mercoledì 26 dicembre 2018

La vera origine del torrone

Quando, secondo la leggenda, quel lontano 25 ottobre del 1441 il torrone comparve sulla tavola degli invitati al matrimonio tra Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza, non era certo la prima volta. Il dolce era sicuramente ormai noto da secoli ai cremonesi. Addirittura da millenni, se dobbiamo credere a Tito Livio, che racconta come una barretta dolce a base di semi oleosi, miele e albume, chiamata “cuppedo” fosse l'alimento abituale dei soldati durante le lunghe marce. Marco Terenzio Varrone nelle Satyre Menippeae, composte tra l'80 ed il 46 a.C., racconta che la “cuppedo”sarebbe stata inventata dai Sanniti. Ma è il solito Apicio, il gastronomo per eccellenza, che nel De Re Culinaria descrive la ricetta di un dolce preparato con noci, miele e albume d’uovo, chiamato nucatum che i Romani potrebbero aver mutuato dal medio oriente ellenistico, dove, già prima dell’Islam esistevano dolci secchi fatti con mandorle o granella di noci e nocciole, farina e miele. E' proprio con l'espansione islamica irradiatasi nel Mediterraneo dalla penisola arabica, che la medicina islamica, erede della medicina greca e persiana integrata con nuove scoperte, diffuse nel mondo occidentale l'interesse verso il cibo in riferimento alla cura del corpo. Tra il IX e il XII secolo, dall’Andalusia a Baghdad fiorirono i manuali della buona salute e i compendi di medicinali composti o di alimenti usati come medicinali semplici inaugurati dal Canone di Avicenna. Nel corso dell’XI secolo due medici arabi, ibn Butlan e ibn Jazla compongono due manuali di interesse medico in cui inseriscono una serie di vere e proprie ricette. Re Manfredi cura in Italia meridionale la versione del Taqwim as sihha di Butlan, che prende il nome di Tacuinum sanitatis. Mentre Carlo I d’Angiò si dedica al Tacuinum aegritudinis di Jazla. Il minhaj al-bayan di Jazla viene poi compendiato da Giambonino da Cremona in lingua latina a Venezia verso la fine del XIII secolo. Agli inizi del Trecento la compilazione di Giambonino viene inserita in una raccolta miscellanea per Carlo II d’Angiò in cui compaiono anche gli altri due libri di cucina che viene poi trasferita verso la fine del secolo in Francia presso il duca di Berry che a sua volta nel 1404 la dona ad una fondazione religiosa. Contemporaneamente in Italia settentrionale sulla base del Tacuinum di Butlan si compilano il Tacuinum Sanitatis illustrato con le miniature di Giovannino de’ Grassi e nel Quattrocento si traduce in tedesco il Liber de ferculis di Giambonino in una università dell’Italia settentrionale, probabilmente Padova. Nel XVI secolo, infine, a Damasco Andrea Alpago utilizza il testo arabo di Jazla per compilare un glossario arabo-latino al Canone di Avicenna, la “Interpretatio arabicorum nominum”  stampata a Venezia nel 1527, mentre nel 1532 Schott pubblica a Strasburgo i Tacuini di Butlan nella versione integrale in latino a cui fa seguire l’anno seguente quella in tedesco. Capiamo così come, quando non è sufficientemente spiegata una preparazione in uno di questi testi, possa venire in aiuto il confronto con opere analoghe dello stesso contenuto. E' proprio nei trattati di Ibn Buṭlān e Ibn Jazla, a cui si aggiunge in Andalusia  il Libro dei medicinali semplici di Abenguefith Abdul che si trovano le ricette di un tipo di dolce secco che è il diretto precursore del moderno torrone. Nelle Tavole della Salute di Butlan e nel Cammino  dell'esposizione di Jazla (cristiano convertito all’Islam), composte nel califfato abbaside di Baghdad nell’XI secolo, nella parte riservata ai dolci secchi compare il Chaloe (in arabo halawa), di origine greca, indicato per febbri, tosse o dolori reumatici: dalla ricetta risulta preparato con noci, mandorle o pistacchi e aromatizzato con spezie. Manca l’albume, ma la variante bianca è ottenuta tramite la lavorazione dello zucchero, come si legge nel Compendio delle vivande (Kitab al-Tabikh) del medico Al-Baghdadi, vissuto nel XIII secolo: «Sciogli lo zucchero in acqua e fallo addensare bollendo, poi versalo su un piano, battilo e tiralo finchè diventa bianco, impastaci pistacchi o mandorle, taglialo in stecche o rombi e dallo a chi vuoi».
La Festa del torrone a Cremona
In Andalusia Abenguefith Abdul Mutarrif, medico e farmacista nel  Libro dei medicinali semplici, tratto da Dioscoride e Galeno, nel descrivere le virtù terapeutiche del miele, cita un dolce che chiama “turùn”, composto di mandorle tostate, miele, zucchero e acqua di rose, ricoperto da una sottilissima cialda, indicato per febbri, patologie polmonari e dolori reumatici. Il Libro dei medicinali semplici viene tradotto dall'arabo in latino a Toledo da Gherardo da Cremona tra il 1135 e il 1170. Quando Gerardo morì, la sua ricchissima biblioteca di testi arabi fu trasportata a Cremona, nel convento di Santa Lucia. Il compendio arabo contenente la ricetta del Turùn nella versione latina di Gerardo divenne “Liber Abenguefiti de virtutibus medicinarum simplicium et ciborum”. Il manoscritto originario è conservato alla Bibliotheque Nàtionale di Parigi ma una copia è conservata alla Biblioteca Statale di Cremona, inclusa nella versione a stampa di Johann Schott (impressa a Strasburgo nel 1532) che contiene, come abbiamo visto, anche le Tavole di Ibn Butlan e i Taccuini della Salute di Ibn Jazla.
Il torrone dunque era certamente conosciuto a Cremona ben prima del matrimonio tra Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza, attraverso la mediazione dei traduttori dall'arabo, i commerci con la Spagna e l'Oriente arabo, senza dimenticare l'antico cibo energetico latino e, dunque, come altre preparazioni gastronomiche, frutto di un'originalissima contaminazione. Vi è poi chi ha creduto che lo stesso termine “torrone”, anziché da un'improbabile torre, possa derivare dal termine spagnolo turròn, deverbativo di turrar (“tostare”) a sua volta derivante dal verbo latino torreo che significa «seccare, tostare, abbrustolire». E' possibile che il termine spagnolo turùn, dal latino torreo, sia stato utilizzato dagli arabi del califfato di Cordova per quel dolce conosciuto variamente come qubbayt (o qabitqabut, “mandorlato”), oppure in Sicilia come giuggiolena (con riferimento al sesamo), o halawa attingengolo dal volgare spagnolo, derivante a sua volta dal latino.
Nulla di strano: le contaminazioni con il mondo arabo a Cremona sono piuttosto frequenti ed investono diversi settori. Ad iniziare proprio dalla gastronomia. Nel “liber de ferculis” di Giambonino da Cremona, traduzione in latino un estratto della monumentale enciclopedia scritta a Bagdad da ibn Jazla nella seconda metà dell’XI secolo, sul finire del XIII secolo troviamo per la prima volta la descrizione di un tipo di pasta ripiena, il sambusuch, che è il diretto precursore dei moderni ravioli e dei più nostrani marubini: il sambusuch, una pasta di forma triangolare destinata ad essere farcita con un ripieno di carne per poi essere lessata o fritta. Per il ripieno viene usato un altro termine: Mudacathat, che Giambonino così descrive: “E’ migliore perché è fatta con carne di montone: ed è calda e umida e rafforza il corpo e conviene a quelli che sono consunti per stravizi o per lavoro o per afflizione o angoscia o paura e provoca nausea, e il suo danno si rimuove con acqua di sommacco. E si fa così, ed è chiamata mudacathat di canfora: prendi petti di gallina e tagliali in piccoli pezzetti e aggiungici una libbra di carne di montone e tagliala con un coltello in piccoli pezzetti e mescolaci 20 dracme di grasso di pollo ovvero strutto di pollo, e rimestalo nella pentola fino a che il grasso si sia ben mescolato con la carne, e aggiungici 2 dracme di salgemma e 20 dracme di cipolla bianca tagliata fina, e un poco di coriandolo e cannella, e quando ti sembra che abbia un buon sapore, aggiungici una libbra di acqua, e fai bollire finchè sua mezzo cotto; e poi prendi 30 dracme di mandorle pelate e pestale con acqua di rose facendole  diventare come latte, e aggiungilo e mescolalo nella pentola, e getta nella pentola un pugno di ceci puliti e un sacchetto di lino in cui sia racchiuso comino e zenzero pestati, e quando è cotto versaci sopra due uova sbattute e mescola; e dallo a chi vuoi”.
E’ possibile che Giambonino possa essere un prosecutore di Gherardo, anche se lavora e traduce a Venezia che, peraltro, ha intensissimi contatti commerciali con Cremona. Quasi sicuramente era un medico, come attesta il titolo di “magister” che gli viene attribuito in calce al manoscritto ed esperto della lingua araba, anche se è possibile si facesse affiancare da un parlante di madrelingua, forse un mercante, che potesse aiutarlo nel reperire l’esatta corrispondenza degli ingredienti, delle spezie o delle erbe. Anna Mantellotti colloca la stesura del liber intorno agli ultimi trent’anni del Duecento e ne fa un episodio isolato che non si inserisce in una scuola di traduttori ma piuttosto in quella cultura medica nata negli ambienti universitaria di Padova e Bologna. A questo proposito Enrico Carnevale Schianca propone di identificare il nostro Giambonino con il medico Zambonino da Gazzo, insegnante di filosofia all’università di Padova nella seconda metà del Duecento e morto nei primi anni del secolo successivo.
La Festa del torrone
Le vicende storiche attraversate dalla città testimoniano una frequentazione continua con l'oriente. Rapporti costanti si hanno a partire dal 1090 quando, in Terra Santa, si alternano per qualche tempo governatori cremonesi e, dal 1155, la città ottiene il diritto di battere moneta, tolto a Milano, il che significava possibilità di controllare il traffico delle materie prime destinato ai mercati locali e transalpini. Gli interessi commerciali condizionarono la storia di Cremona per tutto il corso del XII secolo. La perfetta integrazione tra commerci terrestri ed il controllo delle vie d'acqua fluviali, ottenuto mediante alleanze e trattati con le città vicine, uniti al caposaldo in Terra Santa e all'autonomia comunale protetta dall'autorità imperiale con un sodalizio che durava ormai dai tempi del Barbarossa, costituirono gli elementi che permisero alla città di raggiungere, tra il 1226 e il 1267, l'apice della potenza economica. Durante la signoria del Pallavicino i mercanti cremonesi figuravano tra i frequentatori abituali delle fiere di Champagne, e tramite navi di Venezia, Genova e Pisa, dei mercati di Barcellona, Valenza e Maiorca, giungendo fino a Costantinopoli, dove l'ufficio di cambio era diretto allora da due cremonesi. Condizioni particolarmente favorevoli avevano poi spinto i mercanti di Montpellier a scegliere fin dal 1254 la città padana come caposaldo delle operazioni con l'Adriatico e gli stessi trafficanti toscani ed umbri avevano costituito qui un polo mercantile per le stoffe di Valenza e Londra.

