La marchesa Carla Medici del Vascello al matrimonio della figlia di Farinacci nel 1938 |
Tutti
conosciamo la tragica fine della marchesa Maria Carolina Soranzo
Medici del Vascello, ultima proprietaria della villa di San Giovanni
in Croce, morta per le conseguenze di uno scontro a fuoco durante la
fuga di Roberto Farinacci da Cremona. Carolina, più nota come Carla,
morì all'ospedale di Merate l'11 maggio 1945, dopo una lunga agonia.
Ma nuovi documenti ed il racconto di quei giorni riportato dal
giornalista Mario Mori, permettono di ricostruire le ultime ore della
marchesa ed il ritratto di una donna che andò incontro al suo
destino per amore. In realtà Carla, che di cognome faceva Mocenigo
Soranzo, era già sposata con Francesco Medici del Vascello. Da
tempo, però aveva abbandonato la villa di Palvareto, come allora si
chiamava San Giovanni in Croce, ed era andata ad abitare in un
appartamento in affitto in piazza Cavour a Cremona. Nei giorni che
precedono il 25 aprile è molto nervosa: dà ordini concitati che poi
contraddice, telefona ora all'uno ora all'altro, fa e disfa le
valigie. Inizia a dubitare anche lei, come stanno facendo d'altronde
tutti quelli che non hanno ancora abbandonato il ras, che le
fantomatiche armi segrete tedesche di cui le ha parlato Farinacci,
esistano davvero. Anche la granitica fiducia che aveva avuto sino a
poche settimane prima nell'invincibilità della Germania di Hitler,
vacilla paurosamente. Si rende conto di essere rimasta paurosamente
sola: è malvista da gran parte dei suoi familiari che non le hanno
mai perdonato le sue sfrontate esibizioni di fede politica nel
fascismo, ed è detestata dalla popolazione di Palvareto e di Cremona
per il suo contegno altezzoso, anche se, a dimostrare la sua
vocazione filantropica, una volta all’anno, nel giorno di San Carlo
in occasione dei festeggiamenti per il suo onomastico, offre
cioccolata ai bambini dell’asilo. Sempre a causa dei suoi
modi autoritari si è circondata di antipatie anche nel ruolo di
dirigente della G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio) prima e del
Fascio femminile poi, al punto che le malelingue mettono in giro la
storiella che la marchesa sia in realtà una spia degli inglesi, lei,
che nei 45 giorni tra il 25 luglio del 1943 e l'8 settembre, era
finita addirittura in carcere per le sua incondizionata fede
nazifascista. E poi c'è il suo chiacchierato rapporto con Roberto
Farinacci, confermato dal fatto che il ras di Cremona avesse scelto
il castello di San Giovanni in Croce per realizzarvi il suo rifugio
antiaereo. Farinacci se ne vantava, e più di una volta aveva cullato
la segreta speranza che gli aerei della Raf concentrassero i loro
sforzi su Cremona, per poter poi dire che, ritenendolo un grande
stratega, non potendo colpire lui avevano ferito almeno la sua città.
La
situazione sta precipitando: gli alleati, dopo aver sfondato l'ultima
difesa tedesca, stanno per varcare il confine del Po. La marchesa
capisce che ormai non c'è più nulla da fare e decide di fuggire. Ha
dato ordine al proprio autista di tenere in garage un'auto pronta per
la fuga ma quando, qualche ora dopo, è giunto il momento di partire,
la macchina è sparita. A sottrarla è stato lo stesso Farinacci che,
avuto sentore della fuga, ha deciso che la marchesa parta invece
insieme a lui, ed ha fatto nascondere l'auto in un luogo segreto che
solo lui conosce. La marchesa apprende il fatto con filosofia e, con
una certa tranquillità, fa buon viso a cattiva sorte. Il giorno
dopo, però, è radio Londra ad annunciare che la fine del regime è
ormai prossima. Carla non può più aspettare, la città è percorsa
in lungo e in largo da motociclette e automezzi tedeschi e fascisti,
spesso mascherati con fronde d'albero, e i resti del 51° Corpo
d'armata tedesco hanno iniziato ad attraversare il Po in ritirata.
Decide nuovamente di organizzare la fuga, da sola. Incarica l'autista
di approntare una nuova macchina ma, quando questo si reca
nell'autorimessa, trova ad attenderlo Mario Maestrelli, caposquadra
della GNR, che verrà giustiziato pochi giorni dopo, il 1 maggio,
alla Caserma del Diavolo. Imbraccia un mitra e glielo punta contro,
intimandogli di recarsi alla propria abitazione, caricare in auto i
suoi familiari e portarli immediatamente in salvo altrove. La
marchesa incassa anche questo colpo. Ormai è rassegnata alla sua
sorte e capisce che non può far nulla per evitarla. E ad una persona
amica confida: “Va bene, partirò con Farinacci. Del resto sono
tanto contenta di poter rimanere finalmente sola con lui”.
