Gabriele D'Annunzio |
Un'emorragia
cerebrale porta via Gabriele d'Annunzio la sera del 1° marzo 1938.
Indossa un pigiama marrone e sta aspettando l'ora di cena nella sua
"officina" al Vittoriale, fra carte e vocabolari. Sono da
poco passate le 8, è chino davanti al suo scrittoio, dove è aperto
il Lunario Barbanera, il più famoso almanacco italiano, con una
frase da lui sottolineata di rosso, che annuncia la morte di una
personalità. Nell'altra stanza le donne, al servizio della piccola
corte nella villa di Gardone Riviera, hanno appena finito di cenare
quando vedono uscire dall'appartamento del “Comandante” Giuditta
Franzoni, l'infermiera personale che da qualche tempo non abbandona
più di notte il poeta. La sua salute aveva ormai iniziato a
declinare, ma quella sera Giuditta non è particolarmente
preoccupata. Dice semplicemente alle altre che D'Annunzio aveva
appena avuto una crisi e che doveva, di conseguenza, praticargli
un'iniezione. Tutti conoscono ormai le sue condizioni di salute,
anche le sue numerose amanti che pure lui continua a ricevere, grazie
ad un carisma rimasto intatto ed al fascino che esercita il suo mito,
anche se le attende in camicia da notte o nella penombra, per
nascondere il fisico invecchiato. Poco dopo Giuditta entra nuovamente
nell'appartamento per uscirne subito dopo annunciando, laconicamente
a testa basta: “Il Comandante è morto”. A raccontare la
straordinarietà di quella sera è la cremonese Fulvia Tenchini, la
domestica del Vittoriale, una delle sue preferite, originaria di
Volongo. Fulvia sa esattamente cosa fare: si reca nella stanza della
Zambracca, dove D'annunzio ha reclinato la testa sulla scrivania, e,
aiutata da due altre cameriere, lo riveste. Poi, con l'aiuto
dell'autista Guido, depone il corpo del poeta nella camera ardente
che lui stesso aveva già predisposto. Giuditta Franzoni, come
abbiamo visto l'unica presente negli ultimi istanti, racconta il
momento del decesso: “Mi stringe forte la destra, me la fa sbattere
sul tavolo come per dirmi resta qui”. Giuditta è l'infermiera
adibita alla somministrazione dei farmaci. L'altra è Emy Heufler,
cameriera tuttofare ma, secondo altri, un agente segreto al servizio
dei nazisti incaricata di ucciderlo somministrandogli veleno anziché
medicine. D'Annunzio, affetto da una serie di malanni, come piorrea,
emorroidi, emicranie, gastriti, spasmi intestinali ma anche
impotenza, faceva un uso smodato
di stimolanti (come la cocaina), medicinali vari e antidolorifici,
visibili tuttora negli armadietti del Vittoriale. Il ricercatore
Attilio Mazza ha sostenuto che il poeta possa essere morto per
overdose di farmaci, accidentale o volontaria, dopo un periodo di
depressione; all’amica Ines Pradella aveva scritto pochi mesi
prima:“Fiammetta,
oggi patisco uno di quegli accessi di malinconia mortali, che mi
fanno temere di me; poiché è predestinato che io mi uccida. Se
puoi, vieni a sorvegliarmi”.
Il
certificato medico di morte, scritto dal dottor Alberto Cesari,
primario dell’ospedale di Salò, e dal dottor Antonio Duse, medico
curante del poeta, ufficializzò comunque la morte per cause
naturali.
Giordano
Bruno Guerri sostiene che D'Annunzio fosse circondato da donne che lo
accudivano, lo spiavano e se lo contendevano. Erano almeno quattro.
Una di queste era Amélie Mazoyer, conosciuta in Francia quando lei
aveva 24 anni e lui il doppio e che era divenuta di fatto, nonostante
fosse solo una dipendente, una delle sue amanti, anche se non
bellissima. Un'altra era Luisa Baccara, la “Signora del Vittoriale”
che, dopo essere stata sua amante, è rimasta nella villa suonando il
piano per il vate. C'era poi la cameriera Emilia, detta il Caporale,
la fornitrice di cocaina, e la moglie Maria Hardouin
dei duchi di Gallese. Le
donne sono state il suo ultimo tentativo di ingannare la morte, come
negli anni belli erano state oggetto di desiderio, vezzo, vizio,
giocattolo, piacere.
Fulvia
Tenchini servì fedelmente d'Annunzio dal 1933 al 1938 e quella
tragica sera del 1° marzo vestì il corpo ormai inanimato del Poeta.