Ma soprattutto Cremona era la corte del più grande mediatore culturale del Medioevo, Federico II, che nella città, diventata il quartier generale dell'esercito imperiale già prima della battaglia di Cortenuova del 1249, soggiornò almeno diciotto volte a partire da quel luglio 1212 quando, appena diciassette e braccato dai milanesi, fu salvato ed accolto dai cremonesi. Costante nell'esercito di Federico era la presenza degli arcieri saraceni che, per testimonianza dello stesso Pier Delle Vigne, a Cortenuova combatterono accanto ai cremonesi, armati delle loro lunghe picche. E sicuramente, nella metà del XIII secolo, non ci si stupiva di vedere girare per le strade di Cremona l'elefante di Federico con il suo codazzo di assistenti arabi, medici, gastronomi, guerrieri, architetti e scienziati. Una presenza che, sicuramente, è stata fondamentale anche per lo sviluppo culturale e artistico della stessa città. Il Torrazzo, diretta derivazione da minareti realizzati nell'area magrebina e spagnola intorno alla fine del XII secolo, ne è l'esempio più fulgido. 

Arriva la streptomicina americana

La streptomicina è stato uno dei primi antibiotici usati nella lotta alla tubercolosi, isolato per la prima volta in America nel 1944, in piena guerra mondiale. La fabbricazione industriale iniziò due anni dopo, nel 1946, ma in Italia restò un miraggio fino al 1947. Nel 1946-47 il ritmo di produzione fu di circa 100 chilogrammi al mese ed il prezzo era molto elevato. Nel luglio del 1947, per interessamento del direttore della Clinica pediatrica dell'Università di Parma Alessandro Laurinsich, l'Alto commissariato per la Sanità, pur essendo le scorte italiane ancora molto scarse e totalmente dipendenti dalle forniture d'Oltreoceano, concesse un piccolo quantitativo del miracoloso antibiotico alla clinica parmense, accendendo le speranze dei tanti malati di tbc. Quella che vogliamo raccontarvi è una di queste storie che, settant'anni fa, ebbe protagonista il primo cremonese curato con questo farmaco grazie ad una straordinaria gara di solidarietà che coinvolse tutta la provincia.
Il 27 agosto 1947 era approdata al porto di Genova la prima nave carica di rifornimenti proveniente dagli Stati Uniti, tra cui le preziose fiale di streptomicina e penicillina, e veniva annunciato l'arrivo del piroscafo Extavia che avrebbe trasportato altre tremila fiale di streptomicina e 40 miliardi di unità di penicillina che il governo italiano avrebbe ricevuto a titolo gratuito nell'ambito del programma di aiuti AUSA. Alla vigilia di Natale le navi americane arrivate in Italia erano già duecento, ed avevano trasportato 418.000 tonnellate di grano e farina, 1.345.000 tonnellate di carbone, 9000 tonnellate di generi alimentari e 16.000 grammi streptomicina. E nella biblioteca del nostro ospedale maggiore lo stesso professor Laurensich poteva illustrare nel corso di una conferenza scientifica davanti a tutti medici della provincia le applicazioni pratiche del nuovo antibiotico nella lotta alla tbc.
Liliana Bestetti
Mentre nel porto di Genova si susseguono senza sosta gli sbarchi delle navi americane all'Ospedale di Cremona viene ricoverata d'urgenza verso la fine di marzo una ragazza di sedici anni: si chiama Liliana Bestetti, figlia di una dipendente dell'Eam. Sembra trattarsi del decorso di una comune malattia, ma si scopre che la giovane ha contratto una grave forma di meningite tubercolare. Sembra sia condannata, ma i medici riaccendono la speranza della madre. Esiste una medicina forse in grado di salvare Liliana, è la streptomicina, che in casi analoghi ha già dato risultati sorprendenti. Ma il farmaco è molto caro e la madre non è in grado di sostenere da sola la spesa necessaria. Viene lanciato un appello sul giornale “La Provincia” per trovare la cifra necessaria all'acquisto immediato di alcune fiale. Il primo che si presenta con mille lire è il parroco della Cattedrale, monsignor Carlo Boccazzi: A partire da lui inizia una gara di solidarietà sorprendente, se solo pensiamo alle condizioni economiche in cui si trovava la provincia nell'immediato dopoguerra. In breve vengono raccolte centomila lire. La prima fiala viene recuperata il 1 aprile e offerta dai farmacisti Bersellini, Pettenati, Mola e Leggeri al padre della ragazza che a sua volta consegna il prezioso farmaco al dottor Bongiovanni, che ha in cura la ragazza. Per tutta la giornata si susseguono gli arrivi di gente che vuol donare qualcosa: “Bambini che porgevano le loro duecento lire e dichiaravano di voler celare il nome dietro la tradizionale sigla 'N.N.', enti, ed associazioni che inviavano la loro offerta cospicua, poveri popolani ed appartenenti a famiglie cospicue che offrivano l'obolo, proporzionato alle loro possibilità. Alla sera alla mamma di Liliana, che piangeva di gioia, avevamo la grande soddisfazione di versare la somma raccolta in questa prima giornata: Ripetiamo: centomila lire. E' stato per noi motivo di gioia e di orgoglio vedere la meravigliosa risposta dai nostri lettori. Lanciando la sottoscrizione, eravamo sicuri della loro adesione, perchè conosciamo il gran cuore dei cremonesi; ma non avremmo mai ritenuto di poter raccogliere, in un giorno solo, una cifra tanto cospicua”. Ma purtroppo servono ben 500.000 lire per effettuare una cura completa: una fiala da un grammo di streptomicina costa 5.200 lire e ce ne vorrebbero almeno novanta. Bisogna fare alla svelta, il tempo stringe per salvare la piccola Liliana.
Dopo le prime iniezioni, peraltro, le condizioni di Liliana sembrano migliorare: si sono attenuati un poco i dolori lancinanti e la giovane ammalata sembra un po' più sollevata, anche se permane una certa preoccupazione. Infatti, scrive il giornale :”Pare anche che la cura debba essere continuativa. Una brevissima sospensione, e non soltanto quel che è stato fatto è annullato, ma le iniezioni fatte in epoche successive, non danno più nessun risultato. Da qui la necessità della sicurezza all'inizio della cura, di potersi provvedere di tutta la streptomicina necessaria per un intervento completo. Ma a Liliana, non mancherà la streptomicina. Anche ieri, è stato un commovente affluire di offerenti, alla nostra amministrazione. Anche ieri, alla chiusura dei conti, si è visto che erano state raccolte altre centomila lire, che, come quelle di ieri l'altro, sono state subito versate alla famiglia della giovinetta ammalata. La quale, informata dai suoi del meraviglioso impeto della cittadinanza che con le sue offerte vuole soccorrerla, ha pianto”. E il giornale, nella speranza di raccogliere la cifra restante, pubblica per la prima volta la foto della ragazza, coi lunghi capelli scuri ed un sorriso appena accennato.
La ragazza continua a migliorare. Tra le offerte alla redazione giunge anche la letterina di un bambino di sette anni: “Cara bambina, ti ho già fatto ieri un'offerta coi miei fratellini, ma oggi ti porto queste 500 lire che mi ero messo via per comperarmi un'automobilina. Così portai guarire e ritornare a giocare anche tu, perchè malati si sta proprio male. Presto faccio la mia prima Comunione e pregherò per te. Guarisci presto, così la tua mamma non piangerà più. Ricordo che anche la mia mamma piangeva sempre e tanto quando anch'io fui tanto malato perchè mi feci male alla testa, cadendo. Addio, cara Liliana. Quando sarai guarita, ricordati di me, che sono Mario La Polla”.
