domenica 27 settembre 2020

Cremona e i misteri di Oak Island

Oak Island
Oak Island e il tesoro maledetto è una fortunata serie televisiva in onda da qualche anno su History Channel, che qualche mese fa ha trasmesso i nuovi episodi, in cui si narrano le imprese dei due fratelli Rick e Martin Lagina, archeologi improvvisati alla ricerca del misterioso tesoro dell'isola di Oak, nella contea di Lunenberg nel sud della Nuova Scozia in Canada. Quest'isola è divenuta famosa perchè nel 1795 vi è stato ritrovato quello che sembrava e sembra un misterioso pozzo di origine non naturale che nelle sue profondità celerebbe un inquietante segreto. Un ragazzo, Daniel McGinnis, mentre passeggiava, venne incuriosito da una depressione del terreno situata vicino ad una vecchia quercia, tra i rami della quale spiccava un palanco, una sorta di carrucola usata anche sulle navi. Il giorno dopo Daniel, in compagnia di due amici al corrente di antiche leggende locali su pirati e tesori nascosti, iniziarono gli scavi. Ma ben presto si resero conto che quella depressione nascondeva un pozzo assai particolare. Andando in profondità, ogni tre metri trovavano una piattaforma di tavole in legno di quercia ma, arrivati al terzo strato, furono costretti ad abbandonare l’impresa, troppo ardua per loro. Nacque così la leggenda di Oak Island. Quel pozzo prese il nome di Money Pit, il pozzo del denaro. Nel 1802, una compagnia privata, la Onslow Company, dando credito alle storie, riprese gli scavi. Furono trovati alcuni strati di carbone e argilla ma, soprattutto, fibre di cocco, che sicuramente non erano del luogo, perché in Canada la palma da cocco non cresce. A 30 metri di profondità il morale degli uomini andò alle stelle. Si trovarono di fronte a un’enorme lastra di pietra che recava incisioni indecifrabili. Era ormai notte quando, sondando il terreno sottostante con un piede, sentirono qualcosa di resistente. Si dice che fosse lo scrigno di un possibile tesoro, o un’altra lastra. I lavoratori, esausti, decisero di rimandare la scoperta al giorno dopo, ma li aspettava una brutta sorpresa. Nel corso della notte l’acqua dell’Atlantico aveva completamente allagato il pozzo, e i tentativi di svuotarlo furono vani, il livello dell’acqua rimaneva costante. Era come se, per svuotare il pozzo, bisognasse svuotare l’intero oceano. Nel corso degli anni sono stati fatti circa un altro centinaio di tentativi, l’ultimo dei quali, datato 1966, fu un ennesimo insuccesso.
Il pozzo di Oak Island
Oltre due secoli dopo la scoperta di Money Pit, nel 2017, la ricercatrice e autrice americana Zena Halpern, recentemente scomparsa, mostra ai fratelli Lagina una mappa di Oak Island contenente diverse parole, nomi e frasi scritti in francese, spiegando che il reperto era collegato a quello che lei ha chiamato “Il documento di Cremona”, diventato l'oggetto principale del suo libro The Templar Mission to Oak Island and Beyond: The Search for Ancient Secrets: Shocking Revelations of a 12th Century Manuscript. Secondo quanto riferisce la stessa Halpern il manoscritto sarebbe una copia degli inizi del XIX secolo di un testo più antico, rimasto nascosto in una cripta segreta nella chiesa di San Sigismondo. Vincenzo Lancetti nella sua “Biografia cremonese” del 1820 asserisce in effetti che il conte Giambattista Biffi avesse scritto una “Storia de' Templari, e loro successori”, avvalendosi, tra gli altri, dei contributi del Tiraboschi, all'epoca in cui quest'ultimo era bibliotecario a Modena, di Pietro Verri, del conte Secchi, del marchese Cesare Beccaria e dell'abate Isidoro Bianchi volendo mettere in evidenza come la Massoneria, cui apparteneva, ne fosse la diretta derivazione. Ma per timore di essere riconosciuto come appartenente ad essa, il Biffi avesse dato il manoscritto alle fiamme, e aggiunge il Lancetti, “che per riparare in parte il danno, che la letteratura e la filosofia veniva a soffrire con la distruzione di essa, l'ab. Bianchi scrivesse il trattato, che annunciammo a suo luogo, del vero istituto de' Liberi muratori”. Il “Documento di Cremona” racconta la storia dei cavalieri templari che entrarono nel vasto sistema di caverne sotto la città fortificata di Gerusalemme, poco dopo aver conquistato la Terra Santa. La storia racconta ciò che i sei Templari trovarono sotto l'antica città e la successiva missione, compiuta decenni dopo, in un tempio di "Onteora". Le storie sono raccontate in prima persona dai cavalieri templari che hanno fatto le scoperte e nel manoscritto sarebbe contenuta anche la deposizione di un cavaliere templare storicamente noto, Sir Ralph De Sudeley, che decenni dopo ha guidato una flotta oltre l'oceano per recuperare antichi rotoli del primo secolo nascosti in quello che ora è il Catskills di New York. La prima parte dei documenti sembra essere costituta dagli scritti perduti del fondatore dei templari, che descrivono l'esplorazione delle catacombe ebraiche sotto Gerusalemme. Dopo aver superato alcune difficoltà, i cavalieri scoprono un vangelo gnostico perduto, "Il Vangelo di Maria”, l'oro perduto del re Salomone e le ossa di Giovanni Battista. Nella stessa camera, accanto alle pergamene che descrivono un viaggio attraverso l'Atlantico verso la "Terra di Onteora", vi sono un paio di dispositivi usati per la navigazione.
Un pagina del "Cremona Document"
La maggior parte del “Documento di Cremona” è costituito appunto dal diario perduto di Ralph de Sudeley che descrive il viaggio attraverso l'Oceano Atlantico con l'aiuto del re Valdemar I di Danimarca nel 1178. Qui trova una tribù matriarcale di gallesi che adorano una dea e dopo qualche tempo mette le mani su alcuni documenti del I secolo che lo portano a tornare a Gerusalemme e scoprire l'Arca dell'Alleanza e altri tesori sotto l'antica città di Petra, che si trova oggi in Giordania.
Il manoscritto del “Documento di Cremona” è stato acquistato nel 1971 a Roma da William Jackson, un ricercatore americano affiliato alla massoneria, mentre stava per essere venduto alla Biblioteca Vaticana. Secondo quanto racconta Zena Halpern, i manoscritti sarebbero stati ceduti a Jackson da un certo Benvenuti, la cui famiglia sarebbe stata legata in qualche modo al conte delle Orcadi Henry Sinclair, che parrebbe aver scoperto il Nord America già a fine XIV secolo. Un Corradino de Benenuto è ricordato nel 1330, ancora nel 1339 un Benenuto de' Benenuto, del 1361 Jacobus de Benenuto e Coradinus de Benenuto. La famiglia Benvenuti ebbe origini in Firenze e si trasferì nel cremasco nel XIV secolo. La famiglia si suddivise in 2 rami, quello di Montodine e quello di Ombriano.
L'archeologo Jacques de Mahieu sostiene di aver trovato tracce di insediamenti dei Cavalieri del Tempio nel continente americano e c'è chi sostiene che il famoso tesoro dei Templari, mai più ritrovato, sia stato nascosto in Nuova Scozia nel Nordamerica. Qui si trova una enigmatica torre a base ottagonale di cui nessuno sa spiegare l'origine. Si parla insistentemente di un viaggio intrapreso dallo scozzese Lord Sinclair, erede dei Templari riparati in Scozia, verso il continente americano con 12 navi nel 1398. Pare che le navi raggiunsero la Nuova Scozia e lì l'equipaggio passò l'inverno. Con l’inizio della primavera, Sinclair divise in due la flotta, inviando in Scozia il suo luogotenente, il veneziano Antonio Zeno, al quale dichiarò di voler creare una colonia nella terra appena scoperta. Con l’altra metà della flotta, Sinclair iniziò una spedizione esplorativa interna, prima attraverso la Nuova Scozia e poi il New England, lasciando una serie di tracce riscontrabili tutt'oggi.
Su una di queste tracce si era imbattuto nell'estate del 1968 William Jackson: un giorno era andato a pescare sull'isola di Pollepel nel fiume Hudson, che si trova a circa 50 miglia a nord di New York, con alcuni amici, tra cui Donald Ruth. Sull'isola di Pollepel è possibile vedere una grande fortezza in stile scozzese costruita da Francis Bannerman VI, imprenditore dell'industria bellica originario di Dundee, all'inizio del 1900. Durante la battuta di pesca Jackson ebbe l'idea di rubare un ornamento di pietra per il giardino di sua moglie. Dopo poco più di un anno suo figlio, mentre giocava in giardino, spezzò accidentalmente la cima dell'ornamento di pietra, che lasciò intravedere uno strano oggetto in ottone inciso con simboli misteriosi in scrittura tebana, una rielaborazione dell'alfabeto ebraico, nota anche come “scrittura delle streghe”, usata per la prima volta nel XVI secolo da un alchimista tedesco, Cornelio Agrippa.
Proprio questo ritrovamento avrebbe messo Jackson sulle tracce del “Documento di Cremona”, acquistato nel 1971, a cui, nel 1994, avrebbe fatto seguito l'acquisizione della mappa di Oak Island, erroneamente messa in relazione con il manoscritto cremonese. Convinto dell'autenticità del documento, Jackson aveva convinto Don Ruth a seguirlo in una spedizione subacquea al largo della costa di Terranova che ha portato alla scoperta di un antico naufragio, attribuibile al XII secolo. Sempre più determinato Jackson aveva convinto Donald Ruth ed altri amici ad aiutarlo a rintracciare sui monti Catskill, nello Stato di NewYork, le strutture in pietra menzionate nel documento, fino a giungere a Hunter Mountain.
Donald Ruth a Hunter Mountain
Jackson è morto nel 2000 e prima della sua morte aveva lasciato disposizione che le sue ricerche, i suoi scritti e i documenti passassero in eredità al suo amico Donald. Donald prosegue le ricerche interrotte e nel 2004 contatta Zena Halpern per chiedere aiuto riguardo ad una pietra incisa trovata nelle montagne di Catskill. In seguito, i due si mettono al lavoro anche sul materiale del documento di Cremona che Donald ha ereditato. Viene costituita una partnership con un accordo scritto nel 2009/2010, per scrivere un libro che raccolga i frutti della ricerca. Il 1° luglio 2009, nel corso di una scalata ad Hunter Mountain e ad un monte vicino in compagnia di Scott Wolter, vengono rinvenute due pietre incise collegate direttamente alla storia descritta nel “Documento di Cremona”, che diventa il supporto alla ricerca con dodici nuovi esempi di scrittura runica collegata direttamente ai Cavalieri Templari. Ci sono voluti ventitrè anni di ricerche prima che il quadro si completasse, ed alle domande rimaste ancora senza risposta giunse in soccorso nel 2017, secondo quanto riporta Walter Scott, un misterioso pacchetto proveniente dall'Europa comprendente altre pagine del documento cremonese, finito probabilmente in Vaticano, che andavano ad integrare quelle conservate da Jackson, permettendo di ottenere il quadro completo a sostegno della tesi sulle molteplici spedizioni precolombiane da parte dei cavalieri templari medievali in Nord America, sia prima che dopo la repressione di papa Clemente V e il re di Francia nel 1307.
Nel 2015, Zena Halpern e Donald Ruth entrano in disaccordo con un imprenditore di Los Angeles del settore televisivo con cui la Halpern era in contatto per trarre una storia relativa alla ricerca d'equipe sul documento di Cremona. Nel 2016 si arriva ad una rottura e la Halpern decide di proseguire da sola con la pubblicazione del libro avvicinandosi ai fratelli Lagina con l'intenzione di di apparire nello show di The Curse of Oak Island senza il coinvolgimento di Donald Ruth. Nel frattempo quest'ultimo scopre che la mappa di Oak Island venuta in suo possesso nel 2015 non era in alcun modo collegabile al materiale del documento di Cremona o ai cavalieri templari medievali ma un falso, fabbricato da Jackson su incarico della loggia massonica cui era affiliato, forse nell'intenzione di creare per l'America quello che la P2, con l'inchiesta giudiziaria che ne era seguita, aveva rappresentato per l'Italia alla fine degli anni Settanta. Poco dopo aver scoperto la mappa di Oak Island nascosta nelle pagine di un libro di Jackson, Ruth l'aveva mostrata alla Halpern che aveva immediatamente pensato fosse collegata alla storia del documento di Cremona.
Nel suo libro, la Halpern afferma che l'autenticità del “Documento di Cremona” è supportata dal fatto che una bibliotecaria vaticana ha verificato l'originalità della firma di Ralp De Sudeley, ma questo non scioglie tutti i dubbi in quanto la forma comune di autenticazione a quel tempo erano i sigilli di cera.

