso Vittorio Emanuele, e per
la prima volta dal 1915, quando erano state spostate per installare
la linea tranviaria, in doppia fila. Tuttavia la fiera di San Pietro
rischiava un notevole ridimensionamento ed all'amministrazione
comunale si erano prospettate due soluzioni alternative: l'area a
destra della via del Porto, di proprietà della Società Canottieri
Baldesio, utilizzata dalla Società ippica, e l'area a sinistra della
stessa via, di proprietà demaniale. Il Comune aveva optato per
quest'ultima ed iniziato le relative pratiche con l'Intendenza di
Finanza, che ha ceduto l'area solo nel giugno 1968.