Nel frattempo il 3 aprile vengono raccolte altre 200 mila lire e l'obiettivo è sempre più vicino. La ragazza riceve la vista di monsignor Carlo Boccazzi, che racconta di averla trovata migliorata e lucida, e la speranza di una guarigione si rafforza anche nei medici. Il 5 aprile alle 17 viene chiusa la sottoscrizione in quanto viene raggiunta la cifra necessaria: tra le offerte giunte spicca quella degli ospiti polacchi del campo profughi allestito nella caserma Pagliari, reduci dai campi di concentramento tedeschi e tre fiale di streptomicina donate dal dottor Dino Soavi di Corte de' Frati. Liliana, dunque, migliora, anche se i medici non sciolgono ancora la prognosi, in quanto la meningite tubercolare, almeno sino a quel momento, era ritenuta una malattia quasi sempre mortale, nonostante la streptomicina si sia dimostrata in grado di operare guarigioni che hanno del miracoloso. La vicenda di Liliana ha però dimostrato quanto sia necessario dotarsi di una certa disponibilità del nuovo antibiotico, senza dove ricorrere ogni volta che se ne prospetti la necessità alla generosità popolare. Ecco allora che nasce la proposta di costituire un fondo speciale con cui garantire la fornitura delle provvidenziali fialette, sia perchè Liliana possa continuare la cura, sia per tutti quanti ne avessero la necessità. Qualche fiala è posseduta dall'ospedale, qualche altra è in dotazione agli uffici sanitari incaricati della distribuzione, ma se solo si ammalassero tre o quattro persone contemporaneamente sarebbe del tutto impossibile curarle e potrebbe accadere quanto successo con la penicillina che, seppur ormai disponibile a prezzi ragionevoli, resta tuttavia irraggiungibile per le famiglie prive di mezzi per curarsi. La sottoscrizione permanente potrebbe quindi garantire una certa disponibilità di streptomicina anche per i più poveri. “Questo fondo - osserva il giornale – potrebbe eventualmente, essere amministrato dal Comune o dall'ente comunale di assistenza o dall'ospedale. In casi di comprovata necessità e di reale urgenza, i sanitari saprebbero dove rivolgersi”. Nel frattempo l'Alto Commissariato per l'igiene e la sanità pubblica assegna alla Prefettura di Cremona una discreta fornitura del farmaco, da prescriversi a pagamento. Gli interessati dovranno presentare al medico provinciale un certificato dove sia specificata la malattia ed il quantitativo del farmaco eventualmente necessario. Viene data precedenza alla meningite tubercolare, alla miliare generalizzata acuta e alla laringite tubercolare con fenomeni disfagici. Il prezzo di vendita al pubblico viene fissato in 4000 lire al grammo, cui bisogna aggiungere l'imposta sull'entrata ed un sovrapprezzo di 20 lire per spese di distribuzione, per un totale di 4.180 lire a fiala. Il versamento del relativo importo va effettuato all'Ufficio medico provinciale, mediante vaglia della Banca d'Italia, intestato alla Prefettura di Cremona ed il flacone vuoto va restituito. Il fondo destinato all'acquisto di streptomicina compare nello spazio della “Buona usanza”del giornale.
Bisogna attendere la fine di maggio perchè venga istituito presso l'Ufficio Sanitario provinciale della Prefettura di Milano un primo centro regionale gratuito per la streptomicina AUSA, con centri di cura limitati in rapporto alla disponibilità del farmaco ad alcuni ospedali con pochi posti letto per ogni provincia. Le proposte di ricovero a Cremona vengono vagliate dal Consorzio Provinciale Antitubercolare che si fa carico di disciplinare l'ammissione alle sole forme che possono realmente trarne vantaggio. Un nuovo quantitativo di medicinale viene assegnato ancora a luglio, mentre a Castelleone si apre una nuova sottoscrizione di offerte per curare un reduce, Giuseppe Fusari, decorato con croce di guerra al merito.
Verso la fine di agosto il prezzo della streptomicina viene ridotto a 1480 lire il grammo, ed agli inizi di settembre, per iniziativa del presidente Ferragni, per la prima volta vengono messi a disposizione sei letti dell'ospedale maggiore di Cremona per i pazienti affetti da tubercolosi curabili con la streptomicina. Fino a quel momento, infatti, il commissario per la sanità inviava 80 grammi al giorno dell'antibiotico, destinato ad altrettanti malati dell'ospedale di Milano, con la prescrizione che il nosocomio ospitasse anche tubercolotici provenienti dalle province limitrofe in proporzione al numero degli abitanti. Ma le richieste erano talmente tante che solo i milanesi potevano essere curati, e solo un cremonese, dopo insistenti pressioni era stato accolto. In seguito alle insistente di Feragni vengono assegnati dieci grammi al giorno di streptomicina alla provincia di Cremona, sei dei quali destinati all'ospedale maggiore con l'obbligo di accogliere anche i pazienti di Casalmaggiore, e 4 a Crema che dovrebbe curare anche i malati di Soresina. Altre 200 fiale al mese vengono concesse ai malati indigenti bisognosi di cure, cento delle quali all'ospedale, che così può garantire la cura a tre malati al mese.
C'è però chi diffida della streptomicina e preferisce affidarsi alle cure della Madonna di Lourdes: è una bionda ragazza di ventotto anni di Casalmaggiore, Gina Cagnolati, ammalata da anni di polmonite bilaterale. Nel 1947 aveva deciso di andare a Lourdes in pellegrinaggio, si era immersa nella piscina, aveva pregato, ma non era successo nulla ed era tornata a casa ammalata come prima. “Ne ero sicura – racconta al giornale – Perchè ho sentito che non ero preparata, che non sapevo pregare con fervore. Mi ci voleva un altro periodo di raccoglimento e di attesa”. Ma dopo un mese dal ritorno la tubercolosi aveva avuto uno sviluppo repentino ed il medico, il dottor Fontana, aveva diagnosticato una laringite specifica. Ormai la sua voce era diventata impercettibile e la ragazza si chiudeva in casa per la vergogna. Il medico aveva consigliato una cura con la streptomicina: “Io non ho voluto fare l'esperimento. La streptomicina sarà un'ottima cosa, ma io ho più fede nella Madonna”. Si era dunque iscritta al pellegrinaggio quando non poteva più deglutire. Nel gruppo c'era anche un altro cremonese ammalo, un barelliere pure cremonese, il dottor Plevani e monsignor Tadini. Gina aveva indossato l'accappatoio, recitato l'atto di contrizione e si era immersa nelle acque gelide della piscina, Niente. Mercoledì 11 agosto 1948, alle 16,30, assiste inginocchiata al passaggio del Santissimo, il piviale del sacerdote quasi la sfiora, Gina fissa intensamente la particola ma non trova le parole per recitare un'invocazione. Poi il sacerdote sale la gradinata del tempio, alza l'ostensorio alla vista dei fedeli ed impartisce la benedizione. “In quell'attimo – racconta Gina - io sentii l'impulso della preghiera. Pensino, non ho saputo nemmeno parlare in italiano...Ho pregato in dialetto. Ma la Madonna non se l'è presa a male...Ho detto «Madonna! Signore! Fatemi tornare la voce!. Ho sentito una intensa agitazione, poi dentro il petto, si è come prodotto qualcosa. E io, quasi inconscia di quel che era avvenuto in quell'attimo felice, ho unito, a quelle degli altri che cantavano un inno, la mia voce. La mia voce! Tale e quale quella di prima, quella di un anno fa...Ci avevano raccomandato: «Se accade qualcosa di lieto, per rispetto al Santissimo, non dite nulla, non fate nulla: attendete che il sacerdote si sia ritirato». Io ho obbedito. Solo quando tutti si stavano alzando, mi sono rivolta a una assistente che mi era vicina: «Sorella, io parlo!».