Donald Ruth, che a sua volta ha raccolto i risultati delle sue ricerche nel libro “The Scrool of Onteora-The Cremona Document” del 2017, avverte che “i misteri del documento di Cremona e di Oak Island sono abbastanza complicati e confusi ed è importante chiarire i fatti se c'è qualche possibilità di arrivare alla verità su queste storie”. Secondo altri, infatti, Oak Islands sarebbe stata scoperta solo nel 1497, quando il 24 giugno il cavaliere templare italiano Giovanni Caboto vi gettò l'ancora. Vi avrebbe poi scavato un pozzo seppellendovi una cassa di piombo.

Adele Uggeri e la prima Casa dei Bambini

Maria Montessori
Quest'anno ricorre il 150° anniversario della nascita di Maria Montessori, nata il 31 agosto 1870 a Chiaravalle, in provincia di Ancona, pedagogista ma anche filosofa, medico, neuropsichiatra infantile e scienziata italiana a cui si deve il celebre il metodo educativo che prende il suo nome. Ma per Cremona si tratta di un doppio anniversario, in quanto l'11 ottobre ricorrerà anche il centenario della prima scuola montessoriana, la “Casa dei Bambini” istituita dalla maestra Adele Uggeri nell'asilo Martini. Adele Uggeri era stata una delle prime allieve dei corsi magistrali sistematici inaugurati nel 1914 dalla Società Umanitaria di Milano, grazie al sodalizio che si era creato tra il segretario generale Augusto Osimo e Maria Montessori, per la formazione di nuove educatrici che applicassero il nuovo metodo. Si era diplomata nell'anno scolastico 1916-17 dopo aver frequentato un corso molto importante, affidato per l’insegnamento della pedagogia scientifica ad una delle migliori allieve della Montessori, Anna Fedeli. Il corso era avviato al più grande successo quando Anna Fedeli si ammalò gravemente e dovette sospendere l'insegnamento, il corso dovette essere sospeso e soltanto sette allieve, su un totale di trenta, poterono sostenere gli esami. Una di queste era appunto Adele Uggeri, un'altra era Anita Vidali, che andò a lavorare nelle Casa dei Bambini dell'Umanitaria ubicata all'interno dell'Asilo Profughi di Monza, ed una terza era Elisa Berthier che si formò per lavorare nella Casa dei Bambini di via Virle 2 a Torino.
A Cremona la decisione di istituire una sezione speciale per impartire l'insegnamento secondo il metodo Montessori in uno dei quattro asili comunali era stata adottata dalla Commissione già il 10 marzo 1918, ma non era stato possibile darvi corso per mancanza di locali. Solo dopo la riapertura dell'asilo Martini, l'11 ottobre 1920 il tema venne nuovamente affrontato proponendo di aprire la sezione il 1 novembre ed affidarne la gestione alla maestra Adele Uggeri, senza alcuna spesa per l'Istituto degli asili infantili che non fosse quella per l'assunzione di un assistente o una bambinaia da affiancare all'insegnante. La nuova scuola veniva aperta al piano terreno dell'asilo Martini per un anno di prova, utilizzando materiale già acquistato in precedenza. Lo stessa amministrazione degli asili, d'altronde, aveva sostenuto con 300 lire la formazione di Adele, che già era assunta come maestra, ed altre 250 lire erano state messe a disposizione della Società Umanitaria, in modo che potesse frequentare il corso a Milano. La giunta comunale aveva poi stanziato altre 350 lire a beneficio dell'Opera Pia, per l'acquisto del materiale completo necessario all'applicazione del metodo Montessori, ordinato alla Società Umanitaria. Infatti la produzione del materiale era affidata alla “Casa di Lavoro” di Milano, nata accanto alla prima “Casa dei Bambini” di via Solari nel 1907 per iniziativa della filantropa Alessandrina Ravizza, esponente di spicco dell'Unione Femminile, per offrire ai disoccupati, coerentemente con i fini statutari dell'Umanitaria, un'assistenza fondata sul principio del lavoro, non sull'elemosina. La Casa di Lavoro si strutturava in quattro diversi reparti: cartotecnica, confezione/riparazione biancheria, scritturazione di indirizzi/copisteria, giocattoli cui era stata affidata la produzione, su larga scala, dei materiali Montessoriani. La Casa di Lavoro di Milano, rimase il principale produttore e fornitore del materiale Montessori, sia a livello nazionale che internazionale. Ogni asilo o scuola elementare che volesse applicare il metodo Montessori ed ogni persona che desiderasse dar vita ad una nuova Casa dei Bambini aveva necessariamente bisogno dei materiali: essi costituivano la condizione di possibilità per l'applicazione del metodo stesso, che vede il bambino agire liberamente ma all'interno di un ambiente preparato, dove trova i materiali specificatamente pensati per il suo sviluppo. 
Il quartiere di via Solari a Milano

