sabato 11 dicembre 2021

Pericle Sacchi e la nascita del latte artificiale

Balia milanese del primo Novecento

C'è un pediatra cremonese all'origine di una delle più grandi rivoluzioni alimentari del Novecento, destinata a salvare la vita a milioni di bambini e fare la fortuna di industrie come la Liebig, la Nestlè e la Knorr. La corretta alimentazione del bambino, soprattutto nel primo e nel secondo anno di vita, fu uno dei maggiori problemi che afflissero le madri, i medici e le amministrazioni pubbliche nel XIX secolo e nella prima metà del Novecento. A partire dalla metà dell’Ottocento medici, filantropi e amministratori si dedicarono con assiduità alla promozione di strutture finalizzate all’assistenza delle madri e dei lattanti con l'obiettivo di favorire principalmente l’allattamento materno o di fornire alternative come l’allattamento delle balie mercenarie o quello artificiale. Verso la metà dell'Ottocento nel cremonese la mortalità infantile sotto i cinque anni raggiungeva il 51%: le madri erano spesso costrette ad allattare i figli dopo il faticoso lavoro nei campi, dopo ore che li avevano lasciati imprigionati in fasce troppo strette, senza averli mai cambiati, oppure portati nelle stalle o nei campi, al freddo o al caldo estivo senza alcuna protezione. Di conseguenza i lattanti andavano incontro a gravi insufficienze nutrizionali e quando, con la nascente rivoluzione industriale, le madri andarono a lavorare in filanda o nelle concerie di tabacco, la situazione finì con il peggiorare. In alcuni casi i bambini venivano affidati a balie a pagamento che non esitavano ad alimentarli con alimenti del tutto impropri, come polenta o pane biascitato, spesso sedandoli con sciroppo di papavero per evitare che piangessero. Per molti anni il brefotrofio rappresentò l'unico luogo adatto alla cura dei neonati, dei lattanti e dei bambini più piccoli ma, soprattutto, costituì un ambiente dove, grazie a medici coscienziosi e ostetriche preparate, maturò una diversa attenzione verso i problemi sanitari dei piccoli pazienti. Uno di questi medici fu Pericle Sacchi, nato nel 1854 morto nel 1918, laureato a Bologna nel 1877, aiuto del primario ostetrico dell'Ospedale maggiore Paolo Coggi. 

Tra il 1862 ed il 1866 morirono nel brefotrofio di Cremona 1160 bambini su 1931 presenti, pari a circa il 60%, a causa delle condizioni inumane in cui i piccoli erano tenuti. Si sarebbe dovuto garantire una corretta alimentazione, con un numero adeguato di nutrici, separando i bimbi sani dagli ammalati. Ma ancora nel 1881 la mortalità tra gli esposti era del 42,98%, ed era di gran lunga maggiore nei lattanti rispetto ai bambini già svezzati. Fu Sacchi il primo ad impegnarsi per cambiare questa situazione, riuscendovi solo nel 1903 con una parziale ristrutturazione del brefotrofio, inserendovi tre stanze separate per la cura dei sifilitici e dei contagiosi, e separando le puerpere dalle nutrici a pagamento ed i bambini sani dai malati. Ma soprattutto introducendo l'uso dell'incubatrice e del latte artificiale, il primo prodotto sino ad allora. 

Il ricovero lattanti a Milano

Dalla metà del XIX secolo in poi, infatti, si era cercato di porre in qualche modo rimedio alla eventuale mancanza di latte materno, o della balia, attraverso la modifica dei latti animali, considerato che i latti di vacca, di capra a di asina, non modificati erano assai squilibrati nell’apporto dei vari componenti come grassi, zuccheri, proteine. Faceva eccezione forse il latte d’asina che veniva considerato particolarmente adatto al neonato. Già alla metà dell’Ottocento si ricorreva, però, anche alle prime farine lattee introdotte da chimici e industriali come Justus von Liebig (Darmstadt, 12 maggio 1803 – Monaco di Baviera, 18 aprile 1873), Henri Nestlè (Francoforte sul Meno, 10 agosto 1814 – Glion, 7 luglio 1890) e Carl Heinrich Theodor Knorr (Meerdorf, 15 maggio 1800 – Heilbronn, 20 maggio 1875). I primi due alimenti specifici per lo svezzamento, che fecero la loro comparsa sul mercato a soli due anni di distanza l'uno dall'altro dopo la metà dell'Ottocento, furono proprio la zuppa di malto del chimico tedesco Justus von Liebig nel 1865 e la farina lattea dell'industriale svizzero Henri Nestlé nel 1867. Queste due formule ebbero il merito di aprire la strada alla lunga ricerca di alimenti dietetici per l'infanzia, permettendo così una attenzione sempre maggiore per la crescita e la salute dei nostri bambini, ma si trattava di un tipo di alimentazione artificiale ancora ai primordi, molto squilibrata e che causava disturbi gastrointestinali importanti con dissenterie sovente mortali. Verso la metà del secolo si erano già fatti tentativi di modificare direttamente i latti animali per renderli più adeguati all’alimentazione del neonato e del lattante. 

Fu proprio Pericle Sacchi, dopo aver studiato, insieme ad Alessandro Baroschi, capo-chimico dell’Ospedale Maggiore di Cremona, le caratteristiche e la composizione del latte materno e “dell’eccellente latte vaccino, di cui disponiamo a Cremona”, il primo a trasformare il latte di vacca in modo da dargli i caratteri del latte materno, conservando intera la crema, diminuendo a metà la caseina, aggiungendo quanto mancava di lattosio. I risultati ottenuti furono buoni e contribuirono progressivamente, soprattutto nella prima metà del Novecento, a ridurre la mortalità neonatale. Il nuovo latte “umanizzato”, come allora venne chiamato, ottenne però un altro effetto importante, cioè quello di contribuire alla riduzione del fenomeno dell’abbandono dei bambini da parte delle madri povere e lavoratrici, impossibilitate ad allattarli e ad accudirli.
Sulla base di questi studi vennero formulati i primi cosiddetti “latti umanizzati”, aggiungendo ulteriori vantaggi a quelli ottenuti col metodo della pastorizzazione introdotta nel 1889 da Franz von Soxhlet (1848 – 1926).

Ferrante Aporti

Per favorire l’allattamento materno e il baliatico o in alternativa la distribuzione di latte artificiale, nascevano infatti i primi centri di assistenza e di aiuto alle madri e ai neonati con l'obiettivo di fornire se possibile, “nutrici a que’ fanciulli, le cui madri per fisiche indisposizione, o per la conformazione loro non sono atte a nutrire i loro figli, e mancano dei mezzi necessari per procurar loro sostentamento da un’estranea nutrice”  o in alternativa, gratuitamente, i “latti umanizzati”.  Erano i primi ‘Istituti lattanti’ o di ‘Aiuto materno’, anche se avevano come funzione prevalente unicamente quella di sostituire l’allattamento materno. 
In Lombardia i primi ‘Istituti per lattanti e slattati’ sorsero a Milano nel 1850 grazie all’impegno del pedagogista e filantropo milanese Giuseppe Sacchi (1804 – 1891), seguace ed amico di Ferrante Aporti, già fondatore dei primi asili per l’infanzia a Cremona nel 1828. Sacchi aveva preso spunto dalle crêches francesi, o case della culla, la prima fondata a Parigi nel 1844 ad opera di Jean-Baptiste Firmin Marbeau: si trattava di un ricovero di tre sale a pian terreno con un piccolo cortile. 
In una stanza Marbeau aveva disposto dodici culle donate da dodici benefattrici, nella seconda uno “scaldatojo per prepararvi i pochi conforti destinati a quei poveri bimbi, e per asciugarvi i pannilini”, la terza stanza per i bambini slattati, che non avevano ancora l’età per essere ammessi agli asili. Nonostante alcuni detrattori della nuova istituzione, Sacchi interpellò direttamente madame Villarmè, ispettrice benemerita delle crêches parigine, capitata per caso a Milano.
“Colla scorta dei lumi pratici da questa profferitici e col concorso dei medici…”, fu programmato di istituire ‘Case di Custodia’ per lattanti e slattati, inferiori a due anni e mezzo, figli di madri povere e oneste”, che lavorassero fuori casa  La necessità di diffondere questi istituti di assistenza, era improrogabile, bastava osservare la differente morbilità e mortalità tra bambini poveri e benestanti.
In tutta la Lombardia giunse l’eco degli ottimi risultati ottenuti negli istituti per lattanti, o presepi, milanesi che dimostravano una drastica riduzione della morbilità e della mortalità infantile. Un altro cremonese, Stefano Bissolati, padre di Leonida, in quegli anni segretario della Commissione amministratrice delle scuole di carità, sosteneva che i risultati ottenuti “…dovevano indurre ad affrettare la costituzione di presepi, al fine di accudire i bambini della madri operaje durante le ore dii lavoro e permettere l’allattamento al seno almeno tre volte nel corso della giornata”. E il dottor Luigi Ciniselli, primario chirurgo dell'Ospedale Maggiore di Cremona, gli faceva eco sottolineando che gli asili ed i ricoveri per lattanti e slattati, avrebbero contribuito a liberare “le menti volgari da molti pregjudizi, pei quali sono condotte ad applicare alal cura dei bambini le più strane medicature, o ad abbandonare le malattie di essi finantochè divengono gravissime e superiori ad ogni risorsa dell'arte medica”.
Da notare che la maggior parte delle madri che usufruiva di queste strutture erano filatrici di seta, seguite dalle pettinatrici, dalle lavandaie e dalle operaie di altri settori. La maggior parte dei medici che si interessavano dell’infanzia era convinta che le malattie fossero spesso la diretta conseguenze delle carenze igienico e nutrizionali, oltre all’abitudine invalsa di sottovalutare le condizioni sanitarie del bambino.
Lunghe e approfondite analisi a favore degli istituti per lattanti vennero presentate al congresso dell’Associazione Medica Italiana di Firenze del 1866 e nel congresso di Venezia del 1868. 
Vennero stilati regolamenti, che prevedevano la presenza del medico ed i suoi compiti.
Il medico doveva “visitare giornalmente i neonati e i lattanti per suggerire quei consigli che meglio valgano a tutelare l’igiene generale”: la visita andava fatta ovviamente in presenza della madri per fornire loro consigli igienico-sanitari con particolare riferimento al controllo igienico. Le migliori condizioni igienico sanitarie degli istituti non furono tuttavia in grado di limitare i danni provocati dalle scadenti situazioni familiari e dai rendiconti sanitari di questi istituti sappiamo che alla fine dell’800 la mortalità era comunque ancora assai elevata.
Da qui nascevano appelli, come quello lanciato nel 1899 da Felice Celli, Direttore del Comparto Medico dell’Ospedale dei Bambini di Cremona, affinché venissero promulgate leggi “…per la creazione di nuovi istituti, sotto l’egida della Società Nazionale Pro Infantia, nei quali i lattanti venissero accuditi nei tempi  in cui la madre lavorava e dove la madre potesse allattarli ad intervalli”. A Cremona un primo istituto sorse nel 1874, presieduto dallo stesso Luigi Ciniselli,  in via Borgo Spera n. 8 (l'attuale via Alessandro Manzoni) e, visto il successo, un secondo aprì cinque anni dopo, nel 1879 in uno dei quartieri più poveri della città in via Mercato delle Bestie n. 20, l'attuale via Manini.