L'abate mitrato di Casalmaggiore, monsignor Temistocle Marini, non si sbilancia e si limita a dire: “Era un soffio quasi impercettibile. L'ho vista quando è tornata. Ieri sera. Mi ha parlato. Sono rimasto stupito”.

Un cremonese alle origini dell'antico francese

Scena di amore e di falconeria in un manoscritto del XIII secolo
C'è un cremonese agli albori della lingua italiana, anche se, per far piacere al suo amico re Enzo, scriveva in france antico. Cremona, come sappiamo, è stata tradizionalmente una città di grandi traduttori e mediatori culturali. Negli anni scorsi è stata appieno rivalutata e studiata da Pierluigi Pizzamiglio la figura di Gherardo da Cremona e, più recentemente da Anna Mantellotti quella di Giambonino, e, ad esempio, da Ivana Brusati quella del medico Adamo, ma un personaggio che meriterebbe di essere posto tra i grandi del suo tempo è certamente Daniele Deloc. Deloc, un nome strano dovuto forse ad un errore di lettura per “de loco”, cioè “proveniente da”, è autore del più antico documento in langue d'oil, il francese antico o “francese di Lombardia”, che si conosca: un trattato di caccia con il falcone scritto per re Enzo (cremonese pure lui), poco tempo dopo essere fatto prigioniero dai bolognesi nel 1249, alla battaglia di Fossalta. Daniele faceva parte anche lui, con ogni probabilità, di quella variopinta corte di Federico II dove bazzicavano, fra gli altri, il frate domenicano Rolando cacciatore di eretici, Adamo e Teodoro d'Antiochia, entrambi traduttori dall'arabo, Michele Scoto, che Dante chiama “mago” e poeti come  Giorgio da Gallipoli, Giovanni da Otranto, Giovanni Grasso.
Daniele, nato a Cremona nella prima metà del XIII secolo, è autore, in realtà, di una traduzione in antico francese di due trattati di falconeria, rispettivamente dell'arabo Moamin o Moamyn e del persiano Ghatrif o Tarif. Di Deloc. sappiamo solo quanto egli stesso dice nella rubrica iniziale della sua opera, in cui si presenta come "de Cremone nez" e affezionato "serven au noble roi de Sardaigne". Secondo alcuni potrebbe identificarsi con un certo Daniele, falconiere di Federico II, citato in un passo della Historia diplomatica Friderici secundi di J.-L.-A. Huillard Bréholles (II, Paris 1859, pp. 969 ss.), come inviato a Malta per cercarvi dei falconi. Lo Zingarelli invece pensa che l'autore dell'opera non sia il nostro Daniele. ma lo scriba Angelus de Franchonia, che firma la copia del manoscritto. Questi, un tedesco della Franconia, come lascerebbe credere il nome, per conferire maggior prestigio alla sua traduzione, l'avrebbe presentata come scritta in Italia e da un familiare stesso della corte che passava, all'epoca, come massima legislatrice in materia di falconeria e di caccia. In realtà, nessun fatto linguistico indica un'origine germanica dell'autore o dello scriba stesso, anzi, numerosi tratti sembrano indicare la provenienza del testo da un ambiente dell'Italia settentrionale, e, più precisamente della Lombardia, come d'altronde dice di essere lombardo lo stesso Daniele.
Nel prologo dell'opera si legge che il Libro di Moamin fu tradotto dall'ebraico in latino da Maestro Teodoro, per ordine di Federico II. In realtà, come attestano concordemente i codici della versione latina e dei volgarizzamenti italiani del testo, il Libro di Moamin non fu scritto in ebraico, ma in arabo. Dall'arabo fu poi tradotto in latino da Maestro Teodoro, "philosophus, fidelis noster", sicuramente conoscitore della lingua araba, come risulta da altri documenti. Su chi tradusse Ghatrif dal persiano al latino invece non si sa nulla.
Moamin in un capolettera miniato
I due trattati di falconeria furono assai diffusi nel Medioevo, specialmente quello di Moamin, come attestano i numerosi codici rimastici della versione latina e i volgarizzamenti italiani. La versione in antico francese dei due trattati di falconeria curata da Daniele Deloc ci è arrivata in un unico manoscritto del XIV secolo, che appartenne alla Biblioteca dell'Università di Padova e di là passò poi alla Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia. La traduzione è, probabilmente, il primo testo scritto in lingua d'oïl nella penisola italiana. Esso non manca di interesse per la storia della fortuna di questo genere di trattati nel Medioevo e per quella della conoscenza e dell'uso nel Duecento in Italia della lingua d'oïl, come lingua per eccellenza della prosa narrativa e didascalica, così come il provenzale lo era stato della poesia lirica, come dimostrano i versi, quasi contemporanei, di un altro cremonese, Gerardo Patecchio, che riprende i temi dei trovatori provenzali nelle corti e nelle città dello stesso Nord Italia. Notissima, sulla divulgazione e sul prestigio di cui godeva la lingua francese all'epoca, la testimonianza di Dante nel De Vulgari Eloquenti: "Allegat ergo pro se lingua oïl quod, propter sui faciliorem ac delectabiliorem. vulgaritatem, quicquid redactum sive inventum est ad vulgare prosaycum suum est", che si rifaceva al giudizio del suo maestro Brunetto Latini sulla lingua d'oïl come "la parleüre plus delitable et plus commune a toutes gens"
L'opera fu commissionata a Daniele da re Enzo, e la scelta linguistica fu certamente suggerita dalla committenza regale, tanto che Deloc sente il bisogno di scusarsi per l'imperfetta conoscenza della lingua impostagli, anche se potrebbe trattarsi semplicemente di una tipica captatio benevolentiae: "Tot soie je povre letreüre et de povre science garnic, e tot soit greveuse chose a ma langue profferre le droit françois, por ce que lombard soi". In effetti, per quanto la lingua del testo sia secondo gli esperti abbastanza corretta, il francese di Daniele, pur detratto quanto sia imputabile al copista del manoscritto, è screziato di italianismi, soprattutto nel lessico; in cui i termini italiani appaiono leggermente francesizzati. Il testo mostra molti dei tratti caratteristici delle opere franco-italiane: aie senza palatalizzazione, il trattamento d'e finale, la caduta di t,finali, s impura senza vocale protetica, l'uso dei pronomi vestrevetre, il presente oitpoit, i possessivi tonici invece di quelli atoni, se seguito dal futuro, e così via. Sono presenti anche una serie di fatti linguistici propri ai dialetti dell'Est e del Nord della Francia. Molto frequenti sono i latinismi, com'è naturale per un'opera che ha come fonte una versione latina. Un gruppo di termini tecnici, che conservano la forma che avevano nel testo latino, ricordano le origini orientali dei due trattati. Lo scriba rivela le abitudini scrittorie di un italiano del Nord. Se fu germanico, come sembra indicare il suo nome e come lo credono alcuni, certamente, secondo altri, non lo rivela nella trascrizione di Moamin e Ghatrif.
In base alle indicazioni fornite dallo stesso Daniele nella sua opera si è portati a credere che questa sia stata commissionata da re Enzo, mentre si trovava prigioniero dei Bolognesi. Nella prefazione al libro di Moamin si legge che il testo fu "coreit par le roi meeme en la cité de Bologne". E' molto improbabile, infatti, che Enzo abbia soggiornato a Bologna prima del 1249, essendo Bologna città nemica dell'imperatore. Dal momento che, probabilmente, il giovane re godeva nella sua prigionia di una certa libertà che gli permetteva di poetare e di incontrare persone, nulla impedisce il fatto che durante la prigionia abbia potuto commissionare e revisionare la traduzione francese del libro di Moamin. L'anno 1249, in cui ebbe luogo la battaglia di Fossalta, sembra essere, dunque, da considerarsi come terminus a quo.
Miniatura del De arte venandi cum avibus
Altre notizie fanno supporre che la traduzione del libro di Moamin sia stata terminata mentre re Enzo era ancora in vita. Nel capitolo finale dell'opera di Moamin Daniele ringrazia il re, che "a deigné loer" il suo lavoro, e nell'introduzione al libro di Ghatrif dice chiaramente che il re lo ha incaricato della traduzione del secondo testo, "apreés ce qe je ai, la merci nostre seignor, finé le livre de Monayn fauchonier". Il termine ante quem diverrebbe, in definitiva, il 1272, anno della morte di re Enzo. Ma la questione è complicata da un passo dell'introduzione al libro I in cui Deloc parla di re Enzo al tempo passato. Secondo alcuni, i due prologhi che precedono il testo di Moamin, ambedue di mano di Deloc, furono scritti in epoche diverse. Forse Daniele presentò al re, a Bologna, in un primo momento, solo una parte della traduzione munita del primo prologo, e successivamente ne intraprese la fine e la redazione definitiva. Fu allora che egli aggiunse il passo già citato "coreit par le roi" e il capitolo finale di Moamin in cui tutto indica che il re era ancora in vita. Successivamente, dopo la morte dei re, Deloc.poté avere occasione di occuparsi nuovamente della sua opera, e introdurre allora, nel riassunto che precede il libro I di Moamin, il breve ritratto morale del giovane re, che ne ricorda il nobile carattere e la triste sorte: "Mes fortune envieuse, qe tot adés agrevoie et gueroie as meillors, li fu trop longement marastres et enemie, dont ce fu doumages trop grans, kar chevalerie, pris et valor empirent trop par sa mesceance".
L'opera di Moamin, nel manoscritto francese, è composta da quattro libri, di cui i primi tre trattano degli uccelli di rapina e delle loro medicine e cure, e il quarto degli altri animali da caccia, e principalmente dei cani. I quattro libri sono preceduti da una prefazione, da una tavola che enunzia il titolo dei capitoli di tutta l'opera, e dai due prologhi già citati. Al libro IV segue un breve epilogo. La seconda parte della traduzione di Daniele. comprende l'opera di Ghatrif composta da un breve incipit e dalla tavola dei capitoli che ne indica 75 e non 66, come sono nel testo. Il cap. I è costituito da un succinto prologo attribuito da Daniele a maestro Tarif o Ghatrif. Chiude l'opera un breve capitoletto non compreso nella tavola.
Daniele Deloc resta una delle figure più interessanti della letteratura italiana delle origini, e testimonia quale fosse la vivacità culturale di quella corte federiciana, ma soprattutto, come fossero intensi i rapporti di amicizia e collaborazione nati all'ombra del Torrazzo tra la famiglia imperiale e gli abitanti della città, se lo stesso Re Enzo, prigioniero a Bologna, chiamò proprio un suo conterraneo ad alleviare il peso delle sue giornate bolognesi.