Arriva
il giorno della partenza. E' il 26 aprile, fa freddo e c'è nebbia.
E' quasi mezzogiorno. Farinacci ha appena lasciato la sede del
“Regime fascista” dove, in tipografia, ha incontrato tutti gli
operai: “Io parto – ha detto – Vi affido uno stabilimento in
piena efficienza. Sappiatelo conservare perchè è da questa azienda
che voi traete il vostro pane. Arrivederci fra due mesi!”. Nel
corridoio ha salutato i redattori chiedendo chi volesse seguirlo.
Solo in tre hanno risposto all'appello: il capo redattore Mario
Mangani, il suo segretario personale Emanuele Tornaghi e, di
malavoglia e solo perchè costretto, Angelo Ferdinando Sampietro.
Sceso in piazza, in quel momento abbastanza affollata, Farinacci
incontra Vittorio Dotti, segretario del partito repubblicano che,
dopo l'8 settembre, era stato l'unico a scrivergli una lettera piena
di sdegno, pubblicata sul quotidiano, e poi ripresa da giornali
svizzeri, inglesi ed americani. Gli fa con la mano un gesto di
saluto, “Auguri, io rimango”, risponde Dotti.
Davanti
all'hotel Impero sono pronte tre auto berline nere. Sulla prima
prendono posto i tre giornalisti Mangani, Sampietro, Tornaghi e
l'autista della Questura Antonio Danielis. Sulla seconda, una grossa
Bianchi, il maresciallo della Questura Campoccia, il milite della GNR
Luigi Soldi, l'ex partigiano Rino Puerari e la GNR Nello Ceolin con
il figlio sedicenne. Sulla terza, infine, una Lancia Aprilia, salgono
Farinacci, che si mette al volante, la marchesa Medici al suo fianco,
e una donna dai capelli neri, di cui non si è mai saputa l'identità
e di cui si sono perse le tracce, forse perchè scesa in qualche
sosta intermedia effettuata durante il viaggio. Il mesto corteo,
preceduto da una motocicletta con sidecar guidata dal maresciallo
della GNR Martinenghi, con a bordo i militi Bergamaschi e Sartori,
si avvìa lungo corso Campi e Garibaldi, arriva a piazza Risorgimento
e imbocca la statale per Bergamo. A Soncino viene raggiunto da altri
cremonesi, da alcuni militi della brigata nera “Gentile” e della
GNR di Reggio Emilia e da una colonna tedesca. Il viaggio prosegue
tranquillo sino a Seriate, dove il convoglio viene intercettato da
una trentina di partigiani della Brigata 56ª Garibaldi che ingaggia
un combattimento, ma ha la peggio e lascia sul campo sette uomini,
altri quattro sono feriti ed il resto vengono fatti prigionieri ed
utilizzati come ostaggi, posti in piedi sulle auto per impedire altri
attacchi. La colonna arriva a Bergamo dove il comandante tedesco
raggiunge un accordo con i partigiani che presidiano le porte della
città, gli ostaggi vengono rilasciati ed il gruppo ottiene in cambio
un lasciapassare per l'intera provincia di Bergamo. I partigiani,
però, riconoscono Farinacci, ma non possono venire meno agli accordi
appena sottoscritti per tutti i componenti del gruppo in fuga. Si
limitano, dunque, a lanciare un avvertimento: “Siano attenti,
perchè al di là dell'Adda c'è una intera divisione partigiana
armata di tutto punto e munita di autoblinde. Il nostro
lasciapassare, ha valore sino all'Adda, dopo non più...”. Si
tratta, evidentemente, di un tranello, ma Farinacci non se ne avvede
e decide di proseguire la strada con la colonna tedesca. Con questa
pernotta in una località vicino all'Adda e la mattina del 27 aprile,
quando i tedeschi decidono di passare l'Adda a Brivio e puntare verso
Lecco, Farinacci decide di abbandonare la colonna tedesca dirigendosi
verso il milanese, a Oreno. Ma è in corso una battaglia tra i
partigiani della 104ª Brigata Garibaldi Citterio ed una colonna
fascista proveniente da Bergamo composta da circa una sessantina di
mezzi, e presso Rovagnate la prima macchina del convoglio viene
intercettata e fermata. Farinacci con la sua segue qualche centinaio
di metri più indietro, si accorge di quanto sta accadendo e capisce
che, se verrà fermato, sarà facilmente riconosciuto, per cui ordina
all'autista, un agente di Ps che da tempo lavora per lui, di fare
immediatamente inversione di marcia, prendendo la strada per Lecco
che conduce al passo dello Stelvio. Ma la sua manovra non passa
inosservata, perchè i partigiani erano stati avvertiti
telefonicamente da quelli del primo posto di blocco chi trasportava
quell'auto. Mentre gli occupanti della Bianchi vengono catturati,
l'Aprilia nera forza un posto di blocco, subito inseguita da un
gruppo di cinque partigiani del distaccamento di Merate che sparano
alcuni colpi in aria, prima di mirare risolutamente all'auto che,
crivellata di colpi, sbanda paurosamente prima di arrestarsi davanti
allo stabilimento Rovetti di Beverate. L'autista resta ucciso sul
colpo, mentre Farinacci, protetto dalla selva di bagagli e valigie
che aveva fatto caricare sul retro dell'auto, è incolume, spalanca
una portiera, balza a terra e si rifugia in una villa vicino, dove i
partigiani, armi in pugno, lo catturano.