Adele Uggeri, oltre che essere la prima maestra ad applicare il metodo Montessori a Cremona, era anche rappresentante degli asili infantili nella Commissione per il riordino degli asili in seguito alla riunificazione con il Comune di Duemiglia, rappresentato dalla maestra Luigina Serventi.
Il metodo Montessori trovò grande diffusione soprattutto grazie alla Società Umanitaria. Era il luglio del 1908, infatti, quando il Consiglio Direttivo della Società Umanitaria deliberò l'istituzione, in via sperimentale, della prima Casa dei Bambini di Milano. Inaugurata il 18 ottobre dello stesso anno, essa trovò sede all'interno del quartiere popolare di via Solari, edificato dalla Società Umanitaria in una zona allora all'estrema periferia sud occidentale di Milano. Doveva essere un quartiere operaio modello, dotato di un serie di strutture ed attività volte alla promozione culturale e sociale, come il teatro, la biblioteca popolare, una sede dell'Università popolare, la scuola di disegno, i corsi professionali femminili, la palestra, il ristorante, i servizi e i lavatoi comuni, il ricreatorio per i bambini e i ragazzi del quartiere. Fu proprio in questo contesto che l'esperimento montessoriano prese vita, per la prima volta, nella città di Milano:. Dove l'Umanitari decise di adottare per l'asilo infantile del quartiere, il metodo Montessori già attuato, dall'anno precedente, nel quartiere popolare di San Lorenzo a Roma. Il grande successo della Casa dei Bambini di via Solari spinse l'Umanitaria a ripetere quell'esperimento inaugurandone il 21 novembre 1909 una nuova nel secondo quartiere popolare dell'Umanitaria in viale Lombardia, una zona periferica fuori Porta Venezia affidandone la guida a Anna Fedeli. Dal 1911, inoltre, l'Umanitaria cominciò ad organizzare un primo breve corso magistrale curato da un'allieva della Montessori, Teresa Bontempi, che aveva già frequentato un primo corso sperimentale a Villa Montesca e che aveva istituito, nel territorio del Canton Ticino, numerose Case dei Bambini, curandone anche la formazione del personale.
Bambini all'asilo Martini (Fazioli, 1939)
Il primo corso magistrale sistemico, inaugurato nel 1914, fu fondamentale per il movimento montessoriano italiano, perché contribuì grandemente alla diffusione del Metodo in diverse aree d'Italia e rappresentò l'occasione, per l'Umanitaria, di sanare la situazione estremamente insoddisfacente delle sue Case dei Bambini che, dopo un primo periodo in cui il Metodo era stato applicato in modo esemplare, si trovavano ora completamente prive di educatrici competenti. Nacque così una nuova Casa dei Bambini in via San Barnaba, una struttura modello, in cui si formarono, attraverso il tirocinio, quelle nuove educatrici che, negli anni successivi permetteranno all'Umanitaria di aprire numerose altre strutture montessoriane, come, negli anni della Grande Guerra, quella ubicata nell'Asilo Profughi di Monza, la Casa dei Bambini nell'Istituto dei Derelitti di Milano, e, nel dopoguerra, quella di Cremona.

Una casa dei bambini di Maria Montessori
Qui, fin dal 1907, era sorta la prima sezione distaccata della Società Umanitaria milanese insieme a quella di Piacenza, seguite, nel 1908, dalle sezioni di Brescia, Verona, Padova, Biella, Udine e Bergamo. Rispetto ad altre sedi (come quella di Verona, che lamentò in più occasioni lo scarso appoggio, soprattutto finanziario, da parte di Enti e istituzioni locali), la Sezione di Cremona fu voluta espressamente dall'amministrazione cittadina nella persona dell'assessore Alessandro Groppali, eletto tra i primi nove consiglieri, e in pochi mesi poteva contare su un corpo sociale di 500 soci. Presto tra i consiglieri si aggiunsero anche rappresentanti del mondo cooperativo, come Primo Taddei, segretario della Federazione Provinciale delle Leghe Contadini (1913) e il valore della sezione venne riconosciuto dai sussidi ricevuti dai Comuni limitrofi, fra cui Gussola, Martignana, Pieve San Giacomo, Pescarolo, Torei dei Picenardi.
Ad un anno dall'avvio delle sue attività, stando a quanto riportato su "L'Umanitaria" del 31 dicembre 1908, "la Sezione ha istituito un Ufficio di assistenza legale che ha trattato 45 cause, un Ufficio di collocamento che ha ricevuto 87 offerte di mano d'opera e ne ha soddisfatte 32, ha creato 4 bibliotechine viaggianti nei paesi della Provincia, ed ha iniziato un Ufficio di emigrazione".
Ma forse una delle iniziative più interessanti della Sezione, rispetto al "pacchetto standard" a cui doveva attenersi ogni singola sede (emigrazione, collocamento, cooperazione, assistenza), fu la Scuola per infermieri istituita nel 1911, inizialmente denominata "Scuola per l'assistenza agli infermi"; nel primo anno fu frequentata con assiduità da 70 persone tra uomini e donne, di cui "ottennero la promozione 29 alunne e 21 alunni", senza contare "le 25 suore infermiere, che superarono felicemente gli esami di promozione". Due anni dopo, nel 1913, tutti gli iscritti superarono gli esami, con punteggi molto alti, spingendo la Commissione dei Primari a "rinnovare il voto che gli allievi non addetti agli ospedali debbano frequentare i corsi della Scuola laica per infermieri", per fare pratica per il maggior tempo possibile.
L'azione della Sezione non si limitò ovviamente solo a questo. Molto intensi e duraturi furono i rapporti con il mondo cooperativo, sia per quanto riguardava l'assistenza medico-legale, sia per trovare lavoro alle cooperative in città e nel circondario, dove l'opera dell'Umanitaria era garantita dalla sottosezione di Casalmaggiore (pratiche riguardanti liquidazioni di indennità, applicazione delle leggi sociali, collocamento di operai, ispezioni contabili). Altrettanto importante l'impegno per il collocamento di manodopera (297 persone collocate tra luglio e settembre del 1911, 424 collocamenti nel 1920, 1.464 domande di lavoro ricevute nel 1922, con 177 collocamenti effettuati), un po' meno significativa l'azione nel campo dell'emigrazione, nonostante una incessante lotta "per impedire che i nostri lavoratori diventassero istrumenti di speculazione per certe imprese losche, nulla curanti e poco riguardose dei trattati internazionali: abbiamo vigilato - scrivevano nel 1923 - e fatto in modo di impedire che detti arruolamenti si effettuassero".
Soppressa dal fascismo, la Sezione rappresentò un caposaldo dell'opera dell'Umanitaria in Lombardia.

giovedì 20 agosto 2020

I delitti della banda partigiana (seconda parte)