Nel territorio francese il latino introdotto dalla conquista romana, nella forma meno colta dei militari e dei mercanti, si diffuse rapidamente; le influenze celtiche e germaniche però lo modificarono notevolmente fino a che si distinsero due forme linguistiche principali: la lingua d'oc (dal latino hoc, per dire sì), parlata nelle regioni meridionali, e la lingua d'oïl (dal latino hoc ille), parlata nel Nord. L'uso letterario della lingua d'oc raggiunse rapidamente una certa omogeneità e diede origine alla letteratura provenzale. Invece, nelle regioni settentrionali della Francia si produsse una fioritura di dialetti diversi, tra cui prevalse a poco a poco il franciano, parlato nell'Ile-de-France. Nacque così il francese antico, termine con cui si indica la lingua dell'epoca feudale, che fu in uso fino al Duecento e conservava ancora la declinazione a due casi, soggetto e complemento oggetto. Con la progressiva scomparsa dei casi e la modificazione delle strutture morfologiche e sintattiche si formò il francese medio (grosso modo dal Trecento fino al Cinquecento), che si sarebbe poi trasformato nel francese moderno. Il primo documento scritto in volgare francese è il Serment de Strasbourg (Giuramento di Strasburgo), che risale al IX secolo e fu pronunciato, il 14 febbraio 842, davanti ai propri eserciti schierati, da Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico nelle rispettive lingue volgari (francese e tedesco); con esso i due sovrani si impegnavano a reciproco sostegno contro il loro fratello, l'imperatore Lotario.