La
marchesa Carla Medici del Vascello è stata colpita da un proiettile
alla testa. Le sue condizioni appaiono subito disperate ed è lo
stesso partigiano che ha sparato i colpi contro l'auto, Angelo
Gerosa, a soccorrerla per poi trasportarla, qualche ora dopo,
all'ospedale di Merate. Viene registrata alla pagina 393 con il nome
di Medici Carla, fu Tommaso, da Palvareto (Cremona) di anni 49. Carla
è in coma, paralizzata in tutta la parte destra del corpo ed ha
perso l'uso della parola. Resta immobile nel letto d'ospedale e solo
un flebile lamento le esce ogni tanto dalle labbra. Solo molti giorni
dopo, quando le sue condizioni sembrano migliorare, chiede di poter
scrivere, con una grafia quasi illeggibile, poche righe con una
matita su un pezzo di carta: “Avvertite mio marito che è in
Isvizzera e la mamma che Lily muore”.
Villa Medici del Vascello a San Giovanni in Croce |
Il
28 aprile la radio dà la notizia del ferimento della marchesa e del
suo ricovero nell'ospedale di Merate. A Palvareto tutti ne parlano,
ma la più colpita è una popolana che per molti anni aveva prestato
servizio come domestica alla villa Medici del Vascello. La marchesa,
che negli ultimi tempi si era mostrata più nervosa ed irascibile del
solito, aveva avuto con lei una serie di screzi ed infine l'aveva
licenziata. Ma alla notizia del grave ferimento la donna sussulta.
Mentre nel resto del paese la gente non se ne preoccupa, lei prende
la decisione: andrà a Merate ad accudire la sua padrona. Parte a
piedi, perchè non ha altri mezzi e non può dire dove va, per paura
di essere tacciata di collaborazionismo. Ogni tanto trova un
passaggio su una delle poche auto in circolazione e su qualche carro.
Il viaggio dura quattro giorni. Quando arriva regna la più grande
confusione: le strade sono percorse da uomini armati, mezzi militari
vanno e vengono, ovunque sono ancora le tracce dei furiosi
combattimenti nella battaglia della Brianza. La donna è spaventata e
non sa a chi rivolgersi. E' in preda alla paura che qualcuno le
chieda chi sia, dove vada, chi cerca. Poi ha un'idea: bussa alla
porta dell'ospedale e chiede della madre superiora. Le confida il
motivo del suo viaggio e della sua paura di essere scoperta a portare
assistenza alla ex segretaria del fascio femminile di Cremona. Anche
la suora è incerta sul da farsi, non è in grado di valutare quale
potrebbe essere la reazione dei partigiani se ne venissero a
conoscenza. Poi, però, trova la soluzione: procura una divisa da
infermiera e gliela fa indossare in modo tale che, così vestita e
sotto la protezione delle suore stesse, possa circolare liberamente
nell'ospedale e visitare i degenti che desidera. E la donna resta al
capezzale della marchesa giorno e notte, attendendo con trepidazione
l'esito delle cure. Il chirurgo tenta, in extremis, un'operazione,
che sembra riuscire fino a quando non subentrano le complicazioni di
una polmonite. E' l'11 maggio, e la madre superiora assicura la donna
che la marchesa “è morta bene”, con i conforti religiosi,
nonostante una vita condotta all'ombra del “più fascista”. La
domestica veglia la salma, la compone in un umile feretro ed è
l'unica ad accompagnarla nell'ultimo viaggio nel cimitero di
Vimercate dove, in fondo nell'angolo sinistro, è pronta la fossa. Vi
viene posta sopra una modesta pietra su cui è inciso solo “Lily
Soranzo”. Poi la dona torna, così come era venuta, a Palvareto.
Nessuno saprà mai il suo nome.