Corteo partigiano (Archivio Anpi Cremona)
Ben diversa la versione fornita dagli abitanti di Spinadesco, in occasione dell'arresto dei giustizieri di Subitoni nel 1951, su quanto accaduto nei primi mesi dopo la liberazione. Un gruppo di persone si sarebbe praticamente impadronito del paese, razziando tutto quanto avevano abbandonato i tedeschi in fuga e tutto quello che era possibile trovare, iniziando ad amministrare la giustizia favorendo la loro stessa parte politica a scapito delle altre. Ruberie, soprusi, gozzoviglie sarebbero stati all'ordine del giorno. Sarebbe stato questo gruppo, di cui avrebbe fatto parte anche “Martedè”, ad uccidere Ernesto Subitoni? Il giovane ufficiale della GNR era appena rientrato da Arona, dove era stato destinato, quando, secondo la versione circolante in paese, sarebbe stato ucciso in pieno giorno da quelli che un tempo erano i suoi compagni, davanti ad un centinaio di persone, senza un apparente motivo che non fosse quello politico. In pratica quelli che erano stati gli amici di una volta non gli avrebbero perdonato il fatto di essere passato dalla parte del nemico. Ma questa versione, come sappiamo, non coincide con la testimonianza di Virginio Lucini e con quanto dichiarato dagli stessi imputati al giudice Acotto durante l'istruttoria del processo.
Un mese prima, il 5 maggio 1945, era stato ucciso, probabilmente per mano di elementi giunti da Cremona, anche Giuseppe Grisoli, milite GNR con mansioni di guardia notturna a Villa Merli, che aveva sposato una ragazza di Spinadesco. Non si è mai saputo chi facesse parte di quel gruppo, a cui, peraltro, viene attribuito anche l'omicidio di “Martedè” avvenuto qualche giorno dopo. Le voci di paese sostengono che si trattasse di un delitto su commissione, perpetrato da uno dei cinque arrestati per l'omicidio Subitoni, ricompensato con la somma di 30 mila lire da parte di un misterioso individuo che Martedè” ricattava per presunti rapporti d'affari poco leciti intrattenuti con i tedeschi, di cui era venuto a conoscenza. Effettivamente i carabinieri, nel corso delle indagini, il 4 gennaio 1952 fermano questa persona, accusata di aver offerto 30 mila lire ad uno dei cinque detenuti per la soppressione di “Martedè”, dopo non essere riuscita a sopprimere personalmente il ricattatore sparandogli una fucilata andata a vuoto. Le 30 mila lire, peraltro, non sarebbero mai state versate. A detta dei testimoni questo “Martedè” doveva essere un personaggio decisamente losco, con la cattiva abitudine di entrare in negozi ed esercizi pubblici senza pagare il conto, ed avrebbe ridotto in fin di vita un venditore di cocomeri per la misera somma di 47 lire.
Negli stessi giorni a Spinadesco si diffonde la notizia che, con l'individuazione degli assassini di Subitoni, potrebbero essere assicurati alla giustizia anche gli autori, che si ritiene siano abitanti in zona, dell'uccisione dell'ingegnere Nino Mori, avvenuta a scopo di rapina. Ufficialmente Mori venne fucilato dai partigiani a Bresso l'8 maggio 1945, ma il settimanale “Oggi” della Federazione cremonese del partito democratico del lavoro in un articolo pubblicato il 6 gennaio 1946, offrì una diversa versione dei fatti. Non si sa esattamente quando e per quale motivo l'ingegnere Mori si sarebbe allontanato da Cremona ben prima del 25 aprile, ma di certo la mattina del 26 aprile partì in macchina dalla villa di Farinacci in via Roma, sul lungolago di Bellagio, che in quegli anni è sede del comando tedesco del colonnello Erich Bloedorn rappresentante del generale della Luftwaffe Wolfram von Richthofen, per essere poi bloccato da un gruppo di partigiani con i fucili spianati nei pressi di Sesto San Giovanni. Bellagio in quegli anni è sede delle ambasciate di quei paesi che hanno riconosciuto la Repubblica di Salò: l'hotel Gran Bretagna che durante il conflitto aveva cambiato nome in “Albergo Grande Italia” ospita le Ambasciate di Ungheria, Croazia, Bulgaria, Romania, Slovacchia e Giappone e in un’ala distaccata l’Ufficio del Cerimoniale degli Affari Esteri e il Sottosegretariato all’Aeronautica Militare mentre Villa Serbelloni e l’albergo Firenze sono occupati dal comando tedesco.
Festa partigiana alle colonie padane (Archivio Anpi Cremona)
Mori si fermò, mostrò i documenti cercando di giustificarsi, ma il fatto di provenire proprio da Cremona, feudo di Farinacci, di guidare un'automobile con disponibilità di carburante e di avere un regolare permesso di circolazione non bastò a convincerli.Venne dunque fatto scendere dall'auto e portato in un vicino edificio scolastico, adibito temporaneamente a luogo di raccolta, in quanto i prigionieri potevano liberamente ricevere visite ed intrattenersi con i familiari. La notizia dell'arresto si diffuse a Sesto e giunse alle orecchie anche di una cremonese, una certa Adalgisa Sandri, che dal 1930 gestiva un piccolo albergo nella località della cattura e conosceva personalmente l'ingegnere Mori. La donna ottenne dunque con una certa facilità il permesso di incontrare il detenuto, che gradì molto la visita e chiese di poter avere qualcosa da mangiare, diverso dal rancio abituale fornito ai detenuti.
Nel frattempo da Sesto San Giovanni avevano telefonato al CLN di Milano chiedendo istruzioni sul da farsi, ma la risposta in un primo tempo era stata tale da non ammettere repliche: Mori era un gerarca troppo conosciuto e doveva essere giustiziato al più presto. Ma, mentre stava per scadere il termine stabilito, in soccorso di Mori al CLN di Sesto si presentarono due persone, un uomo ed una donna, Celeste Ausenda ed Arturo Amigoni, entrambi di “Giustizia e Libertà”, i quali fecero presenti alcune circostanze che suscitarono qualche dubbio in seno al tribunale rivoluzionario che aveva pronunciato la sentenza capitale, e l'esecuzione venne procrastinata in attesa che da Cremona giungessero ulteriori chiarimenti. Nel frattempo Mori rimase chiuso nella sua camera in carcere, l'albergatrice cremonese due volte al giorno gli portava uova e pane secondo le sue richieste. Il primo giorno trascorse tranquillo: Mori era convinto che presto la sua posizione sarebbe stata chiarita e tutto si sarebbe concluso nel migliore dei modi. Ma nei giorni successivi la sua certezza si incrinò ed il terzo giorno accusò forti dolori addominali, tanto che la donna dovette portargli del laudano per lenire il dolore. Il settimanale cremonese “Oggi”, attingendo le notizie da testimoni locali, racconta come si svolsero successivamente i fatti: “Intanto il C.L.N. di Milano aveva potuto mettersi in relazione con quello di Cremona. La cosa fu aggiustata rapidamente: il tribunale popolare milanese revocava la sua sentenza; Mori veniva reclamato dal C.L.N. di Cremona, il quale l'avrebbe fatto rinchiudere in carcere per deferirlo alla Corte straordinaria d'assise. Milano inviò a mezzo di alcuni armati giunti in macchina, gli ordini opportuni a Sesto; ove si presero le disposizioni del caso. Mori era abbattutissimo e piangeva, quando vennero a portargli la notizia che stavano per tradurlo a Cremona. L'annuncio lo consolò. Ringraziò l'albergatrice che lo aveva assistito, prese in consegna alla porta una grossa borsa in pelle che al momento dell'arresto gli era stata sequestrata e che conteneva 150.000 lire e si avviò con la scorta armata. Fiancheggiato da due partigiani, si assise sul seggiolino posteriore della macchina. A fianco del conducente era un altro armato.
E qui comincia il dramma. Testimoni oculari raccontano che l'auto si avviò a piccola velocità alla volta di Milano; ma non aveva percorso che poche centinaia di metri, quando svoltò bruscamente in una stradicciola laterale che finiva nei campi. Qualcuno, incuriosito, si avviò in bicicletta verso la stessa direzione e potè così, da lontano, assistere alla scena. La macchina si era fermata mezzo chilometro lontano dalla provinciale. Mori venne costretto a scendere. Uno dei suoi accompagnatori gli fece deporre sull'automobile la ricca borsa ch'egli portava sotto il braccio. In quel momento Mori intuì la sorte che gli era riservata e piangendo e gridando disperatamente, tentò di commuovere gli armati. Essi furono irremovibili e tentarono, con la violenza, di spingerlo contro un albero. Il terrore fece compiere a Mori un gesto insensato: tentò di darsi alla fuga. Uno degli armati, imbracciato il mitra, sparò una raffica che lo fece cadere. Era soltanto ferito. Urlando, egli si contorceva al suolo. Uno della squadra, allora, si avvicinò al caduto e lo colpì reiteratamente al capo con il calcio dell'arma. Poi risaliti sulla macchina, la fecero retrocedere sino alla strada provinciale e partirono rapidamente alla volta di Milano.
Partigiani ed abitanti di Sesto, accorsero per porgere qualche soccorso: non c'era più nulla da fare. Tra i presenti era il parroco di Sesto; il quale raccolse tutto quel che Mori aveva nelle tasche, sia per procedere ad un riconoscimento ufficiale sia per poter consegnare alla famiglia quanto possibile. Nel portafogli trovò tre immagini sacre. Da qui la convinzione del sacerdote che il morto fosse di sentimenti religiosi. Provvide a sue spese all'acquisto del feretro e fece seppellire la salma nel campo comune del Cimitero”.

Funerali dei partigiani caduti (Archivio Anpi Cremona)
Fin qui i fatti. I tre omicidi di Mori, Martedè e Subitoni vengono messi in relazione tra di loro in quanto in paese si diffonde la voce che tra i cinque arrestati per la soppressione di quest'ultimo vi sarebbe anche il responsabile dell'uccisione del gerarca, ed un altro coinvolto nello stesso delitto sarebbe stato denunciato a piede libero. Secondo questa ricostruzione uno stesso movente legherebbe dunque tra di loro i tre delitti: l'eliminazione di testimoni scomodi, in quanto depositari di segreti che, se rivelati, avrebbero potuto compromettere seriamente qualche personalità di spicco all'interno del C.L.N. Il fulcro della vicenda è la misteriosa borsa che portava con sè Nino Mori al momento dell'arresto. C'è chi parla di una borsa, c'è chi di una busta gialla. Mori l'aveva con sé al momento in cui da Bellagio, dove aveva pernottato nella villa di Farinacci, si dirigeva verso una località sconosciuta, non di certo a Cremona dove era assente da alcuni mesi. Si sa che l'ingegnere del regime dopo l'8 settembre avrebbe espresso la volontà di ritornare nell'esercito con il grado di maggiore del Genio: una comoda via d'uscita per svincolarsi in qualche modo dalle compromissioni con Farinacci riconquistando quella dignità militare che si era già guadagnato nella prima guerra mondiale con una medaglia d'argento ed altre decorazioni e con la partecipazione alla fondazione dell'Associazione dei combattenti cremonesi. Cosa poteva contenere quella borsa, di cui erano sicuramente a conoscenza i suoi carcerieri che l'avevano sequestrata e trattenuta per tutto il periodo della detenzione a Sesto, dal 26 aprile all'8 maggio 1945? Forse non c'erano solo 150 mila lire, ma qualcosa d'altro, decisamente più scottante, al punto da spingere il C.L.N. cremonese ad inviare a Sesto due discussi personaggi come erano Celeste Ausenda e Arturo Amigoni, militanti delle “Brigate Matteotti”, per trattare la consegna di Mori. E chi erano i partigiani venuti da Milano con gli ordini del C.L.N. meneghino per condurre il prigioniero a Cremona, ma in realtà con il preciso scopo di eliminarlo, trafugando la misteriosa borsa? A Spinadesco si sussurra che potessero essere gente del posto, veri e proprio sicari. Di certo si sa che Arturo Amigoni da Cremona, dove abitava in corso Pietro Vacchelli 21, si era trasferito con la famiglia a Milano due giorni prima dell'esecuzione di Mori, il 6 maggio del 1945, senza far più ritorno in città, come risulta da una nota della Questura del 23 luglio 1955 e da una successiva del 4 aprile 1957 (Ascr, Questura, fascicolo Sovversivi).