Fra Giorgio e le streghe di Valcamonica

Compendium Maleficarum (1608)

Cinquecento anni fa, tra il 1518 ed il 1521, in Valcamonica si consumò una delle più grandi persecuzioni dell'età moderna contro i valligiani accusati di stregoneria: in pochi anni vennero arse sul rogo tra 62 e 80 streghe con le accuse più varie, dall'aver portato la siccità all'aver fatto ammalare uomini e bestiame con i loro sortilegi. Nel condurre questa persecuzione si distinse in particolare per la sua inflessibilità l'inquisitore cremonese Giorgio da Casale, frate domenicano che dal 1502 al 1511 aveva già svolto il suo ruolo nel convento cittadino di San Domenico e che papa Giulio II nell'agosto di quell'anno aveva incaricato di raggiunger la Valcamonica, dopo aver svolto una missione l'anno precedente anche a Como. L'inquisitore cremonese non dovette aver vita facile nelle valli bresciane se qualche anno dopo papa Adriano IV, nel suo Breve Dudum, uti nobis del 10 luglio 1523, si sofferma sulle difficoltà incontrate dall'inquisitore nel portare avanti i processi "nei detti luoghi deputati al suo ufficio" a causa dell'opposizione di "taluni, tanto ecclesiastici quanto laici": «In alcune parti della Lombardia e soprattutto in quei luoghi in cui detto Giorgio svolgeva il ruolo di inquisitore, furono trovate molte persone di ambo i sessi che, dimentiche della propria salvezza e allontanandosi dalla fede cattolica, avevano formato una setta, rinnegato la fede abbracciata con il sacro battesimo, calpestato la santa croce con i piedi e perpetrato su di essa atti ignominiosi. Avevano poi abusato dei sacramenti e soprattutto dell'eucarestia, eletto il diavolo come loro signore e protettore, prestandogli obbedienza e venerandolo; con i loro incantesimi, formule magiche, sortilegi ed altri nefandi atti superstiziosi avevano in molte maniere danneggiato le bestie e i frutti della terra.»

Giorgio Cacatossici da Casale era nato circa nel 1455 a Casale Monferrato e viene spesso segnalato semplicemente come Giorgio da Casale. Era entrato nell'ordine dei frati predicatori probabilmente nel convento di S. Domenico a Bologna, centro principale della Congregazione osservante della Lombardia. Durante la fine degli anni Settanta e Ottanta del Quattrocento studiò teologia allo Studium Generale Bolognese. Il 13 marzo 1482 fu ordinato sacerdote. Nel 1490 era  nel convento di S. Marco a Firenze ma poi tornò a Bologna e nel 1499 fu promosso magistrato di teologia. Successivamente fu iscritto alla facoltà di teologia dell'Università di Bologna e ne divenne decano nel 1504. Il 25 aprile 1502 il Maestro Generale dell'Ordine dei Predicatori Vincenzo Bandelli lo nominò inquisitore di Piacenza (sede primaria) e Cremona (sede secondaria). Questi due sottodistretti erano stati allora ritirati dalla giurisdizione dell'Inquisizione di Pavia. Il nuovo inquisitore aveva immediatamente cercato di avviare processi alle streghe nel suo distretto, incontrando una forte opposizione delle élite locali, soprattutto dopo aver bruciato come strega a Piacenza una giovane donna nel 1503, mentre i suoi problemi a Cremona attirarono anche l'attenzione di papa Giulio II. In una Breve non datata Giulio II diede pieno appoggio agli sforzi di Cacatossici, che nel  primo anno in carica condannò a Piacenza cinque streghe al fuoco e altre due all'esilio. A Cremona Giorgio da Casale istituì la Società della Santa Croce e ottenne per essa alcuni privilegi dal Papa Giulio II nel gennaio 1507. 

Rituale di stregoneria
dal Compendium Maleficarum (1608)

Il 5 agosto 1511 Cacatossici fu nominato inquisitore di Brescia e Cremona, mentre Piacenza fu annessa all'inquisitore di Milano Silvestro Mazzolini da Prierio. Il 19 giugno 1512 il distretto inquisitorio di Cacatossici fu ulteriormente ampliato con l'aggiunta della diocesi di Bergamo. Allo stesso tempo, negli anni 1512-1514 fu anche Vicario Generale della Congregazione della Lombardia. Rimase anche membro della Facoltà teologica dell'Università di Bologna e più volte ne fu maestro reggente. Probabilmente intorno al 1515 Cacatossici fu privato dei distretti di Brescia e Cremona, ma conservò il distretto di Bergamo. Si sa che già nel 1512 il comune di Bergamo protestò contro l'unificazione di questi tre comparti sotto un unico inquisitore e sembra che queste proteste alla fine abbiano avuto successo. Nel maggio 1515 Cremona fu riunita di nuovo a Piacenza sotto l'inquisitore Crisostomo Iavelli e nello stesso periodo anche Brescia ottenne un proprio inquisitore, mentre a Bergamo Cacatossici prestò servizio come inquisitore fino al 1520, presumibilmente l'anno della sua morte. 

Nel febbraio del 1519 Giorgio da Casale chiese invano alle autorità veneziane l'assistenza nei processi alle streghe. Il Consiglio dei Dieci, infatti, preoccupato per l'inaudita violenza della persecuzione, aveva già cercato di intervenire per fermare la carneficina, imponendo il blocco dell'inquisizione nella valle il 31 luglio 1518. Sarebbe riuscito però a fermarla definitivamente solo due anni dopo, il 27 luglio 1520. Ma intanto si era consumata una delle più grandi tragedie della fine del Medioevo. 

Le popolazioni alpine della Valle Camonica, in virtù del loro isolamento, della  loro condizione sociale e delle abitudini che da questa derivavano, unitamente alle infermità e alle deformazioni fisiche dovute alle malattie, avevano da tempo attirato l'attenzione degli inquisitori e dei demonologi, particolarmente sensibili alle informazioni venute dai visitatori caratterizzate da  sospetto e paura e impregnate di pesanti pregiudizi. Nelle valli, inoltre, dove il cristianesimo si era diffuso in modo superficiale e non prettamente ortodosso, erano sopravvissute gran parte delle credenze e delle usanze popolari che conservavano l'impronta degli antichi miti pagani che gli inquisitori comprendevano, inevitabilmente, nel vasto repertorio magico-diabolico. In una lettera datata 1º agosto 1518 Giuseppe da Orzinuovi, funzionario veneto di Terraferma, descrive così la Valle Camonica a Ludovico Querini: “Luogo però più montano che pianura, luogo più sterile che fructuoso, et abitato da gente per la mazor parte più ignorante che altramente, gente gozuta, quasi tutta deforme al possibile senza alcuna regola del vivere civile”, anche se poi richiama l'attenzione sul fatto che errore e apostasia siano causati dalle difficili condizioni di vita che trascinano spesso alla disperazione: “Noe è dubio che li desperati, vedendosi prometere dil bene, assai richeze et a piaceri bontempo, prometono di fare tutto”. Questo determina un costante aumento dell'eresia: “Et pare che da quel tempo in qua siano trasferite le strigaria de albania in questa valle camonica; tanto che li è moltiplicata de tempo in tempo la maledizione, che se ora non se li feva condigna provisione, el morbo de tale peste andava tanto avanti che tutta quella valle, monte e piano, quei poveri sacerdoti et secolai, fati i fedeli parte di le Maestà divina et de loro senza più baptesimo che baptizzati et consequenter dediti ad opere diaboliche, dotti da fascinar li omini, strigar fantolini”. Già dal 1445 l'inquisitore della valle aveva chiesto istruzioni a Venezia su come ci si dovesse comportare, ma è quarant'anni dopo, il 9 dicembre 1485, che l'inquisitore domenicano Antonio da Brescia denuncia al Senato veneziano l'esistenza di streghe a Edolo, e ottiene in seguito dal Consiglio dei Dieci l'approvazione per iniziare il procedimento inquisitorio. Sempre nel dicembre del 1485 la Serenissima sollecita il sostegno del capitano e podestà di Brescia nei confronti di Antonio; frattanto il vescovo della città rivendica il diritto di sanzionare le sentenze di condanna. L'anno successivo i magistrati laici bresciani si oppongono all'operato del frate inquisitore. Nel 1499 tre sacerdoti camuni, Martino Raimondi di Ossimo, Ermanno de Fostinibus di Breno e Donato de Buzolo di Paisco Loveno vengono condotti a Brescia con l'accusa di recarsi al Tonale con l'olio santo e le ostie consacrate per le messe nere senza impartire l'estrema unzione. Il 23 giugno 1505 nei pressi di Cemmo, frazione di Capo di Ponte, vengono arse sul rogo sette donne e un uomo e nel 1510 a Edolo, su condanna del vescovo di Brescia Paolo Zane, vengono bruciate 60 streghe accusate di aver portato la siccità e fatto ammalare uomini e animali con i loro sortilegi.

