Nel 1956 Adriano Andrini, ex partigiano
con il nome di battaglia “Primo” e poi “Rino”, dal 1957 al
1961 assessore alle finanze nella giunta comunale del sindaco Arnaldo
Feraboli, fu uno dei primi italiani a mettere piede nel campo di
sterminio di Mauthausen a pochi anni dalla sua chiusura. Ne ricevette
un'impressione fortissima e decise di scrivere alcune note per
lasciare traccia della sua personale esperienza, che poi replicò un
paio d'anni dopo visitando il lager di Auschwitz, ed ancora nel 1961
inviato dal sindaco Vincenzo Vernaschi con il vicesindaco Mario
Coppetti ed il consigliere comunale Marchesini in occasione di un
pellegrinaggio internazionale a Dachau. Di quel viaggio venne
pubblicato nel 1995 un resoconto in un libretto intitolato
“Pellegrini a Dachau”, pubblicato nel 1995. In occasione dei
venticinque anni dalla scomparsa di Andrini, avvenuta il 21 settembre
1991, e dei 60 anni da quel primo viaggio, Mario Coppetti, con
l'aiuto di Giuseppe Azzoni e dei due figli di Andrini, Maurizio e
Gabriele, è riuscito a recuperare anche il dattiloscritto con gli
appunti dei primi due viaggi che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto
costituire un'unica narrazione intitolata “Tre viaggi nel passato”
che Andrini aveva pronto per dare alle stampe, curandone la
pubblicazione. I tre racconti costituiscono una testimonianza
eccezionale e drammatica perchè a guidare i cremonesi nella visita
erano le stesse persone che in quei campi avevano vissuto l'inferno
dello sterminio nazista, accompagnati spesso dall'imbarazzo e dalla
reticenza di chi invece, fino all'ultimo, aveva taciuto. La
descrizione dei campi costituisce il fulcro dei tre racconti, dove in
realtà di è anche molto altro riguardante il contesto storico e
sociale, i compagni di viaggio, le discussioni politiche, la
difficile situazione della Germania e dell'Est europeo postnazista.
Mauthausen |
Apparve il custode, armato di una
grossa chiave con la quale ci aperse il portone, Entrati, ci
guardammo intorno. Il polacco, che era rimasto zitto per alcuni
minuti, ci indicò il punto della muraglia, dove i tedeschi,
all'arrivo, l'avevano obbligato, con gli altri, a denudarsi – era
il febbraio del '45- e, con getti d'acqua gelida, 'disinfestarono i
nuovi arrivari, Alcuni non si rialzarono più. Iniziava lo sterminio.
Vicino al fabbricato del comando spuntavano ancora le bocche di presa
degli idranti, ormai arruginite. Il custode taceva, ma dalle sue
espressioni si capiva che i particolari raccontari dal polacco non
gli andavano a genio, per cui ci stimolava a muoversi indicando le
baracche che si trovavano sulla sinistra del piazzale e ripeteva
«Schnell, schnell». Il polacco lo fulminò con lo sguardo e con
rabbia, in tedesco, lo invitò ad andarsene, la visita la guidava
lui, ne aveva i titoli. Al custode nn restò che tacere e accendersi
il toscano.
Arrivammo alle baracche. Sulla porta di
ognuna un cartoncino descriveva in quattro lingue, inglese, francese,
russo e tedesco, a che cosa era servita e quante persone aveva
ospitato. La prima che visitammo era stata utilizzata come bordello,
le latre, secondo il cartello e la testimonianza del polacco, avevano
ospitato migliaia e migliaia di deportati in un sovraffollamento
inumano e in condizioni igieniche paurose. Sui muri delle baracche,
sui letti a castello si potevano leggere scritte in ogni lingua. I
parenti dei prigionieri, in visita, avevano appeso le fotografie dei
loro cari. Quando il polacco entrò nella baracca che l'aveva
ospitato restò in silenzio per alcuni minuti poi all'amico raccontò
quello che aveva passato lui e gli altri suoi compagni. Dagli
sguardi, dai gesti, dal tono della voce traspariva la sua angoscia.