domenica 22 luglio 2018

Tommaso Turco, generale domenicano

Lorenzo Bernini, Ritratto di papa Urbano VIII
Si racconta che Niccolò Ridolfi, maestro generale dei Domenicani costretto alle dimissioni da papa Urbano VIII della potente famiglia Barberini, richiesto dai Padri del Capitolo quale dovesse essere la persona più adatta a ricoprire l'alto incarico, avesse risposto, senza alcuna esitazione: “Turco”. E fu così che un professore cremonese di filosofia, diventò il Maestro generale dell'Ordine dei predicatori, la maggiore autorità dell'ordine religioso fondato da Domenico di Guzmàn.
Tommaso Turco, o Turchi, era nato a Cremona nel 1595 “da onesta stirpe” ed appena quindicenne era stato ordinato frate il 29 agosto 1610, ed assegnato al convento cittadino. Dieci anni dopo si era già fatto conoscere per le sue doti intellettuali nello studio della filosofia e della teologia, ed aveva già fatto progressi così sorprendenti al confronto con gli altri allievi, che il cardinale Ludovico Ludovisi, nipote di Alessandro divenuto papa nel 1621 con il nome di Gregorio XV, lo aveva voluto presso di sé come suo teologo personale. Nel 1623, nonostante la sua giovane età, lo aveva addirittura fatto nominare dallo zio vescovo di Scala e Ravello nel Regno di Napoli, anche se in realtà la nomina non aveva avuto effetto, appunto perchè ritenuta sconveniente. “Più utile forse, e per l'Ordine suo più decoroso fu, che tratto non ne fosse per essere su di una cattedra Vescovile collocato - osserva il suo biografo, fra Giambattista Contarini (Notizie storiche circa li pubblici professori nello studio di Padova scelto dall'ordine di San Domenico, Venezia, 1769) – poiché proseguendo ad insegnare nelle scuole de' Conventi più insigni di sua vasta Provincia, se ne sparse la fama per tutta l'Italia, come di uomo per profondità di dottrina, per copia di erudizione, per la perizia nel diritto canonico, nella storia ecclesiastica, ed in più lingue, spezialmente ebraica, greca, caldea, superiore a molti, né inferiore ad alcuno de' tempi suoi”.
Proprio per queste sue qualità, il maestro generale dell'ordine, fra Niccolò Ridolfi, che tre lustri dopo lo avrebbe indicato come suo successore, lo aveva scelto fra tanti altri, nonostante la sua giovane età, per reggere lo studio generale di Bologna per poi, nel successivo Capitolo generale a Roma nel 1629, dichiararlo Maestro senza, tuttavia, abbandonare l'insegnamento a Bologna. Più tardi, dovendo scegliere il successore di fra Marco Rossetti, il 27 gennaio 1631 i riformatori dello studio di Padova proposero al Senato padre Tommaso Turco per la cattedra di metafisica. Non solo il Senato accettò l'indicazione, ma assegnò al giovane Tommaso uno stipendio di duecento fiorini, una cifra superiore a quella che solitamente veniva attribuita- “L'applauso che riscossero fino da principio le sue lezioni – osserva ancora il biografo – corrispose alla fama, che di lui era precorsa, singolare era il profitto che ne traevano li studenti, non ordinaria la soddisfazione che ne provava il Senato; ma sensibilissimo, e comune a tutti il dispiacere in veggendolo dopo un solo quinquennio obbligato a dimettere l'impiego, per assumerne altri a' quali il Cielo lo aveva destinato”. Era accaduto che papa Urbano VIII, che conosceva bene fra Tommaso, lo aveva chiamato a Roma verso la fine del 1643 per assumere l'incarico di Procuratore generale dell'ordine, in seguito alla morte di Padre Domenico Gravina, prologo alla successiva nomina a Maestro generale da parte del Capitolo di Roma il 13 maggio 1644, vigilia di Pentecoste.
La chiesa di San Domenico a Cremona
In realtà a favorire la nomina di fra Tommaso era stato Niccolò Ridolfi, caduto in disgrazia presso la famiglia Barberini, da cui proveniva il papa. I motivi vanno individuati da un lato nella forte azione riformatrice di Ridolfi presso l'ordine domenicano di Francia, e dall'altro nelle vicende romane. Per questo motivo, una volta divenuto Maestro generale, una delle prime preoccupazioni di Tommaso fu quella di riabilitare il suo anziano protettore. Ma andiamo con ordine.
Niccolò Ridolfi era divenuto domenicano dopo un incontro con San Filippo Neri e dopo aver frequentato in un primo tempo la Compagnia dei Gesuiti. Aveva rifiutato una prima nomina cardinalizia, per diventare in seguito teologo personale di papa Gregorio XV e, deceduto fra Serafino Secchi, Vicario generale dell'ordine, nominato da Urbano VIII e, eletto dai frati, Maestro generale. In tale veste si era preoccupato di risanare la situazione economica dell'Ordine e di riequilibrare le differenze fra un convento e l'altro e fra un religioso e l'altro; non di rado vi erano infatti numerose disparità fra religiosi ricchi e poveri e fra conventi ricchi e poveri. A questo scopo aveva creato la Cassa Generalizia dell'Ordine, espropriando tutti i beni e gli averi che, in violazione della regola, conventi e religiosi avevano conservato e che eccedevano le necessità quotidiane.
Questo procurò molta prosperità all'Ordine e agli stessi conventi, dal momento che il Maestro generale cominciò a redistribuire in maniera molto munifica le risorse che affluivano nella Cassa generalizia, donando soprattutto a quei conventi che erano in difficoltà e ai poveri. Nello stesso tempo, però, gli procurò problemi con i religiosi ricchi e con quelli poveri che intanto si erano arricchiti; e furono soprattutto alcuni di questi ultimi, che in qualche caso avevano usato risorse dell'Ordine per mantenersi e mantenere i loro familiari, a promuovere processi contro di lui e la sua azione riformatrice. Il divario fra conventi e religiosi ricchi e poveri era particolarmente presente in Francia, dove negli ultimi cento anni si era anche cominciato a non rispettare più la regola da un punto di vista morale. Si erano formate due categorie di frati: la più ricca, comprendente i maestri in teologia, i baccellieri, i predicatori e i frati di famiglie benestanti viveva una vita agitata, godeva di molti privilegi, possedeva in convento i propri appartamenti, non viveva in comunità ed era dispensata dal coro e dalla messe cantante, aveva al proprio servizio conversi e domestici e andavano a questuare per conto loro. La categoria dei frati poveri, ai quali il convento non passava nulla, tirava avanti a fatica, era obbligata a questuare ovunque, anche nelle taverne, ed era gravata dagli impegni più pesanti, come la presenza nel coro, la celebrazione delle messe ad ora tarda o cantate, l'ascolto delle confessioni. Ovviamente le famiglie benestanti non mandavano volentieri i loro figli in un ordine dove per vivere si doveva chiedere la carità e di conseguenza calavano le vocazioni e si doveva ricorrere ai ceti più poveri, mentre nel frattempo fiorivano gli altri ordini come i Gesuiti, i Recolletti, i Carmelitani scalzi, i Cappuccini, ammirati e sostenuti dalla gente.
Velasquez, Ritratto di papa Innocenzo X
Lassismo e squilibri cessarono con il mandato di Ridolfi, che con una risoluta azione si trasferì oltralpe per guidare in prima persona il cambiamento. Appena arrivato impose di nuovo rigore e austerità ai frati ricchi e si preoccupò in pari tempo di migliorare la vita dei frati più poveri, spesso incaricati dei lavori più pesanti e costretti ad elemosinare ovunque per tirare avanti.
A tale scopo
egli fece valere anche le disposizioni, uscite da tanti capitoli precedenti ma mai applicate fino ad allora, che obbligavano ricchi e poveri ad un unico e comune noviziato, fondando anche un nuovo Noviziato Generale in Parigi. Egli inoltre introdusse anche fra i domenicani gli esercizi spirituali retaggio della sua giovanile frequentazione dei Gesuiti. Nei conventi visitati da Ridolfi non c'era più alcun tipo di silenzio né clausura, uomini e donne circolavano liberamente e non vi erano più un refettorio comune, un biblioteca, vesteria, dormitorio perchè ognuno viveva per conto proprio lasciando la chiesa ed lo stesso convento in totale stato di abbandono
Sul piano politico, sulla scorta dell'esperienza fatta al tempo della sua permanenza transalpina, tentò una difficile mediazione con il cardinale Richelieu per riappacificare Francia, Spagna ed Austria e scongiurare un'alleanza dei francesi con i protestanti. Ma la sua azione riformatrice in campo religioso, che aveva colpito numerosi interessi, e la sua azione diplomatica, che gli aveva attirato molte antipatie e lo aveva coinvolto in trame più alte e inestricabili, provocarono la sua deposizione, desiderata sia dai frati cui aveva sottratto ricchezze e aveva costretto a tornare alla piena osservanza della regola, ma anche auspicata velatamente dalla cancelleria francese. Fu così che al Capitolo convocato a Genova nel 1642, il candidato filofrancese Michele Mazzarino, fratello del più famoso Giulio, arrivato in anticipo coi suoi sostenitori e prima che fossero giunti tutti gli altri provinciali, riuscì a leggere ai presenti un documento del cardinal Barberini che lo designava presidente del Capitolo. Mazzarino riuscì a far approvare la deposizione di Ridolfi e, poco dopo, a farsi eleggere nuovo maestro generale da un ridotto numero di aventi diritto. Per tutta risposta, i frati austriaci e spagnoli, contrari alle trame politiche dei Mazzarino, uscirono dal Capitolo e, riunitisi a Cornigliano, elessero un altro maestro, Tommaso di Rocamora. A questo punto, il Papa fu costretto a nominare una commissione che dichiarò nulle sia la deposizione di Ridolfi che le successive elezioni di Mazzarino e Rocamora, restituendo il governo dell'Ordine al primo dei tre. Il Papa in seguito demandò ad un successivo Capitolo Generale il giudizio delle colpe, ma poco dopo sollevò ugualmente Ridolfi dall'ufficio, chiudend operò tutti i processi contro di lui e manifestando l'intenzione di chiamarlo all'episcopato. Intanto al Ridolfi non fu affidata nessuna diocesi, mentre il Mazzarino venne nominato Maestro del Sacro Palazzo.
Nel successivo Capitolo, convocato a Roma dal Papa nel 1644 i frati che pensavano di poter rieleggere prontamente il Ridolfi, si trovarono di fronte al veto del pontefice, che fece valere il suo rifiuto anche nei confronti di fra Domenico de Marinis, maggior collaboratore di Ridolfi, in un primo tempo eletto dal Capitolo. La grande paura della famiglia Barberini era che Ridolfi, durante il Capitolo, potesse rivelare gli intrighi e le malefatte della famiglia cui apparteneva il papa. A quel punto i padri capitolari si orientarono sul nome di Tommaso Turco, anch'esso consigliato loro da Ridolfi e, alla fine, confermato dal Papa. Alla morte di Urbano VIII, avvenuta lo stesso anno, salì al soglio pontificio Innocenzo X, della famiglia Pamphili, acerrima nemica dei Barberini che, amico del Ridolfi, elevò alla carica del Sacro Palazzo proprio Domenico de Marinis, il candidato al governo dell'Ordine su cui Urbano VIII aveva posto il veto.