Goya, il Sabba delle streghe

E' in questa escalation di fanatismo religioso che viene nominato inquisitore a Brescia e Cremona Giorgio da Casale a cui nel 1518, con la ripresa delle persecuzioni vengono affiancati cinque inquisitori per ognuna delle cinque pievi della Valcamonica: don Bernardino de Grossis a Pisogne, don Giacomo de Gablani a Rogno, don Valerio de Boni a Breno, don Donato de Savallo a Cemmo e don Battista Capurione a Edolo, coordinati dal vice inquisitore Lorenzo Maggi. Tra giugno e luglio vengono arse tra le 62 e le 80 streghe, tra cui venti uomini. Subiscono la condanna a morte anche tre personaggi di spicco: tale Agnese "capitana delle fattucchiere", messer Pasino "cancelliere del Tonale" e un tale anonimo che era il corriere del primo in Francia e Spagna, fino a quando, il 31 luglio, la Repubblica Veneta impone il blocco dell'inquisizione nella valle. Un paio di mesi dopo, il 25 settembre, il vescovo di Pola e nunzio pontificio a Venezia Altobello Averoldi porta un certo Bretin, reo confesso di stregoneria, che, davanti al collegio, testimonia l'esistenza di sabba presso il monte Tonale, fornendo il pretesto per una ripresa in grande stile della caccia alle streghe. Il monte Tonale si trova tra la Valcamonica e la Val di Sole, tra la Lombardia ed il Trentino. Si tramanda che su questo monte, durante il mese di giugno, nei giorni di giovedì e sabato, venissero praticati degli incontri tra streghe, descritti nel 1518 dal castellano di Breno Carlo Miani al dottor Marino Zorzi veneziano: “a Breno alcune donne tormentate confessarono di haver fatto morir homini infiniti mediante polvere avuta dal demonio, la quale sparsa in aria facea sorgere procelle e con essa una asserì d’aver ucciso 200 persone”. 
Piazza della Loggia dove fu arsa
Benvegnuda Pincinella

Allo stesso modo racconta di fanciulle che, spinte dalle loro stesse madri, disegnate delle croci a terra ci sputavano sopra urlando disgustose parole. Questo rito faceva apparire il demonio a cavallo che le scortava sulla vetta del monte, sul quale prendevano parte a orge. In cambio del loro ripudio del cristianesimo ottenevano bellezza e giovinezza. Nel corso dei processi del 1518 una donna di cinquant'anni, chiamata Onesta, confessò di essersi più volte recata al Tonale cavalcando una capra. Lassù la donna avrebbe imparato a scatenare le tempeste e, dopo aver reso omaggio al demonio assiso in trono, avrebbe ricevuto una polvere magica per far morire le persone. Onesta raccontò poi di banchetti antropofagi ai quali partecipava una gran quantità di gente. Il 29 giugno 1518 salì sul rogo in piazza della Loggia a Brescia Benvegnuda la "Pincinella", una donna sessantenne di Nave, processata e condannata a morte per stregoneria per aver affermato davanti ai suoi inquisitori di recarsi ai sabba che si tenevano lungo le sponde del Mella e sul monte Tonale. Benvegnuta Pincinella fu denunciata dal suo dirimpettaio, il quale aveva fatto ricorso ai suoi medicamenti a base di erbe selvatiche, che a fra Lorenzo Maggi rivelò di abitare di fronte ad una strega. E bastò quel gesto di viltà, per innescare un incendio che scosse tutta la Valcamonica. C'era però anche chi, più smaliziato, mostrava di non credere all'esistenza dei sabba sul Tonale, come Francesco Rovello da Clusone che, dopo aver assistito ai processi, scriveva il 17 dicembre 1518 a Girolamo Querini: “Invero difficil cosa da credere (...) imaginandomi più tosto che 'l para cussì a queste femine per forza del diavolo, et che siano illusioni”. Ma altri testimoni oculari dei processi del 1518, come il giurista bresciano Alessandro Pompeio non avevano dubbi che “Queste bestie eretiche hanno electo uno monte, el qual se chiama Monte Tonale, nel qual se reduseno ad foter e balare, qui afirmano che non trovano al mondo nihil delectabilius et che onzendo un bastone, montano a cavalo et eficitur equus, sopra il quale vanno a ditto monte et ibi inveniunt el diavolo, quale adorano per suo Dio et signore, et lui ge dà una certa polvere, con la quale dicte femene et homeni fanno morir fantolini, tempestar, et secar arbori et biave in campagna, et altri mali, et butando dicta polvere sopra uno saxo, si speza”.


Giuseppe Manfredi, un cremonese alla conquista del Polo

Giuseppe Manfredi con il padre e la nipotina

N
el 1953 ricorreva il 25° anniversario della morte del grande esploratore norvegese Roald Amundsen, scomparso nel 1928 a 56 anni tra i ghiacci del Polo Nord durante le ricerche dei sopravvissuti del dirigibile “Italia”, comandato da Umberto Nobile. Per celebrare la ricorrenza, Maner Lualdi, grande aviatore e giornalista de “La Stampa” e “Corriere della Sera”, programmò una trasvolata del continente crtico a bordo di un piccolo aereo, il Girfalco dell'Ambrosini, con un motore Alfa Romeo a 4 cilindri da 140 cv del tipo 110 Polo, dotato di tre carrelli con due sci ciascuno. Era un piccolo monomotore biposto del peso di 800 chilogrammi, onorevole compromesso tra l'aviazione romantica e più economica, e la tecnologia moderna, con a bordo radiotelefono, radiogoniometro, tenda per due persone, medicinali e viveri. Lualdi non era certo nuovo ad imprese di questo genere: pilota dell'aeronautica militare, tra il 1937 e il 1938  aveva effettuato il raid aereo da Torino a Rawalpindi, alle falde dell'Himalaya, e ritorno, a bordo di un CA 310, con cui stabilì un primato della categoria coprendo 24.000 km in 54 ore. Nel 1939 aveva vinto il premio istituito da Il Popolo d'Italia, per aver effettuato il più rapido collegamento tra Roma e Addis Abeba con un volo senza scalo di 4500 km in 11 ore e 25 minuti. Tra il dicembre 1948 ed il febbraio 1949 aveva già effettuato il primo volo transatlantico con aereo da turismo “Angelo dei Bimbi” (copilota Leonardo Bonzi, da Milano 27 dicembre 1948 a Buenos Aires 14 febbraio ’49), per raccogliere fondi per i "mutilatini" di don C. Gnocchi, reso ancora più avventuroso da un uragano che fece deviare il velivolo dalla giusta rotta. Ed infine, solo un paio d'anni prima, il 23 settembre 1951, accompagnato da un operatore cinematografico, aveva iniziato una nuova trasvolata, promossa dal Corriere della sera, a bordo di un piccolo aereo, costruito quello stesso anno dalla Macchi (il "Macchino"), lungo appena 6,5 m per un peso di 420 kg, ma dotato di un serbatoio supplementare che gli permetteva di coprire senza scalo 1200 km, con cui da Milano avrebbe dovuto raggiungere l'Australia. Il viaggio, tuttavia, si concluse fortunosamente dopo 16.000 km di volo a causa dell'imperversare dei monsoni che costrinse Lualdi a un atterraggio disperato nella giungla nell'isola di Sumatra.