Avrò avuto quarant0'anni, vestito senza cura, con la barba di
qualche giorno, ma pulito e dignitoso, tratteneva le lacrime. Era
certamente un anticomunista, non tornò in patria, forse non poteva e
non voleva, la sua posizione non era da invidiare, ma andava
rispettata, aveva sofferto e combattuto il nazismo. Ripassammo per il
piazzale dell'appello per raggiungere gli edifici in muratura del
comando dove i deportati venivano eliminati. Nelle cantine,
attraversammo lo spogliatoio che in pratica era l'anticamera della
camera a gas, sulla cui porta di accesso un cartello la indicava con
la scritta 'Desinfektions-raum', camera di disinfezione; varcammo
quella porta e ci trovammo nella camera a gas. Sembrava una doccia
collettiva, dal soffitto pendevano ben allineati i bulbi
bucherellati. Da recluta avevo visto qualcosa del genere nella
caserma di Savigliano.
Il polacco ci indicò dove le SS
avevano sistemato le condutture che immettevano il gas ziklon b nel
camerone. Condutture che le SS prima di fuggire dal lager avevano
fatte togliere da alcuni deportati che, sopravvissuti, testimoniarono
ai processi contro quei criminali di guerra. I cadaveri gasati
venivano trasportati nel vicino crematorium, un grosso stanzone che
sembrava una stalla, e ammucchiati negli stalli laterali. La corsia
centrale veniva lasciata libera per il consentire il transito agli
incaricati alal cremazione di poter operare agevolmente. Il polacco
ci fece notare che l'ultimo forno costruito aveva la bocca della
fornace sul retro per dare modo al fochista di mantenere viva la
fiamma senza infastidire altri. L'efficienza tedesca si manifestava
anche lì e a Berlino arrivavano telegrammi che i camini fumavano
ininterrottamente giorno e notte.
Ci mostrarono celle di punizione, di un
metro per due, senza finestre, con un pertugio da dove passavano al
malcapitato la ciotola con la brodaglia, altre non avevano aperture e
il cibo arrivava da un canaletto e finiva in una specie di trogolo.
Risalimmo al piano terra, in un locale riservato al culto: lo
utilizzavano le SS di fede cattolica o protestante; lo stavano
trasformando. I governi o le associazioni di ex deportati vi avevano
collocato lapidi o cipi lungo le pareti. Gli italiani erano presenti,
i polacchi no. La nostra guida andò su tutte le furie, lanciava
improperi nella sua lingua, l'amico che aveva sempre taciuto lo
aiutò. La visita stava terminando, il custode e il polacco avevano
fatto pace scambiandosi un toscanello. Il custode, dopo averci fatto
uscire dal Konzentrationslager, richiuse il portone e ci guidò in un
fabbricato dietro la portineria. Entrammo in un grande salone dove
sopra letti a castello di tre piani c'erano numerose bare, sul tipo
di quelle che vengono usate per le salme dei bambini. Ne scoperchiò
una. Conteneva uno scheletro umano, diviso in tre tronconi. Le casse
venivano offerte a parenti che avevano avuto un congiunto morto nel
lager e che piuttosto di niente si accontentavano di portarsi a casa
i resti di un deportato ignoto. Senza formalità veniva inchiodata
sulla cassa una targhetta con le generalità dettate dai parenti.