Forse Tommaso Turco avrebbe voluto risolvere subito la questione del suo mentore Niccolò Ridolfi, ma si fermò a Roma solo un anno. Si recò dapprima in Francia, ed il 26 novembre 1645 era a Parigi per riformare il convento di San Giacomo. Racconta il suo biografo: “Persuasa con particolarità la Regine del sapere singolare del nostro Generale, premurosamente incitollo a combattere e colla voce, e con la penna l'eresie che in quel regno ed in que' giorni oltremisura infierivano; lo che fatto forse egli avrebbe, se in quel poco tempo che restogli di vita, altri gravissimi affari tenuto non lo avessero indispensabilmente occupato”. Fu così che nel marzo 1646 dalla Francia passò in Belgio, dove fu accolto con grandi feste e grande entusiasmo, e da lì di nuovo in Francia nel convento di Tolosa, e poi in Spagna, ricevuto dallo stesso re Filippo IV, per il Capitolo generale di Valencia del 1647. Riuscì a tornare a Roma nel 1648 e subito sollecitò il nuovo papa Innocenzo X a riunire una commissione di cardinali per riabilitare il Ridolfi, fino alla sua completa assoluzione. Purtroppo per ironia del destino, fu tutto inutile. Tommaso Turco morì improvvisamente il 1 dicembre 1449 a 54 anni di età, e Niccolò Rodolfi pochi mesi dopo, il 1 maggio 1650, a dieci giorni dall'apertura del Capitolo che lo avrebbe sicuramente eletto maestro generale. Conclude il suo biografo: “Com'egli era uomo di gran mente, di attività, di coraggio, così concepute aveva idee, quali se mandate avesse ad effetto risultate sarebbero in gran vantaggio, e sommo lustro di quell'Ordine, di cui era capo; ma la morte che in età troppo fresca lo colse, gliene impedì la esecuzione. Li disagi sofferti ne' lunghi viaggi, le occupazioni moleste, ed incessanti, guastarongli per tal modo la sanità, che un solo anno in circa da che restituito erasi da Spagna in Roma, fu sorpreso da gravissima infermità, che tosto ei riconobbe mortale; onde chiesti, e ricevuti con superiorità d'animo, e spirito di singolar divozioni gli ultimi Sacramenti, cessò di vivere il primo dicembre 1649, che della età sua non era che il 54: Pianse la di lui morte immatura, non solamente l'Ordine nostro, che in lui perduto aveva un Generale per costumi, per dottrina, per zelo, per intrepidezza, per estimazione, e per merito a veruno de' suoi predecessori non inferiore; ma la compianse tutta Roma, l'Italia, la Europa; e lagnossene con distinzione il Pontefice Innocenzo X che al funesto annunzio, che recato gliene fu, ebbe a dire: che caduta era una colonna della cristiana Repubblica, non che della Religione Domenicana”.