La jeep Matta dell'Alfa Romeo

Per il nuovo importante evento l'Alfa Romeo mise a disposizione una jeep “Matta” dotata di rimorchio, con il compito di trasportare attrezzature, materiale cinematografico, vestiario ed altro occorrente per la spedizione a cui si sarebbero aggiunti al di là del Circolo Polare Artico, altri quattro mezzi a disposizione dei componenti la spedizione: un veicolo cingolato “Smobil” e tre mezzi marittimi che con felice neologismo il Lualdi chiamava “fochiere” (solide, piccole navi per la caccia alle foche, “autentiche fabbriche del mal di mare”). La partenza della “Matta” anticipava quella del “Girfalco” in modo da arrivare nei vari scali quasi contemporaneamente. A guidare la jeep nell'impresa artica venne chiamato un ex maggiore dell'aviazione, operatore della Incom, il cremonese Giuseppe Manfredi, affiancato all'amico di sempre Giuseppe Belloni. Il raid era stato pensato un anno prima della partenza, avvenuta i primi di marzo del 1953. Lualdi aveva l'idea di festeggiare in modo spettacolare il 25° della sfortunata impresa di Amundsen con qualcosa che avesse lo stesso carattere di eccezionalità, ed aveva di conseguenza progettato il raid che avrebbe dovuto prevedere una doppia spedizione, aerea e terrestre. Per quella aerea avrebbe fatto eventualmente tutto da solo, anche se poi si sarebbe avvalso del secondo pilota Max Peroli e del motorista Pretti, ma per quella terrestre aveva il problema di scegliere i collaboratori. Decise di rivolgersi alla Incom, che avrebbe documentato il raid, e venne a sapere che vi era un operatore quarantenne che si era particolarmente distinto nelle riprese aeree, anzi era il secondo pilota al mondo che fosse in grado di guidare con estrema destrezza l'elicottero “Sicorsky”, il più grande apparecchio sino ad allora costruito in Inghilterra. Manfredi, contattato a Roma, accettò a condizione che suo compagno di viaggio fosse stato Giuseppe Belloni, che si trovava a Milano, il quale non si fece pregare. Giuseppe Manfredi aveva già fatto il pilota di taxi aerei per una società italiana ed era stato pilota personale di Tyrone Power quando nel 1949 l'attore era impegnato in Italia nel film “Il principe delle volpi”. Non era mai stato al polo Nord, ma aveva già girato in lungo e in largo l'Africa ed in elicottero si era calato nel cratere dell'Etna per girare alcune riprese cinematografiche. L'anno prima, inoltre, aveva documentato l'alluvione nel Polesine con i servizi trasmessi nei notiziari della “Settimana Incom”. Con Belloni faceva coppia fissa, al punto che sui due esploratori erano nati anche racconti leggendari, come quello che nel corso di una battuta di caccia grossa avessero ucciso un leone solo aprendone le fauci, afferrando la coda dall'interno e rovesciandogli la pelle. 

La piccola jeep “Matta” affidata alle loro cure costituiva la base a terra della spedizione: avrebbe dovuto contenere in pochissimo spazio dieci quintali di attrezzature comprendenti apparecchi fotografici, macchine da presa, obiettivi speciali, teleobiettivi, telemetri, apparecchi di precisione, tende, effetti personali, equipaggiamento in grado di affrontare temperature bassissime, undicimila metri di pellicola a colori e tremila metri di pellicola in bianco e nero, oltre ai viveri, alla benzina e quant'altro fosse servito all'impresa. Compito di Manfredi e Belloni era curare i servizi giornalisti e cinematografici da distribuire in tutto il mondo, restando in costante contatto da un lato con l'Italia e dall'altro con Luandi, che doveva raggiungere la base avanzata di Bardufoss, dandosi appuntamento per la stessa data.

Giuseppe Manfredi era nato nel 1912 ed abitava con i genitori ed il fratello Gianni nella cascina di via Lugo 7, dove era tornato pochi giorni prima della partenza, il tempo per promettere in regalo alla figlioletta di dieci anni un orsacchiotto vero portato dal polo. D'altronde qualche anno prima aveva recapitato alla nipotina Patrizia, allora appena nata, un regalino calato con un minuscolo paracadute lanciato sulla cascina di via Lugo, durante un passaggio spericolato con l'aereo della Incom.

Maner Lualdi

Lualdi aveva annunciato il raid il 30 ottobre del 1952 al Circolo della Stampa di Milano davanti al padre Adriano, direttore d'orchestra, e alla madre Wanda Stabile de Sailmberg, al conte Bonacosta, a Eugenio Montale, Clara Calamai e tante altre personalità, mentre a Passignano sul Trasimeno si allestiva il piccolo aereo. «Vorrei ripercorrere i sentieri di Andrée e di Peary, di Sverdrup e Nansen, del Duca degli Abruzzi e di Cagni, di Amundsen e di Byrd», aveva affermato prima della partenza. «Cercherò di raggiungere il punto ove la nostra aeronave s'incendiò, e il punto ove Malmgren cedette al destino. Se il gelo avrà pietà di pochi fiori li getterò sulle tombe bianche, fatte dalla banchisa». 

Il Piano di viaggio prevedeva che la Matta anticipasse in ogni tappa la partenza del Girfalco in modo da far coincidere l’arrivo di entrambi a conclusione tappa. Superato il circolo polare artico la “Matta” venne sostituita sul ghiaccio da un cingolato “Smobil” mentre l’assistenza su acqua veniva assicurata da tre piccole e robuste navi per la caccia alle foche. La vettura venne immatricolata a Milano il 25 novembre 1952 con la targa MI 203788 ed intestata alla stessa Alfa Romeo. Era una versione AR 51, telaio 00741 e motore 1307*00339; attraversò tutta l'Europa e raggiunse Oslo via terra. La vettura portava sul muso la dicitura “1900 AR 52” evidentemente a scopo pubblicitario per lanciare la nuova versione civile della Matta che sarebbe entrata in produzione di lì a poco. Era dotata di un primordiale hard top molto più idoneo al clima rigido che non il telone originale.  
Il percorso partì da Roma ed in effetti lì, all’Aeroporto dell’Urbe, Lualdi aveva presentato il “Girfalco” ed aveva salutato autorità e familiari per poi proseguire per Milano con la “Matta”. Il volo con a bordo soltanto Lualdi e l'operatore Max Peroli prese il via da Milano Linate con prima destinazione il piccolo aeroporto di Toussus le Noble di Parigi, raggiunto dopo un erroneo e proibito atterraggio all’aeroporto militare di Brétigny-sur-Orge, poi si diresse all'aeroporto di Grimbergen a Bruxelles, ad Amsterdam, all'aeroporto Kastrup a Copenaghen  il 9 aprile, ad Oslo (aeroporto di Fornebu) con incontro con il generale Larsen, che era stato pilota di Roald Amundsen, a Trondheim, alla base di Bardufoss, quindi a Tromsø. Il progetto per il volo del Girfalco prevedeva, verso il 20–30 maggio, un volo unico con traversata del Mare di Barents e, via Isola degli Orsi, passaggio sulle Svalbard con puntata verso il Polo Nord, e ritorno sulla stessa rotta. Contemporaneamente la marcia di avvicinamento della Matta al Polo attraverso l'Europa si era svolta passando per Parigi, Bruxelles, Amburgo, Copenaghen e Oslo. Attraversato il circolo polare la Matta aveva raggiunto la base dell'aereo.
Il 19 giugno, dopo uno sfortunato e drammatico tentativo del 5 giugno, con un volo di circa 3.000 chilometri  durato circa 14 ore consecutive in condizioni atmosferiche proibitive, il “Girfalco” partito dalla base di Bardufoss, raggiunse il punto, sul Mare di Barents, in cui Roald Amundsen si era sacrificato: lì vennero lanciati pochi fiori benedetti da Padre Pio, le medaglie, le stelle alpine di Feltre appesi ad un piccolo paracadute azzurro. Il lancio si ripeteva verso l’82° parallelo sulla banchisa nel punto in cui si pensava precipitata l’“Italia” ed infine si concluse con l'atterraggio all’aeroporto di Banak, a 70° di latitudine nord. Manfredi e Belloni girarono le riprese con cui venne realizzata una serie di documentari, sia muti che sonori, per la “Settimana Incom”, visibili ancora oggi nell'archivio online dell'Istituto Luce. Il raid valse invece a Luandi
, nel 1954, una medaglia d'oro ed è puntualmente ricordato in Silenzio bianco. Cronache dell'Artico  (Ed. Corbaccio dall'Oglio, 1953). 

Preparativi al Girfalco

L'impresa di Luandi, Manfredi e Belloni è inoltre docuemntata in una ricca collezione filatelica e dai timbri è possibile ricostruire il susseguirsi temporale delle tappe, a cui nessuno dei protagonisti, in quei mesi, diede particolare rilevanza. Sulle buste predisposte per l’occasione dal Gruppo aerofilatelico dell’Unione Filatelica Lombarda di Milano con dicitura a stampa riguardante il raid, immagine dell’aereo e bandiere italiana e norvegese, il timbro di partenza, di “Milano Ferrovia Posta Aerea”, reca data del 4 marzo 1953, quello di arrivo di Tromsø del 2 maggio. Su tutte le buste, numerate e recanti la firma di Maner Lualdi, è impresso lo speciale cachet illustrato, rosso, con l’immagine di un piccolo aereo che collega idealmente il Duomo di Milano con la banchisa polare. Nel 2013, per ricordare questo importante avvenimento nel 60° anniversario, le Poste norvegesi hanno emesso un francobollo ed una busta affrancata con i due francobolli: quello norvegese e quello italiano riproducente il veicolo dell’Alfa Romeo.