Un incaricato del Municipio comprovava
che si trattavadelle ossa di un deportaro deceduto a Mauthausen. Ai
passaggi di frontiera nessuno sollevava obiezioni. Il luogo di
provenienza inteneriva il cuore del più duro dei doganieri. Se le
richieste di resti di deportati venivano fatte da Enti e Associazioni
legalmente riconosciuti, dal lager effettuavano spedizioni a
domicilio. Mentre gli altri chiacchieravano, io curiosavo. Mi trovai
di fronte a una porta con i vetri smerigliati, era chiusa, ma la
chiave era nella toppa. Aprii e rimasi sbalordito. Nel salone avevano
accatastato scheletri umani, in alcuni punti il mucchio toccava il
soffitto. Chiamai gli altri. Il custode intuì quell che avevo visto
e mi lanciò una imprecazione gridando «Nein, nein», precipitandosi
alla porta che avevo lasciata aperta, la chiuse e ripetè più volte
«verboten».
Il polacco parlottò con il custode e
alla fine ci fece entrare. Anche loro restarono senza fiato. Secondo
il custode le ossa erano di internati seppelliti nelle fose comuni
dalle ss e di latri non cremati. Al loro arrivo gli americani
ordinarono la chiusura dei forni e i cadaveri vennero sepolti in
fosse comuni, Anche i giorni della Liberazione, secondo il polacco,
si trasformarono in tragedia. I liberatori, vista tutta quella gente
macilenta e denutrita, distribuirono cibo in abbondanza, pochi si
controllarono, la maggior parte mangiò troppo e morì di dissenteria
e d'altro. Nella strada che scendeva e nelle vie del paese i cadaveri
degli internati si contavano a centinaia. Il comandante americano
mobilitò tutta la popolazione abile per il ricupero delle salme:
temeva un'epidemia e voleva anche che gli abitanti vedessero quello
che era accaduto sulle loro teste. Fra questi scheletri vi erano
anche quelli deceduti nei primi giorni di libertà. Vicino alla
porta, appoggiati alla parete, vi erano dei tavoloni sgombri, chiesi
la custode a che servivano. «Ad un gruppo di medici che cercano di
ricomporre gli scheletri in base alla statura e al sesso», rispose
il custode. In quei giorni i medici nin lavoravano per la mancanza di
casse”.
Auschwitz |
AUSCHWITZ
“Entrammo in una grande sala, le
pareti erano coperte da liste di nominativi delle vittime delle quali
era stato possibile accertare l'identità, compito che non fu facile,
in quanto, secondo il fondatore del campo, Haupsturmfüher delle SS,
Rudolf Franz Ferdinand Hoss, in quel lager vi trovarono la morte
3.000.000 (tre milioni) di persone delle quali 2.500.000 (due milioni
e cinquecentomila) passati per le camere a gas. Fu lo stesso Hoss a
dichiarare che dal 1943 ad Auschwitz fu possibile gassare
giornalmente 10.000 (diecimila) internati. Anche 70.000 prigionieri
russi vennero eliminati nello stesso modo...Il custode ci fece
entrare in capannoni dove si vedevano ammucchiati abiti da uomo e da
donna, scarpe, pennelli da barba, occhiali, spazzolini da denti,
utensili da cucina di ogni specie e persino arti artificiali. I
tedeschi avevano costruito appositi edifici per custodire tutti gli
effetti personali che confiscavano agli internati. I prigionieri
all'arrivo venivano dotati di una divisa e classificati con un numero
cucito sulla casacca, ma dal 1942 glielo tatuavano sull'avambraccio.
Anche lì come negli altri lager venivano usati distintivi speciali.
Un triangolo rosso per i politici, verde per i delinquenti comuni,
rosa per gli omosessuali, nero per le prostitute e le pervertite, e
violetto per i preti. Gli ebrei portavano la stella di David e dopo
il 1943 una striscia gialla sopra il triangolo. Compresi dai gesti e
dalle parole in francese e tedesco del custode e del tassistache
gl'internati non venivano sterminati soltanto con il gas. Li
fucilavano e li uccidevano con il colpo alle nuca (Genickhuss). Il
medico Endredd, Obersturmführer delle ss, uccise 25.000 prigionieri
praticando iniezioni di fenolo. Avevo letto da qualche parte che un
certo Fritsch, assistente del campo, diceva ad ogni gruppo in arrivo
al lagerla seguente frase: «Vi avverto che non siete venuti in
ospedale, ma in un campo di concentramento tedesco, dal quale non si
esce se non per il camino». Purtroppo era proprio così”.