I delitti della banda partigiana (prima parte)

I partigiani entrano a Cremona (Archivio Anpi Cremona)
E' un caldo pomeriggio di giugno nei campi intorno a Spinadesco. Siamo nel 1945 e da poco è finita la guerra. In campagna regna una strana quiete. Virginio Lucini è solo un ragazzino, ha nove anni e si gode il sole dopo l'inverno, gira tra i viottoli con il suo compagno di giochi Umberto. Ad un tratto il silenzio è rotto da un fruscio tra l'erba già pronta per essere falciata, e dal vociare di alcuni uomini. C'è un ragazzo scalzo che corre trafelato in preda al terrore. Ogni tanto si volta verso quelli che devono essere gli inseguitori, poi scorge lungo il fosso un vecchio gelso. Lo raggiunge e vi si accovaccia cercando riparo, nascosto dall'erba. E' di nuovo silenzio, ma ad un tratto risuona secco un colpo di pistola. Virginio si volta istintivamente verso il gelso ai bordi del campo, ma vede solo un ragazzo allontanarsi in fretta. Non è certamente quello di prima, forse è uno degli altri che lo inseguivano. Virginio è spaventato, gli è sembrato di riconoscere almeno due di quei ragazzi, Gaetano Dosi e Carlo Mori di Spinadesco, e riferisce tutto ai carabinieri, che la sera stessa si recano sul posto e in un fosso, vicino al campo chiamato “Lazzari”, trovano riverso il cadavere di Ernesto Subitoni, tenente della Guardia Nazionale Repubblicana. Ha un foro di proiettile nella regione parietale, poco sopra il collo, e nella mano destra tiene stretta una rivoltella. Ma proprio questo particolare, supportato dal certificato di un medico del luogo, unito al fatto che il compagno di Virginio, Umberto Campanella, sottoposto ad interrogatorio neghi di aver assistito all'episodio, portano i carabinieri ad escludere un omicidio ed a propendere per il suicidio del giovane. L'inchiesta viene chiusa con un non luogo a procedere e l'episodio ben presto dimenticato.
Sei anni dopo, però, quando ormai i fatti di Spinadesco sono un lontano ricordo, accade qualcosa di inaspettato. La sera del 10 dicembre 1951 a breve distanza da Cavatigozzi, sulla via Milano, un commerciante col proprio furgone viene bloccato da un'auto messa di traverso sulla carreggiata da cui scendono quattro giovani con il voto coperto da fazzoletti, che gli intimano di consegnare tutto il denaro che ha con sé. Non c'è discussione, ed i quattro rapinatori ripartono alla volta di via Eridano dove, con lo stesso stratagemma, rapinano Augusto Peri, 53 anni, residente in viale Po, sottraendogli anche l'auto su cui viaggia, una Topolino giardinetta, che poi viene ritrovata in una stradina lungo il Po a Piacenza, priva degli pneumatici e con i sedili smontati.
Viene arrestato con l'accusa di concorso in rapina Pietro Viganò, ex comandante di zona del CLN dal maggio 1945 che, nel corso dell'interrogatorio, si lascia sfuggire alcune frasi relative all'episodio di Spinadesco, che spingono gli inquirenti a ritenere fondata la versione fornita a suo tempo dal piccolo Virginio Lucini. L'inchiesta viene immediatamente riaperta e, il 29 dicembre, vengono arrestati Zemiro Foina, 27 anni, abitante in via Manini 14, Gaetano Dosi, 25 anni di Spinadesco, Carlo Mori, 30 anni, anch'egli di Spinadesco, e Pietro Viganò, 37 anni in quanto esecutori materiali dell'omicidio avvenuto il 5 giugno 1945 e Francesco Carini, 31 anni, residente in via Passera, in qualità di mandante. In effetti Foina, Dosi e Mori confermano di aver ricevuto dal comandante del CLN Francesco Carini l'ordine di arrestare il tenente della GNR Enrico Subitoni, che una donna aveva visto in paese. E' un ordine strano, perchè solo Mori risulta aver militato nella Sap Ghinaglia dal 2 marzo 1943 al 25 aprile 1945, mentre degli altri due non si sa nulla. Comunque sia i tre si recano all'abitazione di Subitoni che, avvertito del loro arrivo, riesce a fuggire calandosi da una finestra. Tuttavia viene inseguito attraverso i campi per circa una paio di chilometri fino a quando, nascosto dietro un gelso, viene sorpreso alle spalle da Foina e freddato con un solo colpo di pistola alla nuca. Foina, poi, lo getta nel fosso dopo avergli messo in mano una delle due pistole che porta con sé, volendo con questo simulare un suicidio.
Nel corso dell'istruttoria, condotta dal giudice Pietro Acotto, il pubblico ministero ritiene che Foina abbia agito spinto solo dall'odio personale, ma l'ipotesi vien ritenuta “assurda” in quanto l'esecuzione di Subitoni avrebbe le caratteristiche di una vera e propria azione politica e, di conseguenza rientrerebbe nella lotta antifascista, volta a prevenire il ricostituirsi di questo movimento. Mentre gli altri imputati vengono assolti con formula piena per non aver commesso il fatto a Foina, che conferma di essere l'autore materiale dell'omicidio negando solo il fatto di aver gettato il cadavere di Subitoni nel fosso, viene dunque riconosciuto il diritto di usufruire dell'amnistia per i reati di tipo politico.
Tuttavia, fin dal momento dell'arresto dei cinque, nonostante l'assoluto riserbo mantenuto dagli inquirenti nello svolgimento dell'inchiesta, Spinadesco ha iniziato ad interrogarsi su quel delitto che qualcuno, fin dal 1945, ha cercato in tutti i modi di occultare. Vi è un tarlo che rode la comunità, cattivi pensieri che emergono dalle nebbie della coscienza collettiva. Perchè avrebbe dovuto suicidarsi un giovane appena tornato dal servizio militare senza aver mai svolto attività politica? E perchè un medico, non si sa di dove, sarebbe stato terrorizzato da minacce di morte al punto da stilare un certificato falso? E perchè i carabinieri, per la prima volta, non ammettono i giornalisti nei loro uffici?
I partigiani a porta Venezia (Archivio Anpi Cremona)
Si diffonde la voce che, in realtà, partendo dall'indagine su Ernesto Subitoni, gli inquirenti potrebbero riaprire anche il caso della fucilazione dell'ingegnere Nino Mori, avvenuta a Bresso l'8 maggio 1945, e sarebbero sulle tracce dei due esecutori materiali, uno già arrestato e l'altro individuato ma ancora a piede libero, che l'avrebbero ucciso a scopo di rapina. Ma riemerge dalla memoria anche un altro delitto avvenuto a Spinadesco nell'estate del 1946, quando venne tratto a riva dal Po, nei pressi di Stagno Lombardo, il cadavere di un uomo identificato successivamente con “Martedè”, il soprannome dato ad un contadino di Spinadesco che, dopo essere stato un fervente fascista, si era rifugiato a combattere con i partigiani in montagna, conquistandosi quella fama che poi, nel dopoguerra, gli aveva consentito di rivestire una posizione politica di rilevanza nel comune. Chi poteva averlo ucciso, e per quale motivo? Paolino Luigi Martedei, più conosciuto come Paolo, era nato il 24 gennaio 1901 a Motta Baluffi ed era stato congedato definitivamente dall'esercito, dove aveva prestato servizio in fanteria, il 12 agosto 1939. Il 14 giugno 1944 era entrato nella formazione partigiana “Bersani” che operava nella zona di Piacenza, in cui aveva militato fino al 28 aprile 1945. Risiedeva con la moglie Angela Bernuzzi nella cascina Cavecchia di Spinadesco. Il suo cadavere venne rinvenuto nelle acque del Po nei pressi di Stagno Lombardo l'8 giugno 1946.
Indubbiamente nei giorni immediatamente successivi alla liberazione la situazione è particolarmente confusa. Francesco Carini, in qualità di comandante del Corpo Volontari della Libertà della Sap Ghinaglia, l'11 maggio 1945 invia un dispaccio in cui invita tutti i partigiani a sottostare ai suoi ordini: “Tutti i partigiani di passaggio o che si fermassero temporaneamente nella zona di Spinadesco devono sottostare agli ordini del Comandante il Corpo Volontario della libertà unico capo riconosciuto e approvato dal C.L.N. Chiunque trasgredisse a questa disposizione verrà punito”. (Ascr. Archivio Anpi, busta n.46). Nessuno degli implicati nell'omicidio di Ernesto Subitoni figura tra i partigiani che hanno guidato in paese l'insurrezione del 25 aprile. Lo stesso Carini, in una relazione inviata il 12 luglio 1945 al Presidente del CLN provinciale, specifica che la rivolta è nata spontaneamente da parte di un gruppo ristretto di persone: Mario Poli, Mario Lazzari, Annibale Zanni e Giovanni Lampugnani. Attendendo il momento avevano distribuito volantini a stampa, opuscoli e giornali, del tipo “L'Italia combatte”, “L'Avanti”, “L'Unità”, “il Volontario S.A.P.” e “L'edificazione socialista” forniti dapprima da Arnaldo Feraboli e poi da Ettore Ghidelli della Sap Ghinaglia, entrambi di Cremona. Al momento dell'insurrezione son questi gli attivisti che costituiscono ed insediano a Spinadesco il Cln provvisorio, “indipendente dal fattore politico”, sottolinea Carini, che riesce a raggruppare intorno a sé un buon numero di giovani in modo da costituire il Corpo Volontario della libertà armato, guidato dallo stesso Carini, con il compito di “ottenere con qualsiasi mezzo: il fermo ed il disarmo dei fascisti repubblicani del luogo, il fermo ed il disarmo di diversi soldati tedeschi in ritirata, la costituzione del servizio di polizia per il buon mantenimento dell'ordine e la sorveglianza del passaggio di qualche elemento sospetto; emanando ordini ritenuti indispensabili per il buon andamento della vita civile del Paese e per lo scopo prefisso inerente alla liberazione desiderata; provvedere alle materie prime relative all'alimentazione della popolazione”.
Verzelletti commemora il 25 Aprile (Archivio Anpi Cremona)
Dopo il 25 aprile, “il momento più delicato che richiedeva lo sforzo massimo anche a costo di una qualche vita”, il CLN provvisorio decide di sciogliersi per dar vita il 6 maggio al CLN regolare, costituito dalle rappresentanze dei cinque partiti maggiori. Ne fanno parte il comunista Francesco Carini, presidente; il socialista Quinto Salvini, il democristiano Mario Galli, Dino Andreani per il Partito d'Azione ed il liberale Luigi Spigaroli, che poi si dimette per ragioni personali senza essere sostituito. Prime azioni del nuovo CLN sono la nomina del sindaco, l'ex partigiano Annibale Zanni, e il lancio di una sottoscrizione pubblica per i poveri del paese, per le famiglie dei caduti in guerra e gli internati in Germania, che consente di raccogliere oltre 222 mila lire, di cui 86 mila effettivamente destinate allo scopo, e le restanti 136 mila depositate su un libretto di risparmio per le altre eventuali necessità. Carini nella sua relazione parla di “esito felice” per i cinque punti in cui si è articolata l'attività del CLN, fino al disarmo dei partigiani, avvenuto entro luglio, ed il conferimento di pieni poteri al sindaco. Sottolinea le difficoltà dell'approvvigionamento alimentare, di un mercato nero alimentato dalle nuove libere associazioni e dai consorzi che ricordano ancora le defunte federazioni fasciste, ma non accenna ad episodi di esecuzioni sommarie di fascisti. La relazione è controfirmata dal comandante di zona Pietro Viganò. Viceversa un messaggio del Capo di Stato Maggiore del CLN Gianni Bianchi inviato l' 8 maggio al Questore e per conoscenza al Prefetto, informa dell'esistenza di un corpo di Polizia giudiziaria formato da ex fascisti, impadronitisi della caserma e delle armi del Fronte della Gioventù di Sesto Cremonese, che si è incaricato autonomamente di mantenere l'ordine e sollecita gli organi competenti a ripristinare la legalità.