Aristide Fontanini e il segreto di Stradivari

Un violino Fontanini del 1924

Aristide Fontanini è stato un liutaio cremonese degli anni Trenta che, pur avendo realizzato pochi strumenti, ha avuto un momento di grande notorietà nel dopoguerra al punto da fondare nel 1947 una bottega scuola a Salò per la produzione di strumenti con il proprio sistema. Il 21 settembre 1946, in occasione della serata inaugurale della mostra dell'Artigianato, la prima dopo la fine della guerra, al termine del concerto al teatro Ponchielli, diretto dal maestro Ennio Girelli, si presentò sul palco annunciando di aver scoperto il “segreto” di Stradivari. Fu il finimondo e ne nacque una delle più accese polemiche che per mesi tennero banco tra liutai e musicisti, tre lustri prima che Simone Ferdinando Sacconi iniziasse la vera riscoperta dei “segreti” stradivariani. Fontanini, originario di Pizzighettone, non era nuovo alle polemiche. Si diceva, anzi, che lui, da semplice commerciante di cornici antiche, nel 1935 avesse iniziato a costruire violini per puntiglio negli anni in cui cominciava a farsi strada l'idea che per realizzare un tale strumento si dovesse essere depositari di un segreto costruttivo. Dopo essersi trasferito a Roma nel 1920, nel 1937 aveva fatto capolino nella sua città d'origine in occasione del primo congresso internazionale di liuteria, proponendo il suo nuovo sistema, accolto freddamente dagli altri congressisti. Ma non si era dato per vinto e, in attesa dell'inaugurazione della mostra dell'artigianato, la sera del 31 luglio nel salone del circolo Trecchi aveva presentato un'audizione dei propri strumenti che, però, a detta del suo maggiore antagonista, il repubblicano Vittorio Dotti, fu “una vera delusione”. “Non ho sentito in quegli strumenti vibrare (a parte la abilità dei concertisti) nulla di eccezionale – scriveva Dotti su “Fronte democratico”del 7 agosto – strumenti, per voce, di una mediocrità evidentissima. Forse si faranno, per ora no. Perciò niente Stradivari e nemmeno niente Amati, niente Guarneri. A Cremona nel giro di pochi anni si sono spenti tutti i liutai che continuavano modestamente ma intensamente la tradizione della liuteria cremonese; e la continuavano con abilità, serietà ed onestà, senza per questo atteggiarsi a scopritori di segreti che non esistevano e non esistono...Il Fontanini ne dovrebbe seguire l'esempio. I suoi strumenti, come facevano i modesti quanto valenti suoi predecessori, li dovrebbe inviare in esposizioni internazionali e nazionali di liuteria dove apposite giurie di competenti ne fisseranno, in un verdetto sereno, il loro intrinseco valore. Voler che il la parta proprio da Cremona e per di più, con una coreografica montatura, mi sembra che torni a scapito della serietà dei propositi della costituenda mostra artigiana e, soprattutto, contribuisca a scemare il valore di quel che vi può essere di buono negli strumenti del Fontanini”.
 

In realtà Fontanini non aveva mai parlato di un “segreto” stradivariano, ma di un'abilità costruttiva personale nella lavorazione del legno, ereditata dalla tradizione familiare, che gli aveva suggerito un diverso sistema per la fabbricazione delle tavole, eliminando l'uso della sgorbia. Un sistema regolarmente brevettato: “Strumenti ad arco i cui piani armonici, anziché essere modellati nelle loro forme definitive, scavandoli completamente dal legno massiccio o curvando il legno con mezzi meccanici, termici o chimici, sono curvati per flessione naturale, ottenuta con accorgimenti tali da portare il legno diritto alla forma definitiva senza alterarne le fibre”. Ma Fontanini, indubbiamente dotato di un notevole fiuto commerciale, era andato ancora più in là, anticipando una proposta che avrebbe trovato realizzazione solo cinquant'anni dopo, nel 1996: sul giornale “Risorgimento economico” del 29 aprile 1946, edito a Roma, aveva pubblicato il progetto di costituzione di un consorzio italiano per la costruzione e l'esportazione degli strumenti ad arco, che avrebbe dovuto aver sede a Cremona, affidato a persone di fiducia, “sperando che la liuteria italiana, sotto gli auspici della città tradizionale, possa avere incremento e portare lavoro e benessere”.

Etichetta del periodo romano

La presentazione al teatro Ponchielli, annunciata con i toni enfatici della divulgazione di un segreto stradivariano, si risolse in un clamoroso fiasco, con un tifo da stadio perfettamente organizzato dai numerosi avversari. Tra i detrattori più accaniti Emilio Zanoni, il futuro sindaco di Cremona, che in un corsivo su “Fronte democratico”, ironizzava sulla scoperta definendo Fontanini “impeccabile come un Mefistofele in abito nero e pizzetto”. “Pareva la rappresentazione dei «Sei personaggi in cerca d'autore» di Pirandello. Innocui borghesi, sdraiati sulle poltrone e nei palchi che si trasformavano subitamente in attori di commedia, gesticolanti, urlanti e imprecanti. Su tutto la voce dalle inflessioni sataniche e dalla sarcastica ironia (nell'intenzione!) del mago del violino, le interruzioni infocate del contraddittore numero 1 (cittadino Dotti) e le disquisizioni pseudoscientifiche del terzo: - l'amato e prediletto allievo del prof. Peluzzi (chi è costui?) (si tratta di Euro Peluzzi, architetto e teorico della liuteria, ndr) . Si questionava ai bei tempi del medio evo su quanti angeli stavano sulla punta d'uno spillo, ieri sera pressapoco si discuteva la stessa cosa”. Mentre Fontanini parlava di “energia vitale”, Dotti gli agitava in faccia un violino di Aldo Castellotti, geniale autodidatta nato come stuccatore, che avrebbe poi migliorato la qualità dei suoi strumenti solo dopo essersi iscritto nel 1947 alla scuola di liuteria. Lo sollecitava ad un confronto sulle qualità acustiche degli strumenti, senza risultato. “Uno spettacolo tutto da ridere! - aggiunge Zanoni (Fronte democratico del 22 /9/1946) – Dotti dichiarava Fontanini squalificato e in fuga, l'altro insorgeva con un accento da «vecchia guardia»: - Fontanini non fugge mai. Ma all'atto pratico pigliava tutti i pretesti per non venire a un confronto di suoni dei vari strumenti...Lo spettacolo d'ilarità avrebbe potuto continuare fino alle luci dell'alba. La gente in platea (odi profanum vulgus et arceo, penserà Fontanini) si scompisciava dalle risa ed eccitava i contendenti come a una lotta di galli. In un angolo due improvvisati bookmaker facevano scommesse: cinquanta per Fontanini se si impadronisce del microfono! Cento contro se non riesce a tenere il fiato per dieci minuti consecutivi”. Gli animi sono agitati e la serata si conclude lasciando ognuno convinto delle proprie idee. La polemica, però, prosegue. La questione irrisolta è: il sistema di Fontanini migliora il suono, oppure no? Deciso a dimostrarne la validità il liutaio annuncia che il 29 settembre si terrà a palazzo dell'arte un concerto con i suoi strumenti. Zanoni e Dotti propongono invece una vera e propria disfida: da una parte Fontanini con i suoi strumenti, dall'altra la Scuola internazionale di liuteria ed altri liutai, come Aldo Castellotti e Giacinto Bertolazzi, pupillo di Peluzzi. Gaetano Persico, Giorgio Colorni e Giuseppe Somenzi si schierano apertamente con Fontanini, Mauro Masone propone un referendum, altri come Cabrini, direttore del “Lunedì” sono semplicemente scettici, che si possa migliorare la sonorità del violino solo cambiando metodo costruttivo. 