Nel 1963 raccontò quegli anni trascorsi al Vittoriale e gli ultimi
istanti della vita del vate al giornalista Antonio Leoni, che ne
trasse un ritratto vivo tale da costituire una testimonianza unica da
parte di uno degli ultimi protagonisti ancora viventi di quell'epoca
straordinaria.
La stanza della Zambracca al Vittoriale |
"Nel
1933 – racconta Fulvia - da quando fui assunta passarono quindici
giorni prima che riuscissi a vedere il Comandante. Egli riceveva la
posta, dava gli ordini agli autisti, regolava la sua vita senza
uscire dal proprio appartamento, servendosi della cameriera privata e
non avrebbe mai tollerato una qualsiasi intrusione di altre persone.
Durante la giornata mangiava raramente e soltanto frutta. Il suo
pasto lo compiva verso mezzanotte. Chiamava allora la cameriera
privata che provvedeva... ma non tutte le notti il Comandante
pranzava. A volte passavano persino 48 ore prima che toccasse cibo.
Certo,
noi avvertivamo continuamente la sua presenza. Non tanto perchè egli
la rivelasse con una luce accesa e con uno squillio di campanella,
quanto perchè la si sentiva nell'aria. Ancora oggi non so spiegarmi
come riuscisse a riempire così interamente la villa della sua
presenza... O meglio, ancor oggi non riesco a capire da dove
promanasse una sensazione così violenta di genio e di personalità...
Vede, io sono una donna che ha conosciuto molti ambienti e persone
importanti, ma una sensazione di eroico quale ebbi di fronte a
d'Annunzio non l'ho mai più provata”.
Vivere
al Vittoriale, accanto ad un personaggio così unico ed eccentrico
non è stato semplice e Fulvia così lo ricordava: “Non fu facile,
lo confesso. Si usciva raramente dal Vittoriale e soltanto per
ragioni di servizio. Nella villa eravamo tutti soggiogati dalla sua
presenza. Ricordo che, nei primi giorni, io fui tremendamente colpita
da un fatto. Mi accompagnarono in visita alla Villa e mi condussero
nella Camera Ardente del poeta. Il comandante aveva fatto predisporre
una vasta sala a lutto. Al centro era situato un cofano mortuario molto
semplice, scoperchiato. Nel cofano una maschera del Comandante.
Drappi neri coprivano interamente le pareti, candelieri erano posti
ovunque. Di fronte al sarcofago, il Comandante aveva fatto sistemare
una statua di S. Sebastiano che aveva acquistato a Lisbona. Perchè
era giovane ed eroico. Confesso che per molto tempo, quando dovevo
effettuare le pulizie nella Camera ardente del poeta, mi sentii
tremendamente a disagio...”.
La
Prioria è l’ultima dimora di Gabriele d’Annunzio arredata e
decorata seguendo il suo gusto di “tappezziere incomparabile”:
“Tutto qui mostra le impronte del mio stile nel senso che io voglio
dare al mio stile”. Da una semplice villa colonica, già
appartenuta al critico d’arte tedesco Henry Thode, d’Annunzio
creò una casa museo simbolo del suo “vivere inimitabile”. Nelle
stanze della Prioria sono conservati circa 10.000 oggetti e 33.000
libri, che si abbinano a frasi enigmatiche e motti, leggibili su
architravi e camini, in un gioco continuo di rimandi simbolici.
L’atmosfera di sacralità che si respira all’interno è ampliata
dalla scarsa illuminazione. Vetrate dipinte, finestre con pesanti
tendaggi, luci soffuse nelle stanze, fanno della Prioria un luogo
misterioso e suggestivo in cui il Poeta fotofobico poteva ben vivere.
D’Annunzio pensò e realizzò la villa con grande minuzia di
particolari creando stanze atte a vari momenti di vita: dalla stanza
della Musica in cui amava ascoltare dietro pesanti tendaggi Luisa
Bàccara, sua ultima amante, alla stanza del Lebbroso realizzata come
sua ultima dimora, con il letto simbolico delle due età, alla sua
Officina, lo studio dell’operaio della parola, come era solito
definirsi.
Il Vittoriale |
L'incontro
di Fulvia con Gabriele d'Annunzio fu estremamente semplice. Un giorno
il Comandante uscì dal suo appartamento in compagnia del fido
architetto Carlo Moroni. Le si avvicinò e le disse semplicemente:
“Certo tu non sai quante belle cose ci sono nel Duomo di
Cremona.... Non aggiunse altro, sorrise. Ed io rimasi senza parole e
senza fiato”.
Dopo
questo primo incontro iniziò un periodo in cui i contatti tra il
Comandante e la servitù si intensificarono. Oltre i pranzi ufficiali
le occasioni per incontrare il poeta non mancavano da quando in una
sala della villa venne installata una piccola sala cinematografica.