(1. continua)

venerdì 14 agosto 2020

L'esordio cremonese di Tazio Nuvolari

Tazio Nuvolari nel 1920
Quella mattina del 20 giugno 1920 gli sportivi cremonesi si erano svegliati all'alba e porta Venezia, già alle 6, brulicava di gente, come in un giorno di mercato. Al foro boario, però, nel recinto destinato al bestiame, non ci sono le vacche e si sente un insolito crepitìo: scoppi improvvisi, rombi di motori tirati al massimo, e zaffate di benzina. Regna una gran confusione, gente che va e viene, che urla e impreca, in preda all'agitazione. Tra gli ultimi, febbrili, preparativi del IV Circuito Internazionale motoristico di Cremona, nessuno ha tempo di badare a quel ragazzo minuto che trascina impacciato una moto Della Ferrera Corsa da 600 cm. E' la prima gara a cui si è iscritto, anche se non è più giovanissimo. Pur avendo già una certa dimestichezza con i motori, è stato richiamato alle armi come “autiere” e ha guidato autoambulanze della Croce Rossa, camion e vetture che trasportano gli ufficiali, tra le prime linee e le retrovie del fronte orientale. Gli anni sono così passati e solo da qualche giorno ha ottenuto la licenza di pilota di moto da corsa per poter partecipare alla sua prima gara. Si è innamorato delle moto che era poco più di un bambino, quando lo zio Giuseppe lo aveva fatto sedere in sella a una motocicletta e gli aveva insegnato a guidarla. Poi, il 5 settembre 1904 aveva assistito per la prima volta a una corsa automobilistica, il Circuito di Brescia, che si disputava su un tracciato stradale che toccava anche Cremona e Mantova. Aveva visto in azione Vincenzo Lancia, Nazzaro, Cagno, Hémery, Duray, gli assi dell’epoca, ed era rimasto affascinato dallo spettacolo della velocità. Da allora è passato qualche anno, nel 1917 il ragazzo si è sposato ed ha già un figlio, Giorgio. Ed è proprio col nome dato al figlio, che si iscrive alla gara: Giorgio Nuvolari, da Mantova. Il suo primo nome è Tazio, e fra qualche anno darà filo da torcere a tutti quanti, fino a diventare quello che Ferdinand Porsche definirà “il più grande corridore del passato, del presente e del futuro”. Per ora, però, deve accontentarsi.
Alla stessa gara è iscritto un altro Nuvolari, Gottardo, suo cugino. La prova si articola su due categorie: 600 cmc e 1200 cmc. Tra i 45 partecipanti iscritti vi sono anche altri piloti cremonesi: Ettore Cavalleri e Giuseppe Guindani nella classe 600, e Oreste Perri nella 1200. “Non sfugge, guardando questo elenco – scrive il cronista de “La Provincia” - così ricco di «assi» del motociclismo l'intimo compiacimento per una così vasta accolta di campioni, garanzia sicura di un grande successo tecnico-sportivo del IV Circuito Cremonese. E che questo grande successo debba veramente assistere la manifestazione cremonese non è dubbio se noi ricordiamo qui quel senso di impressione vaga e profonda che le macchine in prova hanno lasciato in noi. Ieri sul circuito come tanti piccoli rettili magnetici si son provate e riprovate le macchine. Ogni guidatore ha fatto in un senso e nell'altro il circuito, ha ascoltato il palpito fremente del cuore della macchina in moto, ha provato le curve, i rettilinei, s'è lanciato a velocità che faceva rabbrividire. I colossi di 1200 cm., cioè le «Indian», tutte rosse. Le «Harley Davidson», le «Henderson», e le altre di minore categoria come le «Gilera», le «Borgo», le «Della Ferrera», le «Motosacoche», le «Frera» hanno raggiunte velocità fantastiche da lasciare perplessi i più provati a questi exploits motociclistici».
Nuvolari sulla "Della Ferrera" del 1920
Purtroppo l'esordio di Tazio Nuvolari non è dei più felici. Si ritira dopo pochi giri per rottura meccanica, e di suo cugino Gottardo non si sentirà più parlare. La vigilia della corsa, peraltro, è funestata da un incidente mortale provocato dalla temerarietà di un pilota che investe ed uccide un addetto al circuito. Vince Carlo Maffeis, su una Bianchi 600, tutti ritirati i cremonesi in gara. “Vero è che l'eroe della giornata, Carlo Maffeis, che era partito con la macchina più minuscola per compiere la più grande performance, è il mago della motocicletta e nel segreto della sua grande competenza è riposto gran parte del suo valore di guidatore. Ma questo non può scusare a sufficienza la dèbacle delle grosse macchine, perchè ricordiamo il secondo arrivato nella categoria dei 600 cmc, Rossi di Lugano, che partecipò con una macchina da turismo comune, una Motosacoche commerciale, il quale, ha fatto una media di poco inferiore a quella di Bordino, primo nella categoria dei 1200 cmc.”.
La cronaca della gara: “Alle sette e mezza i guidatori sono allineati agli ordini del rag. Macoratti, cronometrista ufficiale. Non partono Ceresa, sofferente per l'incidente della vigilia, Cavalleri di Cremona per non aver presentato la macchina la sera precedente, e Capitani, Schena, Poli per i 600 cmc e Bernia, Lugarini, Perri nei 1200 cmc. I giri del circuito si susseguono brevemente. Al primo giro, ore 8,14, cioè in 43 minuti, Rossi passa primo, seguito da Mancini, De Leonardis, Bianchi, Maffeis e dagli altri, macchine pesanti, e macchine leggere che si susseguono pazzamente, assordando tutto il vastissimo rione con la sinfonia dei motori frementi. Cominciano i primi ritiri, per incidenti. Sono Della Ferrera, Wincler che è caduto, Napuzo, Donati, Forti, Malvisi che hanno guasti irreparabili alle macchine.
Al secondo giro Carlo Maffeis è in testa con tre minuti di vantaggio. Anche qui nuovi ritirati: Donati, Guindani di Cremona, Forisi, Oggero, Robbo, Amerio, mentre Mancini, Maffeis, Miro, Domenico Malvisi, Rossi sono obbligati a compiere affrettate riparazioni che provocano la perdita di minuti preziosi, tanto bene guadagnati sin qui con una condotta di gara onorevolissima. Siamo ormai alla fine. Alle 9.50 minuti Carlo Maffeis giunge trionfante, accolto dai più vivi applausi dal pubblico. Poi giungono gli altri mentre il capitano Nelli è costretto a ritirarsi per improvvisa mancanza di benzina. In totale sono giunte 20 macchine al traguardo, Di queste 12 appartengono alla prima categoria, e 8 alla seconda. C'è da compiacersi di tutto questo, perchè, unito al risultato tecnico della prova, come abbiamo detto sopra, è molto. Il Circuito di Cremona ha pronunciato un severo monito agli uomini che vogliono guidare macchine e a chi si accinge alla costruzione di modelli perfetti. Un monito che da tempo si attendeva e solo il circuito cremonese, nel modo come è stato organizzato e come si è svolto, poteva e doveva dire.
Diano quindi piena lode agli organizzatori (la US. Cremonese, ndr) e restiamo sicuri che il successo attuale sarà sprone per iniziative con generi che tanto contributo recano alla causa dell'industria motociclistica. Nel 1920, con la presenza di 20 macchine straniere, di grande potenzialità, una modesta, ma elegante, ma sicurissima Bianchi di due cilindri con cilindrata di 494 cmc. riesce a conquistare il primato con sicurezza. E' una tappa questa, per la produzione italiana, che presagisce ad essi i più rosei destini!”.
Tazio Nuvolari non si dà per vinto e nel 1924 torna al Circuito di Cremona per vincerlo a bordo di una Norton. Ma intanto si era già fatto conoscere anche come pilota di auto vincendo la sua prima gara il 20 marzo 1921, a Verona, alla guida di una Ansaldo Tipo 4 cs. Si trattava di una competizione regolaristica (la Coppa Veronese di Regolarità) ma, come inizio, non c’è male. Con la stessa vettura Tazio prende il via altre tre volte nel 1921, ottenendo due piazzamenti e un ritiro.
Nel 1922, si trasferisce con la moglie e il figlio dal paese natale di Castel d’Ario a Mantova: effettua tre corse in moto a quanto è dato sapere e una sola in auto, il Circuito del Garda, a Salò, con un secondo posto assoluto, ancora alla guida di un’Ansaldo. Il 5 novembre 1922 arriva anche il primo successo sulle due ruote davanti al pubblico di casa, al Circuito di Belfiore, ai comandi di una Harley Davidson. l’anno seguente trionfa a Busto Arsizio ancora con una Norton e sale sul gradino più alto del podio del Giro dell’Emilia e del Circuito del Piave con una Indian.
È nel 1923, quando ormai ha trentun anni, che Tazio incomincia a correre con assiduità. Fra marzo e novembre prende la partenza 28 volte, 24 in moto e 4 in auto. Non è più, dunque, un gentleman driver, bensì un pilota professionista. In moto è la rivelazione dell’anno. In auto alterna piazzamenti e abbandoni ma non manca di farsi notare, se non con la Diatto, gioiello tecnologico da 2 litri prodotto dall'azienda torinese, certo con l’agile Chiribiri Tipo Monza, che l'8 febbraio aveva conquistato, con il tipo Ada, il record di velocità a Milano.
L’attività motociclistica predomina anche nel 1924: 18 risultati, contro 5 in auto. Questi 5 sono tuttavia ottimi: c’è la sua prima vittoria assoluta (Circuito Golfo del Tigullio, 13 aprile) e ce ne sono quattro di classe. In Liguria corre con una Bianchi Tipo 18 (4 cilindri, due litri di cilindrata, distribuzione bialbero); nelle altre gare, ancora con la Chiribiri Tipo Monza. Tazio è alla guida di questa vettura quando per la prima volta si batte con un avversario destinato a un grande avvenire, anche se non come pilota. È un modenese grande e grosso. Si chiama Enzo Ferrari. 
E arriva il 1925, anno in cui Tazio corre soltanto in moto, ma con un «intermezzo» automobilistico tutt’altro che insignificante. L’1 settembre, invitato dall’Alfa Romeo, prende parte a una sessione di prove a Monza, alla guida della famosa P2, la monoposto progettata da Vittorio Jano che fin dal suo apparire, nel 1924, ha dominato la scena internazionale. L’Alfa cerca un pilota con cui sostituire Antonio Ascari che poco più di un mese prima è morto in un incidente nel G.P. di Francia, a Montlhéry. Per nulla intimidito, Nuvolari percorre cinque giri a medie sempre più elevate, rivelandosi più veloce di Campari e Marinoni e avvicinando il record stabilito da Ascari l’anno prima. Poi, al sesto giro, incappa in una rovinosa uscita di pista. 