Etichetta di uno strumento della scuola

Per qualche giorno Fontanini tace, in attesa che le acque si calmino, poi, forse temendo di essere accusato di sottrarsi al confronto, accetta la sfida, dettando le sue condizioni, non prima di aver chiarito l'equivoco nato sul supposto “segreto” stradivariano: “Ora che l'opinione prevalente sembra volgere a mio favore – scrive a “Fronte democratico” - devo precisare alcune cose. Se l'altra sera, dopo essermi già doluto coi dirigenti, acconsentii di parlare ancora al Ponchielli come era stato strombazzato, in ora e luogo così inopportuni, dopo un concerto sinfonico alquanto prolungato, fu soltanto per mantenere la mia promessa anche se la manifestazione fu svisata, per ragioni che ignoro.  Le mie promesse rivelazioni avevano suscitato ormai molta curiosità e se non le avessi fatte, chissà cosa si sarebbe detto, aggravando la compromissione dei promotori. Molti però ricorderanno che io, ideatore di quel concerto...avevo detto che avrei parlato dopo un'audizione di strumenti ad arco, opera eccelsa di artigiani cremonesi, rimanendo così nel tema della Mostra. E questo per spiegare le ragioni del suono di quegli strumenti che interessano il nostro artigianato, suono che non fu mai spiegato, ed illustrare quel segreto di costruzione che è invisibile mascherato nell'interno del violino e che, per non essersi mai trovato, fu negato, purtroppo, anche da Cremona. D'altronde – prosegue Fontanini – i confronti e le prove che mi furono richiesti, non ero tenuto a darle, perchè avevo già dato un'audizione al Trecchi, ed ero impegnato non a presentare dei violini che, non essendo liutaio, avrei anche potuto non saper fare. Per dimostrare che c'è un procedimento di grande importanza per costruire il violino, e che si nasconde, bastava che io lo sapessi indicare, ed avrei portato lo stesso un contributo alla liuteria contemporanea. Che poi questo «segreto» si voglia chiamare dello Stradivari, del violino, mio o di chicchessia, a me non importa: il fatto è che l'ho brevettato io al mio nome perchè l'ho trovato io, sebbene è contenuto nel violino, ed ho detto chiaramente che il violino si deve costruire così, perchè così soltanto è ben ragionato e sicuro nel rendimento. Per ciò ho detto che mi meraviglierei se lo Stradivari, dotato di tanta bravura, non lo avesse anche lui applicato”. Dunque, sgombrato il campo da qualsiasi equivoco sul “segreto”, Fontanini accetta la sfida e pone le sue condizioni: le prove dovranno prevedere la spiegazione sulla formazione del suono e la tecnica seguita nella costruzione dello strumento ad arco, la realizzazione  contemporanea di due violini o di altri strumenti in locali chiusi e controllati, senza la possibilità di provarli e senza applicarvi montature e corde che avrebbero dovuto essere applicate con materiali uguali per tutti da un tecnico designato. Tutti gli strumenti avrebbero dovuto possedere sonorità dolcezza di timbro, prontezza nel suono, corde di identica dimensione, eleganza e finezza estetica e rapidità nell'esecuzione, riservando il giudizio ad una commissione di esperti appositamente designata. Ovviamente, trattandosi di una gara, lo sconfitto avrebbe dovuto pagare e, quindi, l'iscrizione avrebbe comportato un costo di cinquantamila lire, fermo restando che, se il vincitore fosse stato Fontanini, la posta in gioco sarebbe stata donata all'infanzia abbandonata di Cremona. La reazione non si fa attendere: Vittorio Dotti accusa Fontanini di non avere inventato nulla e di aver ripreso una “scoperta” già pubblicata in un articolo di una rivista scientifica del settembre 1940 sui risultati ottenuti nel corso di una prova acustica effettuata da Gioacchino Pasqualini presso l'Istituto Nazionale di Elettroacustica, ed insinua il dubbio che due violini di Fontanini esposti alla mostra siano invece di fabbricazione tedesca. Il botta e risposta si sussegue ancora per alcuni giorni, con interventi piccati da entrambe le parti, con Fontanini pronto a difendere le proprie convinzioni ed a rintuzzare gli attacchi, compreso quello del violinista Alfonso Siliotti, non coinvolto nelle audizioni: “A Siliotti, che si atteggia a difensore di Stradivari e della liuteria cremonese, non so che rispondere in questioni tecniche, perchè lui non ne parla; ma penso che le ragioni del suo livore possano essere niente altro che queste: quando decisi di venire a Cremona per dare le mie prove, mi fu proposto Siliotti come violinista da persona che mi sta vicino; ma senza indeferenza né per l'uno né per l'altro, non potei accettare perchè ero già impegnato col violinista Brasi, fin dal 1935, epoca del primo esperimento al Filodrammatici. In tutta questa faccenda, fin dall'inizio, io ho fatto soprattutto una questione campanilistica cremonese, per cui esclusi dai miei esperimenti anche l'ottimo amico prof. Pasqualini, violinista e fisico di valore. E poiché è mia impressione che il Brasi suoni meglio del Siliotti, così non potei non preferire il Brasi, che è di Cremona. Se poi egli era discusso perchè ha portato la camicia nera e non è corso in qualche altro partito sperando di lavarsela, a me non importa, perchè non sono io che devo fargli il processo. Del resto, dove ha suonato Siliotti, quando suonava Brasi? Ripeto: io faccio una questione artistico-artigiana cremonese e nient'altro”. In realtà, la disfida, convocata per il 19 settembre 1946, non si fece, con buona pace dei contendenti e Fontanini l'anno dopo andò ad aprire la sua scuola di liuteria a Salò.


venerdì 10 dicembre 2021

Farinacci e il "massacro di Cremona"

Farinacci con Mussolini al convegno agrario

Poco più di cent'anni fa, il 5 settembre 1920, Benito Mussolini al teatro Politeama Verdi tiene, in occasione del convegno regionale dei Fasci lombardi, il suo primo discorso programmatico. La manifestazione, è fortemente voluta da Roberto Farinacci, intransigente capo degli squadristi locali che, per organizzarla, si è recato di persona a Milano ad incontrare Mussolini, affrontando un viaggio, che, a dispetto della breve distanza, si rivela difficoltoso per gli scioperi in corso. La città, infatti, è fitta di presidi operai che il futuro ras cremonese, ancora sconosciuto ai più, beffa utilizzando la sua vecchia tessera di ferroviere e spacciandosi per staffetta degli scioperanti. In città la tensione si mantiene alta, perché i socialisti non hanno digerito la “provocazione” del raduno del 5 settembre; circolano voci di rappresaglie e vendette sugli elementi fascisti locali, pochi e ben conosciuti dai loro avversari.  “Io sono reazionario e rivoluzionario, a seconda delle circostanze - sono le parole pronunciate da Mussolini, passate alla storia - Farei meglio a dire, se mi permettete questo termine chimico, che sono un reagente. Se il carro precipita, credo di fare bene se cerco di fermarlo; se il popolo corre verso un abisso, non sono reazionario se lo fermo, anche colla violenza. Ma, sono certamente rivoluzionario quando vado contro ad ogni superata rigidezza conservatrice e contro ogni sopraffazione libertaria…Noi non siamo per la guerra, ma a chi ci aggredisce, spareremo sempre sul grugno. Poiché non siamo seguaci di San Filippo Neri, che insegnava di tendere, dopo la prima percossa, l’altra guancia d un nuovo schiaffo…Questa è l’ora del fascismo antidemagogico; l’ora di una sana attività politica, non avvilita da tessere e da statuti, che riporti la vita nazionale nel suo giusto ritmo. Perché l’unico nostro ideale è la massima grandezza dell’Italia”. In questo discorso Mussolini delinea abbastanza chiaramente la nuova strategia del fascismo, dopo la correzione di rotta operata tre mesi e mezzo prima al Congresso di Milano. Innanzitutto emerge la volontà di giocare, da minoranza agguerrita e armata, la carta della lotta di piazza, con l'intento di colpire “senza pietà” i socialisti, così com'è avvenuto già nel 1919  con l'incendio dell'«Avanti!» il 15 aprile e gli scontri in occasione dello sciopero di solidarietà con la Russia del 20-21 luglio. Poi spicca la priorità attribuita alle rivendicazioni nazionalistiche sul confine orientale: l'omaggio all'impresa di Fiume, l'esaltazione delle prime violenze squadriste contro gli slavi, la critica al governo per il ritiro delle truppe dalla città albanese di Valona, l'ambizione di trasformare l'Adriatico in un «catino d'acqua» italiano. Il capo del fascismo non vuole vincolarsi ad alcuna alleanza fissa (siamo «gli zingari della politica italiana»; dice). Ma evidente è la sua intenzione di ergersi a difensore dell'ordine costituito. Apre alla monarchia, deponendo ogni «pregiudiziale repubblicana». Apre al Vaticano, rendendo omaggio all'«immenso impero spirituale» rappresentato dalla Chiesa cattolica. Apre ai capitalisti, indicando abbastanza apertamente nel mercato e nell'impresa privata le «molle principali» che reggono l'economia nazionale, mentre irride i sindacalisti riformisti, come il segretario aggiunto della Cgl Gino Baldesi, giunti in ritardo alla consapevolezza che la demagogia non paga. Soprattutto Mussolini mostra di aver capito che la situazione si polarizza sempre più tra gli estremi per la crisi delle «forze intermedie», liberali e democratici, che si stanno «sfasciando per mancanza di uomini». Una circostanza che offre al fascismo vari spazi politici da occupare. Il motto di Mussolini, evocando la località di Ronchi da cui partì l'impresa di Fiume, è «me ne frego», diventato poi l'emblema delle camicie nere. Uno slogan per in verità non indica indifferenza o disinteresse egoistico verso il prossimo, ma che significa: non mi importa delle conseguenze negative che può avere la mia azione, coerente ai miei ideali. 
Piazza Roma negli anni Venti

In coincidenza con il raduno fascista, arriva puntuale la mobilitazione avversaria, sotto forma di una manifestazione pro Russia sovietica con tremila socialisti: un lungo corteo preceduto dai “ciclisti rossi” ed accompagnato dalla banda “Spartacus” si snoda dalla Camera del Lavoro attraverso corso Garibaldi, corso Campi, piazza Roma e via Solferino fino in piazza del Comune dove intervengono Costantino Lazzari, Ferdinando Cazzamalli, Attilio Boldori, Ernesto Caporali, Dante Bernamonti ed il rappresentate dei ferrovieri Bonini. Ma è il giorno dopo che la violenza, a stento trattenuta nei giorni precedenti, esplode. Le versioni sono discordanti. Secondo i socialisti un gruppo di fascisti, la mattina di lunedì 6 settembre, sarebbe transitato più volte davanti alla redazione de “L'Eco del popolo” lanciando minacce, mentre altri fascisti milanesi e fiumani, avrebbero manifestato l'intenzione di assaltare la Tipografia Proletaria. Di conseguenza alcuni responsabili socialisti avrebbero reagito scacciando il gruppetto e inseguendolo per le vie della città fino a raggiungerlo, malmenando infine i facinorosi. I fascisti, invece, parlano di una vera e propria caccia all'uomo. Già nella notte tra domenica e lunedì vi erano state numerose zuffe e pestaggi, nel corso dei quali era stato ferito a pugni e colpi di bastone un giovane fascista, un certo Agazzi. Purtroppo l'unica ricostruzione dei fatti è affidata al quotidiano “La Provincia”, che manifesta apertamente le sue antipatie socialiste. Secondo questa ricostruzione, dunque, poco dopo le 9 di lunedì un nuovo gruppo di fascisti si era recato a manifestare davanti agli uffici del periodico “Interessi cremonesi” costringendo ad intervenire un plotone di Carabinieri al comando del tenente Bellucci per ripristinare l'ordine. Un gruppetto di socialisti avrebbe dunque deciso di reagire “componendo una squadra rossa” comandata dal segretario della Camera del Lavoro Ernesto Caporali e dal segretario dei metalmeccanici Verzelletti per malmenare alcuni tra i più noti esponenti fascisti locali, tra cui il professor Anselmino e lo studente Franzetti. Una nuova rissa avviene verso le 15 al bar Roma, quando un certo Pasotelli, fascista, aggredisce a pugni alcuni socialisti. 