Due o tre volte alla settimana venivano proiettate le pellicole che
D'Annunzio mandava a noleggiare a Milano e dopo aver visto un film il
vate diventava più affabile e sorridente cosicchè se qualcuno
voleva essere ricevuto, lo doveva chiedere in quel momento, anche se
l'ora magari era tarda.
“Non
era facile parlare con il Comandante- ricorda Fulvia - a volte se ne
stava rinserrato nella sua stanza e non riceveva nessuno. Nessuno
poteva parlagli o disturbarlo. Ricordo che un giorno venne un frate.
Chiese d'esser ricevuto perchè desiderava "convertire
d'Annunzio". Fui io stessa ad annunciarlo al Comandante.
D'Annunzio sorrise: poi mi consegnò un libro sul quale aveva posto
una dedica non proprio adatta alla meditazione mistica... e mi pregò
di congedarlo. Il frate sorrise quando gli consegnai il libro e
promise che sarebbe ritornato. Si fece vedere altre volte, infatti,
al Vittoriale, ma non fu mai ricevuto”.
Alle
numerose donne era riservato lo stesso trattamento: “A volte
dovevano attendere a Gardone intere giornate prima di essere ricevute
dal Comandante, a volte mesi. Ed erano donne bellissime, del gran
mondo” e “non mi accenni a quelle storie del Comandante vestito
da frate...non me ne parli che non ci credo. In cinque anni che io
sono rimasta al Vittoriale, le assicuro che non ho neppure raccolto
l'eco di una simile storia...” L'equivoco deriva forse dal fatto
che il poeta amava farsi chiamare
“Frate
Gabriel priore” e di conseguenza Prioria la sua dimora, anche se il
biografo Giuseppe Grieco sostiene che così agghindato avrebbe
ricevuto le sue amanti. “Ed a quale uomo non piacerebbero le donne
che si videro in quegli anni alla villa di Cargnacco? Erano belle,
splendide dame che gli si offrivano. Caro, credo si siano scritte e
udite troppe fantasie su quest'argomento. Indubbiamente era un
gentiluomo squisito quando si decideva a ricevere. Ordinava che
salisse in villa il quartetto Poltronieri...ma quante volte il
quartetto ha suonato soltanto per una donna e non per il Comandante.
Egli si ritirava spesso nel suo studio, in uno di quei cambiamenti
d'umore terribili e rimaneva a lungo chiuso, per intere giornate. Era
un uomo solo, D'Annunzio. Ho letto su un giornale, in questi giorni,
che le molte donne della sua vita esprimono forse una tendenziale
incapacità di affetto e d'amore. D'Annunzio sapeva amare...ma quale
donna riusci a portarsi ai suoi vertici? Forse soltanto Eleonora
Duse. Ricordo che un giorno portai alla duchessa sua moglie un
barboncino. Era la risposta di D'Annunzio ad una richiesta di
colloquio. Vede duchessa, mi permisi di dire, il Comandante pensa
spesso a lei...e la ricorda. Significa che le vuole bene... Già, mi
vuol bene..., mi rispose la duchessa Maria Harduin e sentii un tono
amaro nella sua voce. Eppure D'Annunzio conservò sempre un ricordo
alto ed incontaminato soltanto per tre donne: Maria Harduin sua
moglie, Eleonora Duse e sua madre. D'Annunzio adorava sua madre.
Conservava un affetto indicibile ed ogni anno, nell'anniversario
della sua morte, il 27 gennaio, egli si chiudeva nelle sue stanze e
non voleva più vedere né ricevere nessuno, neppure la cameriera
privata. Osservava un rigoroso digiuno che durava 48 ore”.
“Durava
a lungo, spesso, questo isolamento di D'Annunzio – prosegue il suo
racconto Fulvia – a volte sino a metà febbraio non usciva dalla
villa. E l'architetto Moroni suo intimo amico, spesso chiedeva di
essere ricevuto, per sollecitarlo a compiere una passeggiata in
automobile lungo la Gardesana, ma vanamente. Negli ultimi anni usciva
pochissimo. Quando doveva recarsi a Verona per effettuare un'ultima
revisione delle bozze e per acquistare il prosciutto di San Daniele,
di cui era ghiotto. In quelle occasioni, si fermava a lungo nella
chiesa di S. Zeno. Usciva dalla villa, poi, nelle notti di luna. Gli
piaceva ammirare la Gardesana ed allora invitava l'autista a
proseguire lentamente; non rimaneva mai fuori troppo, però. Usciva
verso le undici, spesso in compagnia dell'inseparabile Moroni e
rientrava verso l'una per cenare. Diceva che questo viaggio sotto la
luna, in riva al lago, lo riempiva di gioia...”