La macchina è danneggiata, il pilota è seriamente ferito, ma dodici giorni più tardi, ancora dolorante, torna a Monza, si fa imbottire di feltro e bendare con una fasciatura rigida, si fa mettere in sella alla fida Bianchi 350 e vince il G.P. delle Nazioni.
Anche il 1926 è interamente consacrato alla moto, la Bianchi 350, la leggendaria «Freccia Celeste» con la quale Tazio vince tutto ciò che c’è da vincere. Subisce anche tre incidenti, il primo dei quali sul circuito della Solitude, vicino a Stoccarda. Dopo un’uscita di pista a causa della nebbia, è raccolto privo di sensi, minaccia di commozione cerebrale, sospette fratture, shock traumatico. All’indomani sospetti e pericoli sono ridimensionati e Tazio riparte in treno per l’Italia, incontrando al confine un dirigente della Bianchi che sta recandosi a Stoccarda per rendersi conto esattamente dell’accaduto: le prime notizie, in effetti, erano molto allarmanti, un telegramma del console italiano esprimeva preoccupazione e pare inoltre che un giornale tedesco della sera fosse addirittura uscito con la notizia della morte del pilota
La sua popolarità è ormai molto vasta. Lo chiamano “il campionissimo» delle due ruote”. Ma l’automobile non gli esce dal cuore. E ci riprova, implacabile, nel 1927, anno in cui con una Bianchi Tipo 20 disputa la prima edizione della Mille Miglia arrivando buon decimo assoluto. Ma acquista anche una Bugatti 35 e vince il G.P. Reale di Roma e il Circuito del Garda.
È nell’inverno tra il 1927 e il 1928 che Tazio decide di puntare con piena determinazione sull’automobile. Su due ruote Nuvolari vinse 39 gare in poco più di 7 stagioni (5 vittorie al circuito del Lario, la sua corsa prediletta, su Bianchi 350, la sua moto preferita). 

lunedì 20 luglio 2020

Fulvia, la cameriera di D'Annunzio

Gabriele D'Annunzio
Un'emorragia cerebrale porta via Gabriele d'Annunzio la sera del 1° marzo 1938. Indossa un pigiama marrone e sta aspettando l'ora di cena nella sua "officina" al Vittoriale, fra carte e vocabolari. Sono da poco passate le 8, è chino davanti al suo scrittoio, dove è aperto il Lunario Barbanera, il più famoso almanacco italiano, con una frase da lui sottolineata di rosso, che annuncia la morte di una personalità. Nell'altra stanza le donne, al servizio della piccola corte nella villa di Gardone Riviera, hanno appena finito di cenare quando vedono uscire dall'appartamento del “Comandante” Giuditta Franzoni, l'infermiera personale che da qualche tempo non abbandona più di notte il poeta. La sua salute aveva ormai iniziato a declinare, ma quella sera Giuditta non è particolarmente preoccupata. Dice semplicemente alle altre che D'Annunzio aveva appena avuto una crisi e che doveva, di conseguenza, praticargli un'iniezione. Tutti conoscono ormai le sue condizioni di salute, anche le sue numerose amanti che pure lui continua a ricevere, grazie ad un carisma rimasto intatto ed al fascino che esercita il suo mito, anche se le attende in camicia da notte o nella penombra, per nascondere il fisico invecchiato. Poco dopo Giuditta entra nuovamente nell'appartamento per uscirne subito dopo annunciando, laconicamente a testa basta: “Il Comandante è morto”. A raccontare la straordinarietà di quella sera è la cremonese Fulvia Tenchini, la domestica del Vittoriale, una delle sue preferite, originaria di Volongo. Fulvia sa esattamente cosa fare: si reca nella stanza della Zambracca, dove D'annunzio ha reclinato la testa sulla scrivania, e, aiutata da due altre cameriere, lo riveste. Poi, con l'aiuto dell'autista Guido, depone il corpo del poeta nella camera ardente che lui stesso aveva già predisposto. Giuditta Franzoni, come abbiamo visto l'unica presente negli ultimi istanti, racconta il momento del decesso: “Mi stringe forte la destra, me la fa sbattere sul tavolo come per dirmi resta qui”. Giuditta è l'infermiera adibita alla somministrazione dei farmaci. L'altra è Emy Heufler, cameriera tuttofare ma, secondo altri, un agente segreto al servizio dei nazisti incaricata di ucciderlo somministrandogli veleno anziché medicine. D'Annunzio, affetto da una serie di malanni, come piorrea, emorroidi, emicranie, gastriti, spasmi intestinali ma anche impotenza, faceva un uso smodato di stimolanti (come la cocaina), medicinali vari e antidolorifici, visibili tuttora negli armadietti del Vittoriale. Il ricercatore Attilio Mazza ha sostenuto che il poeta possa essere morto per overdose di farmaci, accidentale o volontaria, dopo un periodo di depressione; all’amica Ines Pradella aveva scritto pochi mesi prima:“Fiammetta, oggi patisco uno di quegli accessi di malinconia mortali, che mi fanno temere di me; poiché è predestinato che io mi uccida. Se puoi, vieni a sorvegliarmi”. Il certificato medico di morte, scritto dal dottor Alberto Cesari, primario dell’ospedale di Salò, e dal dottor Antonio Duse, medico curante del poeta, ufficializzò comunque la morte per cause naturali.
Giordano Bruno Guerri sostiene che D'Annunzio fosse circondato da donne che lo accudivano, lo spiavano e se lo contendevano. Erano almeno quattro. Una di queste era Amélie Mazoyer, conosciuta in Francia quando lei aveva 24 anni e lui il doppio e che era divenuta di fatto, nonostante fosse solo una dipendente, una delle sue amanti, anche se non bellissima. Un'altra era Luisa Baccara, la “Signora del Vittoriale” che, dopo essere stata sua amante, è rimasta nella villa suonando il piano per il vate. C'era poi la cameriera Emilia, detta il Caporale, la fornitrice di cocaina, e la moglie Maria Hardouin dei duchi di Gallese. Le donne sono state il suo ultimo tentativo di ingannare la morte, come negli anni belli erano state oggetto di desiderio, vezzo, vizio, giocattolo, piacere.
Fulvia Tenchini servì fedelmente d'Annunzio dal 1933 al 1938 e quella tragica sera del 1° marzo vestì il corpo ormai inanimato del Poeta. Nel 1963 raccontò quegli anni trascorsi al Vittoriale e gli ultimi istanti della vita del vate al giornalista Antonio Leoni, che ne trasse un ritratto vivo tale da costituire una testimonianza unica da parte di uno degli ultimi protagonisti ancora viventi di quell'epoca straordinaria. 
La stanza della Zambracca al Vittoriale