Verso le 22 si accende una nuova discussione al bar Aquarium tra un gruppo di fascisti, con Farinacci, Sigfrido Priori, Groppali, Mario Ronconi, Arturo Rizzini e il ragionieri Filippini, ed un gruppo di socialisti, dove figurano l'ex sindaco Attilio Boldori, Sidoli, Rossetti, Tarquinio Pozzoli, Verzelletti, Pederneschi e l'infermiere Gerevini. Il primo diverbio vede protagonisti Gerevini e Filippini, mentre le due fazioni rimangono estranee fino a quando, sembra, il gruppo socialista interviene spingendo i due contendenti contro il muro, dove sono i fascisti. Immediatamente si accende un furioso corpo a corpo, partito da un colpo di bastone inferto, pare da Pozzoli, al fascista Pietro Alquati. La rissa degenera quando Sigfrido Priori, all'angolo con via Solferino, si mette a sparare scaricando tutti i sette colpi della sua rivoltella in direzione della strada e del giardino pubblico di piazza Roma. Rispondono altri colpi, e la folla fugge terrorizzata lasciando sul campo solo i feriti. Arrivano i Carabinieri comandati dal capitano Ugoletti, con il vice commissario Struffi, alcuni agenti e il vigile urbano Zanoni, che cerca di afferrare per le gambe Priori il quale si difende brandendo un pugnale prima di essere disarmato e ammanettato. Le sette vittime della sparatoria vengono trasportate all'interno del bar Aquarium e poi all'ospedale. Due sono ormai cadaveri: viene identificato immediatamente Vittorio Podestà, ha in tasca la tessera del partito fascista ed è stato colpito mortalmente da un colpo sparato a bruciapelo che gli ha perforato il torace. L'altro viene identificato poco dopo nel tenente Luciano Priori, studente del quarto annodi ingegneria, colpito alla tempia da un proiettile mentre, provenendo dal bar Nazionale in piazza del Duomo, stava attraversando piazza Roma diretto in centro. I cinque feriti sono Attilio Boldori, ex sindaco di Duemiglia colpito ad un braccio da un colpo sparato a bruciapelo; Giuseppe Faelutti, colpito alla mano destra; Guido Ricotti, ferito al capo; Eugenio Sora, ferito di striscio al fianco sinistro e Pietro Alquati.

Le versioni su quello che poi Farinacci utilizzerà in chiave propagandista come “Il massacro di Cremona”, sono ovviamente differenti. Secondo i socialisti le provocazioni sarebbero partite dai fascisti e  lo stesso Farinacci avrebbe minacciato di sparare a chiunque avesse manifestato atteggiamenti ostili, mentre i fascisti sostengono di essere rimasti estranei alla disputa tra Filippini e Gerevini fino a quando Pozzoli non avrebbe colpito Podestà con un bastone.

Squadra d'azione, al centro Farinacci 

Vengono arrestati Sigfrido Priori e Farinacci, a cui viene sequestrata anche una pistola a quattro colpi. Il quotidiano “La Provincia”, affida la ricostruzione dei fatti al vice commissario Struffi: “Intanto si svolgeva la disputa tra il rag. Filippini e l'infermiere Gerevini. Questo è certamente colui a cui si deve fare risalire l'originaria responsabilità del conflitto: infatti tanto nella giornata quanto, e più specialmente, lunedì sera, egli aggrediva gli avversari con insulti e provocazioni intollerabili. Nessuno però intervenne. «Senonchè – continua il vice commissario Struffi – mentre io stavo pregando i capi gruppo di allontanarsi si accese d'un tratto una violenta disputa tra il socialista Verzelletti e un fascista». Egli accorse subito per calmare i due, quando ad un tratto udì il Pozzoli, vicino a lui, gridare rivolto ai fascisti: «Ah,siete voi che volete ammazzare tutti i socialisti», alzare il bastone e abbassarlo violentemente per colpire qualcuno (si suppose – dicemmo – che quest'uno fosse l'Alquati). Questa prima violenza si sviluppò immediatamente in una rissa generale. I bastoni si alzavano da parecchie mani; subito dopo si vide qualcuno cadere a terra percosso; poi gli spari ripetuti, certo provenienti da più armi. Lo Struffi scorse l'ex sindaco Boldori che si slanciava su un fascista, vestito sportivamente coi gambali e serrarlo nelle braccia e vide il fascista applicare la canna della rivoltella al braccio del Boldori e far fuoco. Il Boldori cadeva nelle braccia di un presente. Il vice commissario Struffi, il capitano Ugoletti dei carabinieri e l'agente Cantagallo si slanciarono sul feritore – il priori Sigifreddo -  e cercarono di trattenerlo. (Pare qui che il particolare del tentato pugnalamento del vigile Zanoni sia cosa non vera). Intanto, per il fuggi fuggi generale si era fatto una certa rarefazione tra la folla, e il vice commissario Struffi vide, mentre ancora colluttava col feritore che era uomo fortissimo, vide distintamente – e moltissime testimonianze suffragano la sua tesi – un individuo basso, scamiciato, ce era stato prima notato nel gruppo socialista, estrarre la rivoltella e sparare all'impazzata 7 colpi: quattro contro via Solferino, tre contro il giardino. Ed era appunto uno di questi ultimi che fatalmente raggiungeva il tenente Luciano Priori, che transitava in fretta per sottrarsi allo scompiglio, uccidendolo”. 

In realtà  le ricostruzione si sprecano, anche se è abbastanza palese il tentativo di scaricare l'intera responsabilità di quanto accaduto sui socialisti, parlando di “premeditata provocazione”, scagionando in parte Sigfrido Priori, che avrebbe sparato solo tre colpi, dando la caccia al fantomatico sparatore scamiciato, limitando il ruolo di Farinacci, che sarebbe stato nell'impossibilità di sparare in quanto gettato a terra nella calca di via Solferino. Peraltro nell'abitazione di Priori vengono trovati 60 proiettili della rivoltella che gli era stata sequestrata al momento dell'arresto. 

La mattina di giovedì 9 settembre si svolgono in pompa magna i funerali delle due vittime, con la partecipazione, dice il giornale, di circa quindicimila persone, con la declamazione di un carme funebre da parte di Luigi Ratti. Nel frattempo arriva la scarcerazione per Farinacci, perchè la perizia balistica ha escluso che i colpi siano partiti dalla sua rivoltella, previa firma di una diffida a non farsi più vedere per le vie cittadine, per non ”provocare”.

Nei giorni successivi viene arrestato con l'accusa di avere ucciso i due fascisti, Luigi Arcaini, un brentadore residente a S. Ambrogio, noto per le sue simpatie socialiste i cui connotati corrispondono ad alcune testimonianze raccolte sul posto: “statura media, tarchiato, colorito scuro, baffi neri, folti, all'americana, e tatuaggi sulle braccia: su di una a forma di due S intrecciati come il nodo di fune che tiene l'ancora, e sull'altro le lettere A ed L sovrastanti ad altre figure”.

 

Le vicissitudini della Banca d'Italia

Il progetto approvato


Ha appena compiuto sessant’anni l'edificio della Banca d'Italia, anche se in realtà gli uffici aprirono nella nuova sede solo il 24 ottobre 1960. Fu uno dei progetti più discussi e controversi, rimasto a lungo bloccato, che si inseriva nel rifacimento complessivo di piazza Cavour, che si sarebbe concluso qualche anno dopo. Nel settembre 1959 il palazzo era ormai terminato e restavano da sistemare solo i marciapiedi posti di fronte che, seguendo le indicazioni del piano regolatore, avrebbero comportato un notevole restringimento della strada. Quello realizzato è il secondo dei due progetti presentati: il primo, approvato dalla commissione artistico edilizia nell'aprile del 1956 dopo due anni di studi, prevedeva una costruzione di cinque piani, con un porticato a tre arcate rivolto su piazza Cavour, ed un rivestimento in marmo rosso di Verona, ma era stato bocciato dal Soprintendente veronese Pietro Gazzola, che aveva richiesto di realizzare un piano in meno. L'architetto romano Luigi Vagnetti aveva allora presentato un nuovo progetto con un piano in meno, approvato dalla commissione solo con 4 voti favorevoli e 3 astenuti, ottenendo che la facciata, anzichè in mattoni come richiesto dalla Soprintendenza, fosse realizzata in marmo. Ne era nato un animato dibattito perchè, in realtà, nessuna delle due soluzione era del tutto soddisfacente. Lo spiega Mario Coppetti, presidente della commissione: “Per oltre due anni la Commissione artistico edilizia si rifiutò di approvare il porticato a tre fornici e cedette soltanto quando fu posta davanti al dilemma o approvare il progetto come era o detto palazzo non sarebbe più stato costruito a Cremona. La Commissione aveva suggerito fin da allora di fare cinque o sette fornici anziché tre, ma l'architetto progettista si era sempre rifiutato di studiare tale variante. Dopo l'intervento del Soprintendente il progettista presentò l'ultimo disegno addirittura con nove aperture e con un piano in meno”. Nel marzo del 1957 iniziano le demolizioni verso via Boldori, tra lo scetticismo generale, dal momento che “molti avrebbero voluto che questo palazzo fosse il più maestoso di tutta la città, ma sarà, invece, come gli altri”. 