La musica del lager

Il campo di prigionia di Celle
La città di Celle, in Germania, è stata sede di un campo di prigionia destinato agli ufficiali della Grande Guerra. Il lager, insediato nella località di Scheuen, immerso nell’immensa brughiera pianeggiante a poche decine di chilometri da Hannover, era stato costruito prima della guerra, e fu completato con il lavoro forzato dei primi prigionieri russi alla fine del 1914; vi furono internati fino alla metà di novembre del ’17 prigionieri francesi, russi, inglesi e belgi. E dalla fine dello stesso mese vi furono concentrati ufficiali italiani catturati dopo Caporetto (circa 3000 nell’arco dei 13 mesi) e circa 500 soldati adibiti ai servizi che vi resteranno fino ai primi di gennaio 1919. Tra questi vi era anche il capitano Giuseppe Denti, di Pugnolo, di cui ci siamo già occupati qualche mese fa per la sua testimonianza sulla disfatta di Caporetto. Ma è stato proprio grazie al ritrovamento di 570 lettere di Denti inviate dal fronte e dalla prigionia alla moglie e alle figlie, oltre a disegni, acquerelli e quaderni, e un vasto materiale fino ad allora ignorato, se è stato possibile iniziare una ricerca storica sul lager. Nel 1995 ad un tratto emergeva, dopo ottant’anni, improvvisamente e inaspettatamente un  corpus  di documenti che dava conto della vita di un soldato, in questo caso un ufficiale, che aveva affrontato le più diverse esperienze della grande guerra: dall’addestramento alla trincea, dagli assalti ai momenti di riposo nelle retrovie, dalle ferite alle licenze, dalla prigionia nei Lager tedeschi al ritorno a casa. Soprattutto la ricca documentazione relativa ai quattordici mesi di prigionia a Cellelager ha prodotto una ricerca specifica, rintracciando notizie sugli altri ufficiali protagonisti e svelando così una pagina tragica e dimenticata della grande guerra. Rolando Anni, Mariuccia Cappelli Carlo Perucchetti, protagonisti allora con i propri familiari della scoperta, condividono oggi il progetto del sito Internet su Cellelager, con Lauro James GarimbertiAlessandra Ghidoli, Maria Neroni e Silvia Perucchetti. Da questa ricerca emerge, soprattutto, il ruolo di protagonista ed animatore assunto nel campo da Giuseppe Denti nel rendere meno amara la sopravvivenza degli internati nel lager. Tra loro vi erano anche altri cremonesi: Guido Bodini di Cremona, il tenente Luigi Bonetti di Soresina, Annibale Correggiari di Crema (fondatore della sottosezione del CAI), un soldato di nome Fagliuoli di Casalmaggiore, morto nel lager il 5 marzo 1918, il generale Angelo Farisoglio di Casalmaggiore, il tenente Galli di Motta Baluffi, l'attendente Alessandro Mancini del 246° fanteria di Cingia de' Botti, il generale di brigata Giuseppe Robolotti di Cremona poi fucilato dai fascisti a Fossoli il 12 luglio 1944, il maggiore del 231° reggimento fanteria Gaetano Tassinari di Cremona e il bersagliere del 420° Machine-Gevaert Giuseppe Toliol di Vicobellignano, morto a Celle il 5 marzo del 1918.
Nei primi quattro mesi di prigionia gli internati dovettero fare i conti con il freddo, la fame, il senso deprimente della sconfitta e l’abbandono totale da parte dello Stato italiano. Dalla metà di marzo 1918 incominciarono ad arrivare i pacchi di cibo e di indumenti confezionati dalle famiglie e gli ufficiali (che non erano costretti a lavorare a differenza dei soldati) riuscirono in buona parte a salvarsi. Nacque l’Università di Cellelager e in qualche modo riuscirono, grazie alla cultura, a riprendere la propria identità.
Il capitano Giuseppe Denti
Tra questi un ruolo di primo piano spetta a Giuseppe Denti, arrivato a Celle nel dicembre del 1917, dopo essere stato catturato la mattina del 27 ottobre sul monte Kum, durante la battaglia di Caporetto, ed aver trascorso un periodo prigionia nel campo di Rastatt. Durante l’anno di prigionia nel lager di Celle Denti diventa l'animatore, il pianista, il direttore del coro dell'orchestra del Lager. Come ha raccontato Carlo Perucchetti, uno dei sopravvissuti (Voci e silenzi di prigionia, Cellelager 1917-1918, ed. Gangemi 2015), nei quattro blocchi del lager la musica era praticata un po' da tutti, in quanto erano presenti numerosi dilettanti e, in misura minore, musicisti professionisti, che lasciarono moltissime testimonianze. Se i complessi bandistici, al fronte e in prigionia, vedevano la partecipazione soprattutto di braccianti, contadini e operai, le orchestrine degli ufficiali era composte da appartenenti alla piccola e media borghesia, spesso formatisi nei conservatori italiani.
A Celle furono costituite diverse orchestrine con molti strumentisti ad arco ed ampi repertori. Nei blocchi A e D il complesso era diretto dal maestro Borghi e il violino di spalla era Mario Squartini, nel blocco B l’orchestra, di cui esiste una fotografia, è bene descritta nel diario di un suo componente, il Colonnello Noè Grassi. Il complesso orchestrale del blocco C, diretto dal maestro di banda Agenore Berardi, e il coro erano stati ideati ed animati dal icapitano Giuseppe Denti, maestro di scuola elementare, pianista e compositore. Nei suoi taccuini personali Denti catalogò e ordinò i volumi della biblioteca musicale, trascrisse e adattò varie opere agli organici strumentali del momento, annotò in elenco le musiche eseguite di volta in volta nei vari “concerti”, compilò la lista degli strumenti a disposizione, acquistati con una colletta degli ufficiali. In un quaderno è presente l’elenco completo degli strumentisti e dei coristi.
Gli spettacoli del blocco C si svolgevano nella sala mensa della baracca 33. Il repertorio era molto vasto, e spaziava dalla musica d’opera quasi esclusivamente italiana, ma con la presenza anche di brani wagneriani, a quella sinfonica e cameristica con opere di Chopin, Schumann, Mendelssohn, Offenbach.. Denti compose non solo pezzi da far eseguire al complesso, ma anche brani strumentali e romanze assecondando il proprio gusto personale. Venne eseguito due volte lo scherzo melodrammatico La Lager Signorina, su testo dello scrittore futurista pratese Alberto Casella, con musica scritta “a quattro mani” da Denti, cui si deve la prima parte di stile ottocentesco, e da Alceo Rosini, autore della seconda parte in stile pucciniano. Rosini, talentuoso violino solista, spalla dell’orchestra, eseguì spesso in duo con Denti pagine di Paganini, Sarasate, Mozart, Wienawski e una Zingaresca per violino e pianoforte di sua composizione, andata perduta. Agenore Berardi compose diverse opere andate perdute per l’orchestra con titoli che rimandavano alla vita del Lager, tra cui La sbobbaRicordo nostalgico,AppelloPosta e pacchi in arrivo e Le chiacchiere di Bertacca, di cui è stato ritrovato lo spartito. Anche il coro, sotto la direzione di Denti, partecipò agli spettacoli con l’esecuzione di famosi brani operistici verdiani tratti da NabuccoI Lombardi alla prima crociataTrovatore e Aida. Gli ufficiali tedeschi furono collaborativi per i progetti musicali, consentendo noleggi e acquisti a Celle di strumenti, partiture e accessori da parte degli italiani, che si autotassarono per lo scopo. Giuseppe Denti nel suo taccuino annotò: Epifania, il tenente tedesco porta 16 corde per violino: 5 mi, 5 la, 3 re, 3 sol: importo marchi 12,45. […] Pago 75 marchi per un flauto”.
Il capitano Angelo Ruozi suona il zitar, una cetra da tavola evidentemente presente nel campo e ordina in un negozio di musica di Celle un album con spartiti di vari brani.
Il colonnello Grassi scrive: 
Uscita nel centro di Celle per acquisto musica e sopraluogo per acquisto pianoforte da un privato che viene acquistato per 500 marchi”. Non mancano però i problemi se sempre Denti scrive Se al concerto di stasera vengono i tedeschi fo una dimostrazione accusando debolezza per denutrizione.”
Il teatro del campo di Celle
Noè Grassi, musicista dilettante, partecipa ai progetti orchestrali e scrive: “1 gennaio 1918. Concerto ufficiali Blocco C, per 4 violini, pianoforte, flauto. Uno dei violinisti sottotenente dei granatieri, suona divinamente [Alceo Rosini]; Programma: Marcia reale, inni patriottici, intermezzo della Traviata, duettino ultimo atto Bohème; nasce l’idea di fare un’orchestra di tutti gli ufficiali comune ai Blocchi”, E gli viene pure affidato l’accompagnamento musicale delle funzioni sacre nella cappella del Lager: “31 gennaio 1918, prova in chiesa di una messa di Hadler a due voci con accompagnamento di armonio e archi. 1 febbraio 1918, prova generale della messa offerta ai soldati che cambiano campo. 3 febbraio 1918, prima esecuzione della messa cantata di Hadler. Il cappellano tedesco si offre per acquisti musica sacra. 5 febbraio 1918, il cappellano tedesco consegna libri di mottetti, corde per mandolino, chitarra, catalogo musica sacra. 7 febbraio 1918, un soldato tedesco chiede di far parte dell’orchestrina come mandolinista e violinista.
Il capitano Denti, dal canto suo, scrive le sue composizioni prima sul pianoforte e poi strumentate per il complesso di archi e fiati. Lo stile e i contenuti son da un lato inconfondibilmente suoi, d’altra parte la vicinanza con alcuni musicisti come il direttore Berardi e il violinista Rosini, stimolano la ricerca di nuove soluzioni armoniche e la frequentazione di nuove forme quali la piccola scena di melodramma, La Lager-signorina, o la rivista-operetta più scanzonata “A B C D
A Cellelager fu organizzato e andò in scena lo spettacolo “Piedigrotta”, incentrato sul repertorio delle canzoni napoletane tradizionali e su quelle, sempre in dialetto napoletano, composte durante la guerra, come O surdato ‘nnamurato che fu la canzone più cantata sul fronte italiano. La canzone vincitrice del concorso fu Cielo turchino (Turnammoce) composta da Giovanni Guida, altre furono Povero Ammore di Benedetto Di Ponio e Aspiettame di Edgardo Fenga.
La musica quindi fu sentita come antidoto alla disperazione della prigionia, una medicina per mantenere la propria identità, per stabilire rapporti e condividere progetti da parte di ufficiali lontani dalla patria e abbandonati da essa.
Giuseppe Denti, nato a Pugnolo il 5 ottobre 1882 e morto a Cremona il 30 gennaio 1977, prima di finire prigioniero a Celle aveva imparato la musica sull'organo della chiesa parrocchiale di Pugnolo e sugli insegnamenti del padre utilizzando forse un pianoforte nella casa patriarcale. A 12 anni, grazie alla costante pratica, allo studio di compositori antichi e contemporanei e all’ascolto di valenti musicisti-organisti, aveva vinto un concorso come organista titolare della parrocchia di Quistro, frazione di Persico Dosimo. Conseguito il diploma magistrale col massimo dei voti, dal 1901 aveva insegnato nelle scuole elementari di Cingia de’ Botti e più tardi in quelle di Cremona. Dimostrò in questo doti di organizzatore, dando corpo ad una affiatata banda, a vari corsi di cultura, fra cui un corso popolare festivo di disegno per consentire anche ai lavoratori di parteciparvi e di apprendere le più elementari nozioni. È del 1896 la prima composizione, la romanza “alla Tosti” per canto e pianoforte: O caro, amabil Espero, mentre a partire dal 1901, con l'inizio dell'attività didattica, si era indirizzato verso le canzoni per bambini, spesso nella struttura della romanza senza parole.
Quando nel 1915 parte per la guerra, la musica occupa un posto importante nel suo bagaglio sentimentale e lo conforta e sostiene nella solitudine della trincea. Dalle lettere sappiamo che gli incontri fortuiti con pianoforti e organi costituiscono, per lui che suonava, le uniche gioie nella drammatica incertezza quotidiana. In assenza di strumenti scrive un rigo musicale tracciato alla bell’e meglio su una carta qualsiasi, come racconta nella lettera del 24 dicembre 1916 dalla trincea del Sober scritta alla moglie Carmela.
Giuseppe Denti con la banda di Cingia de' Botti
I soldati in trincea, lo apprendiamo sempre dalle lettere, accennavano sommessamente ai canti popolari della propria terra, aggiungendo e improvvisando magari strofe riguardanti la guerra, e Giuseppe li ascoltava in silenzio e nei rari momenti che la vita al fronte concedeva, insegnava loro il Va’ pensiero e O signore dal tetto natio.
Nel dopoguerra a Giuseppe Denti viene affidato dal Comune di Cremona l'insegnamento della musica per le quarte e quinte classi elementari e lui stesso sceglie di insegnare gratuitamente canto corale presso l’Istituto dell’Infanzia abbandonata, una volta alla settimana, rinunciando così al giorno libero. Valendosi della sua capacità di organizzatore, dà vita al Circolo musicale Euterpe per il canto corale a voci virili. Tra i tantissimi suoi allievi ricordiamo anche il futuro baritono Aldo Protti che dimostrò sempre, anche da artista affermato in campo internazionale, la riconoscenza a colui che era stato il responsabile della sua scelta artistica.
A Cremona, sempre negli anni ’20 e ’30, dirige il Coro Polifonico Claudio Monteverdi. Compone musiche per pianoforte, organo, violino, archi, orchestra e banda, messe, inni religiosi, pastorali e due operette: La Cingeide e La Scalata. Svolge per molti anni il ruolo di organista sostituto presso il Duomo di Cremona dove il titolare è il maestro Federico Caudana, che lo vuole espressamente al suo fianco. Suona regolarmente l’organo nella parrocchiale di S. Giovanni Evangelista di Cingia de’ Botti e l’organo Sgritta della parrocchiale di S. Giovanni Battista di Zone (BS). La casa di Cremona in via Bonomelli diventa un punto di incontro e di riferimento per tanti musicisti e strumentisti cremonesi. Tra questi si ricordano i violinisti Marco Brasi, Nino Negrotti, Persico, Cleandro Corradi, il violista Bisotti. Con tutti questi, con Gino Nazzari, tecnico di pianoforti e suo accordatore prediletto, con don Dante Caifa, musicista e direttore di coro, i rapporti erano di intensa amicizia e di rispetto reciproco.