"Nel 1933 – racconta Fulvia - da quando fui assunta passarono quindici giorni prima che riuscissi a vedere il Comandante. Egli riceveva la posta, dava gli ordini agli autisti, regolava la sua vita senza uscire dal proprio appartamento, servendosi della cameriera privata e non avrebbe mai tollerato una qualsiasi intrusione di altre persone. Durante la giornata mangiava raramente e soltanto frutta. Il suo pasto lo compiva verso mezzanotte. Chiamava allora la cameriera privata che provvedeva... ma non tutte le notti il Comandante pranzava. A volte passavano persino 48 ore prima che toccasse cibo.
Certo, noi avvertivamo continuamente la sua presenza. Non tanto perchè egli la rivelasse con una luce accesa e con uno squillio di campanella, quanto perchè la si sentiva nell'aria. Ancora oggi non so spiegarmi come riuscisse a riempire così interamente la villa della sua presenza... O meglio, ancor oggi non riesco a capire da dove promanasse una sensazione così violenta di genio e di personalità... Vede, io sono una donna che ha conosciuto molti ambienti e persone importanti, ma una sensazione di eroico quale ebbi di fronte a d'Annunzio non l'ho mai più provata”.
Vivere al Vittoriale, accanto ad un personaggio così unico ed eccentrico non è stato semplice e Fulvia così lo ricordava: “Non fu facile, lo confesso. Si usciva raramente dal Vittoriale e soltanto per ragioni di servizio. Nella villa eravamo tutti soggiogati dalla sua presenza. Ricordo che, nei primi giorni, io fui tremendamente colpita da un fatto. Mi accompagnarono in visita alla Villa e mi condussero nella Camera Ardente del poeta. Il comandante aveva fatto predisporre una vasta sala a lutto. Al centro era situato un cofano mortuario molto semplice, scoperchiato. Nel cofano una maschera del Comandante. Drappi neri coprivano interamente le pareti, candelieri erano posti ovunque. Di fronte al sarcofago, il Comandante aveva fatto sistemare una statua di S. Sebastiano che aveva acquistato a Lisbona. Perchè era giovane ed eroico. Confesso che per molto tempo, quando dovevo effettuare le pulizie nella Camera ardente del poeta, mi sentii tremendamente a disagio...”.
La Prioria è l’ultima dimora di Gabriele d’Annunzio arredata e decorata seguendo il suo gusto di “tappezziere incomparabile”: “Tutto qui mostra le impronte del mio stile nel senso che io voglio dare al mio stile”. Da una semplice villa colonica, già appartenuta al critico d’arte tedesco Henry Thode, d’Annunzio creò una casa museo simbolo del suo “vivere inimitabile”. Nelle stanze della Prioria sono conservati circa 10.000 oggetti e 33.000 libri, che si abbinano a frasi enigmatiche e motti, leggibili su architravi e camini, in un gioco continuo di rimandi simbolici. L’atmosfera di sacralità che si respira all’interno è ampliata dalla scarsa illuminazione. Vetrate dipinte, finestre con pesanti tendaggi, luci soffuse nelle stanze, fanno della Prioria un luogo misterioso e suggestivo in cui il Poeta fotofobico poteva ben vivere. D’Annunzio pensò e realizzò la villa con grande minuzia di particolari creando stanze atte a vari momenti di vita: dalla stanza della Musica in cui amava ascoltare dietro pesanti tendaggi Luisa Bàccara, sua ultima amante, alla stanza del Lebbroso realizzata come sua ultima dimora, con il letto simbolico delle due età, alla sua Officina, lo studio dell’operaio della parola, come era solito definirsi.
Il Vittoriale
L'incontro di Fulvia con Gabriele d'Annunzio fu estremamente semplice. Un giorno il Comandante uscì dal suo appartamento in compagnia del fido architetto Carlo Moroni. Le si avvicinò e le disse semplicemente: “Certo tu non sai quante belle cose ci sono nel Duomo di Cremona.... Non aggiunse altro, sorrise. Ed io rimasi senza parole e senza fiato”.
Dopo questo primo incontro iniziò un periodo in cui i contatti tra il Comandante e la servitù si intensificarono. Oltre i pranzi ufficiali le occasioni per incontrare il poeta non mancavano da quando in una sala della villa venne installata una piccola sala cinematografica. Due o tre volte alla settimana venivano proiettate le pellicole che D'Annunzio mandava a noleggiare a Milano e dopo aver visto un film il vate diventava più affabile e sorridente cosicchè se qualcuno voleva essere ricevuto, lo doveva chiedere in quel momento, anche se l'ora magari era tarda.
Non era facile parlare con il Comandante- ricorda Fulvia - a volte se ne stava rinserrato nella sua stanza e non riceveva nessuno. Nessuno poteva parlagli o disturbarlo. Ricordo che un giorno venne un frate. Chiese d'esser ricevuto perchè desiderava "convertire d'Annunzio". Fui io stessa ad annunciarlo al Comandante. D'Annunzio sorrise: poi mi consegnò un libro sul quale aveva posto una dedica non proprio adatta alla meditazione mistica... e mi pregò di congedarlo. Il frate sorrise quando gli consegnai il libro e promise che sarebbe ritornato. Si fece vedere altre volte, infatti, al Vittoriale, ma non fu mai ricevuto”.
Alle numerose donne era riservato lo stesso trattamento: “A volte dovevano attendere a Gardone intere giornate prima di essere ricevute dal Comandante, a volte mesi. Ed erano donne bellissime, del gran mondo” e “non mi accenni a quelle storie del Comandante vestito da frate...non me ne parli che non ci credo. In cinque anni che io sono rimasta al Vittoriale, le assicuro che non ho neppure raccolto l'eco di una simile storia...” L'equivoco deriva forse dal fatto che il poeta amava farsi chiamare Frate Gabriel priore” e di conseguenza Prioria la sua dimora, anche se il biografo Giuseppe Grieco sostiene che così agghindato avrebbe ricevuto le sue amanti. “Ed a quale uomo non piacerebbero le donne che si videro in quegli anni alla villa di Cargnacco? Erano belle, splendide dame che gli si offrivano. Caro, credo si siano scritte e udite troppe fantasie su quest'argomento. Indubbiamente era un gentiluomo squisito quando si decideva a ricevere. Ordinava che salisse in villa il quartetto Poltronieri...ma quante volte il quartetto ha suonato soltanto per una donna e non per il Comandante. Egli si ritirava spesso nel suo studio, in uno di quei cambiamenti d'umore terribili e rimaneva a lungo chiuso, per intere giornate. Era un uomo solo, D'Annunzio. Ho letto su un giornale, in questi giorni, che le molte donne della sua vita esprimono forse una tendenziale incapacità di affetto e d'amore. D'Annunzio sapeva amare...ma quale donna riusci a portarsi ai suoi vertici? Forse soltanto Eleonora Duse. Ricordo che un giorno portai alla duchessa sua moglie un barboncino. Era la risposta di D'Annunzio ad una richiesta di colloquio. Vede duchessa, mi permisi di dire, il Comandante pensa spesso a lei...e la ricorda. Significa che le vuole bene... Già, mi vuol bene..., mi rispose la duchessa Maria Harduin e sentii un tono amaro nella sua voce. Eppure D'Annunzio conservò sempre un ricordo alto ed incontaminato soltanto per tre donne: Maria Harduin sua moglie, Eleonora Duse e sua madre. D'Annunzio adorava sua madre. Conservava un affetto indicibile ed ogni anno, nell'anniversario della sua morte, il 27 gennaio, egli si chiudeva nelle sue stanze e non voleva più vedere né ricevere nessuno, neppure la cameriera privata. Osservava un rigoroso digiuno che durava 48 ore”.
Durava a lungo, spesso, questo isolamento di D'Annunzio – prosegue il suo racconto Fulvia – a volte sino a metà febbraio non usciva dalla villa. E l'architetto Moroni suo intimo amico, spesso chiedeva di essere ricevuto, per sollecitarlo a compiere una passeggiata in automobile lungo la Gardesana, ma vanamente. Negli ultimi anni usciva pochissimo. Quando doveva recarsi a Verona per effettuare un'ultima revisione delle bozze e per acquistare il prosciutto di San Daniele, di cui era ghiotto. In quelle occasioni, si fermava a lungo nella chiesa di S. Zeno. Usciva dalla villa, poi, nelle notti di luna. Gli piaceva ammirare la Gardesana ed allora invitava l'autista a proseguire lentamente; non rimaneva mai fuori troppo, però. Usciva verso le undici, spesso in compagnia dell'inseparabile Moroni e rientrava verso l'una per cenare. Diceva che questo viaggio sotto la luna, in riva al lago, lo riempiva di gioia...”