Il progetto scartato

Un anno dopo arriva la doccia fredda. La direzione generale della Banca d'Italia nel marzo 1958 ordina la sospensione dei lavori del nuovo palazzo in via Verdi per un motivo quanto mai strano. In seguito al confronto tra la Soprintendenza ed il Comune sul rifacimento di piazza Cavour si era concordato che di fronte alla nuova sede della banca venisse costruito un corpo di fabbricato in vetrocemento in prosecuzione di quelli che dovevano essere realizzati nel progetto. Ma la Banca d'Italia si oppone perchè pretende che la piazza antistante venga lasciata completamente sgombra, in base a quanto previsto dal vecchio piano regolatore, e, in attesa che venga assunta una decisione definitiva, decide per il momento di interrompere i lavori. Una decisione che sorprende, ma che non fa una grinza. Per qualche motivo la banca dovrebbe infatti eliminare un piano del proprio edificio, in quanto concepito come cornice a piazza Cavour, se il Comune decide ora di edificare di fronte un palazzo, senza alcun riguardo al rispetto del contesto monumentale? I dirigenti dell'Istituto bancario inviano un esposto al Consiglio di Stato dove fanno presente che il Comune si era impegnato a lasciare libero lo spazio e la Soprintendenza aveva già fatto rifare una dozzina di progetti scegliendo quello che risultava più idoneo a far da cornice alla piazza, imponendo una facciata in pietra con caratteristiche monumentali tali da imporsi sugli altri vuoti presenti. La Banca d'Italia chiede pertanto che il nuovo palazzo sia distante almeno 25 metri, rispetto agli 11 previsti, costringendo in questo modo il Comune a prevedere un edificio non più a L, ma a T, aprendo una serie di problemi di difficile soluzione per l'architetto Dodi, supervisore del piano regolatore. Si susseguono riunioni su riunioni e si infiamma il dibattito, ma l'ipotesi di chiudere la piazza con una edifico a L viene sostenuta anche da Italia Nostra. Invece verso la fine di maggio, tra lo stupore generale, viene elevata un'impalcatura in tubi di ferro che simula il nuovo edificio, destinato a tagliare a metà la piazza, secondo le richieste della Banca d'Italia. “Una bruttura, uno sconcio -si indigna il giornale “La Provincia” del 28 maggio 1958 – Ma quando il Comune finirà di fare quel che Perpetua attribuiva a don Abbondio (e quanto lo rimproverava!) nei primi capitoli dei Promessi Sposi? E quando capirà che soltanto reagendo vivacemente alle utopie scatenate e sostenute soltanto da quei due o tre 'patiti' che vorrebbero vivere in un mondo imbalsamato, fatto a loro immagine e somiglianza, eviterà un danno alla città? Energia non solo con i privati indifesi: è troppo facile. Ma specialmente contro lo strapotere di organi che agiscono ancora in base a leggi dittatoriali espressa dalla dittatura”.

Piazza Cavour con il nuovo edificio
mai realizzato

Alla fine prevale il buonsenso. La commissione ristretta composta dall'ingegnere capo del Comune  Marcatelli, dall'architetto Ranzi, ispettore della Soprintendenza di Verona, dall'assessore ai lavori pubblici Calatroni, e dal presidente della commissione artistico edilizia Coppetti si incontra il 13 giugno con il soprintendente ai monumenti Gazzola, il rappresentante del Ministero della pubblica istruzione Barbacci, l'ingegnere Dodi, il sindaco Feraboli e il rappresentante della Banca d'Italia Giglio. Si decide che non verrà costruito alcun palazzo e la piazza resterà tale e quale, vi si potrà realizzare un parcheggio sotterraneo. “Il Comune verrà autorizzato a sventrare l'intero lotto e a rinnovare gli appartamenti con criteri moderni purchè questo moderno non esca dalle finestre. Il Comune potrà rifare, come vorrà, mantenendo le stesse caratteristiche della facciata, anche il lato verso il palazzo della Previdenza Sociale lungo il quale, con molta probabilità, sorgerà una serie di negozi. L'altezza, da questo lato, apparirà uguale all'attuale ma la Sovraintendenza ha concesso che venga costruito una specie di attico che servirà ad innalzare la costruzione di un piano ma non sarà visibile dalla strada”. Soddisfatti i vertici della Banca d'Italia, che sventano la minaccia del palazzone in vetrocemento. Si ipotizza di riutilizzare le colonne ed i capitelli cinquecenteschi depositati nel museo civico per il porticato che si vorrebbe edificare a complemento della parte posteriore dell'edificio (su via Capitano del Popolo, ndr) e sul lato su via Gramsci a corona del fabbricato che incorpora la torre del capitano.

Tutto sembra ormai risolto quando avviene un altro colpo di scena. La giunta convocata la sera del  25 giugno respinge integralmente l'accordo appena raggiunto tra Soprintendenza, Banca d'Italia e Comune e rimette tutto quanto in discussione, sulla base delle motivazioni offerte dal legale del Comune, avvocato Soldi. Secondo il parere del legale la Banca d'Italia non può pretendere nulla, dal momento che la variante al piano regolatore approvata dal consiglio comunale nella seduta dell'8 gennaio 1958, che prevede la realizzazione del famoso palazzo in vetrocemento ad L, non può essere modificata per un interesse privato. Si prospetta, dunque, un nuovo braccio di ferro: il Comune pretende di riqualificare piazza Cavour secondo le proprie intenzioni, ed intima alla Banca d'Italia di iniziare i lavori per la realizzazione della propria sede entro tre mesi. Diversamente sarà costretto a ricorrere all'esproprio dell'area, concedendo ad altri la possibilità di realizzare un nuovo edificio con negozi, così come richiesto dagli abitanti nella zona. 

La Prefettura, dal conto suo, sostiene il progetto della Banca d'Italia per motivi di tipo occupazionale, in quanto il cantiere darà lavoro per almeno due anni, non entrando nel merito di considerazioni estetiche. 

Simulazione del nuovo edificio
con tubi innocenti

A sbloccare la situazione arriva in Comune, a metà luglio, una lettera della Banca d'Italia che annuncia la riapertura del cantiere, usando toni particolarmente concilianti, tanto che l'amministrazione intima ai negozianti che, sfrattati dalle abitazioni demolite per far posto alla banca avevano provvisoriamente occupato lo spazio antistante il cantiere, di lasciare libera l'area. Effettivamente il cantiere riapre un paio di giorni dopo, ma la vicenda è ancora lontana dall'essere conclusa. A metterci lo zampino, questa volta, è la giunta provinciale che il 31 gennaio 1959  respinge la deliberazione del consiglio comunale che ha approvato la variante al piano regolatore, dando un mese di tempo al Comune per presentare il piano particolareggiato su piazza Cavour concordato con la Soprintendenza, e, di conseguenza anche il bando per il concorso di idee che dovrebbe definire gli interventi sulla piazza. A questo punto il Comune è costretto a rimettere mano alla questione e, salomonicamente, la giunta approva il 23 marzo il progetto definitivo che fa piazza pulita dell'edificio a L, accontentando Amministrazione provinciale, Soprintendenza, privati e Banca d'Italia. Tutto resta come prima e la Banca d'Italia può continuare il lavoro per terminare il palazzo, che a metà giugno è definito nelle sue linee essenziali: il 25 giugno gli operai iniziano a smantellare l'impalcatura. Nel frattempo si decide di demolire definitivamente la costruzione provvisoria innalzata quattro anni prima per ospitare i tre negozi che erano precedente collocati nelle case demolite per lasciare posto al nuovo palazzo: un'iniziativa che non aveva mai soddisfatto nessuno, in quanto sottraeva posti auto nella piazza, allora adibita ancora a parcheggio. Ma si apre un altro contenzioso: tre commercianti, due fruttivendoli ed un barista, che hanno il loro esercizio sulla fronte posteriore del caseggiato di piazza Cavour, unica parte che dovrà essere demolita e ricostruita, chiedono di entrare negli stand provvisori per non allontanarsi dalla piazza, rendendo vani nuovamente tutti gli sforzi per liberare lo spazio antistante la nuova sede della banca, secondo gli accordi. Ci vorrà un altro anno prima che venga trovata la soluzione, allargando temporaneamente gli stand per ospitare i tre negozianti, dando inizio ai lavori per  ristrutturare l'antico caseggiato secondo le indicazioni della Soprintendenza. Ma intanto può finalmente inaugurare, a sei anni dalla stesura del primo progetto, la nuova sede della Banca d'Italia.