Avviso di pericolo ad Auchwitz |
DACHAU
“Le strutture interne per gli ex
deportati erano irriconoscibili. Alla fine del conflitto avevano
subito modifiche. Prima i locali vennero trasformati dagli alleati in
prigioni per i criminali, in attesa di processo, e naturalmente essi
vollero dare una lezione di civiltà ai tedeschi, ospitandoli in
ambienti civili: celle pulite, spaziose, ben areate, luce,
riscaldamento, acqua calda e fredda, un letto, un tavolo, una sedia,
libri, vitto caldo e abbondante. Non tutti gli ex deportati
apprezzarono la lezione degli alleati. Non avevano ancora dimenticato
il trattamento avuto dai nazisti. Poi, ultimati i processi, i locali
vennero utilizzati come uffici dal personale che smistava i profughi
della Germania orientale. Quanto prima – ci dissero – questi
ambienti saranno adibiti a museo del lager, ilcui allestimento è già
in corso. La guida ci spiegava quali erano le costruzioni iniziate
nel 1933, immediatamente dopo la presa del potere da parte di Hitler
e i successivi ampliamenti. I nemici del nazismo erano in costante
aumento e quindi occorrevano 'Konzentrationslager' sempre più vasti
e numerosi. E così, in Germania e nel resto d'Europa, la loro rete
si estese paurosamente. Arrivammo nella parte del lager dove gli
internati venivano eliminati. Ci mostrarono celle per la tortura e la
punizione, po un grande salone, apparentemente uno spogliatoio,
confinante con un aòtro salone: una doccia collettiva che, come
ormai sappiamo, non era altro che la camera a gas, in un locale
attiguo molto vasto il solito deposito per i cadaveri e sul fondo i
forni crematori. Nel nostro gruppo un ex deportato, in casacca sulla
quale spiccava il triangolo nero degli asociali, ci fece da guida.
Durante gli ultimi mesi della
detenzione l'avevano destinato a trasportare i 'gassati' dalle docce*
all'adiacente crematorio, e lui ci descrisse nei particolari il suo
lavoro. Per essere il più preciso utilizzò una barella di ferro con
le rotelle che si trovava presso i forni. Nel muro divisorio tra lo
spogliatoio e il crematorio esisteva un pertugio dal quale un 'kapò'
appositamente incaricato spiava che nelle docce avvenisse tutto
regolarmente. Ad ogni turno il numero delle vittime del gas si
aggirava sulle centocinquanta persone. Una volta accertato che il gas
venefico aveva fatto effetto, metteva in funzione un aspiratore e
quando l'aria si era purificata impartiva l'ordine di trasportare i
morti negli stalli laterali del crematorio.
L'”asociale” andò avanti e
indietro un paio di volte tra le docce e il crematorio, per
dimostrarci come venivano accatastai i cadaveri. Tutto d'una tratto
proruppe in singhiozzi, si rimproverava di esseri salvato maneggiando
i cadaveri dei suoi compagni di sventura. Anche lì come a Mauthausen
l'ultimo forno aveva la fornace sul retro. Passammo in un latro
locale nel quale c'era una macinatrice che triturava ossa, e il cui
macinato, mescolato con la cenere dei corpi cremati, diventava un
fertilizzante che i contadini spargevano nei terreni delle fattorie
adiacenti al lager. Finalmente risalimmo alla luce del sole, proprio
nei pressi del doppio recinto, quello che allora proteggeva il cuore
del campo e nei cui reticolati immettevano l'alta tensione. I
racconti tragici non erano ancora terminati. Alcuni presenti
ricordavano di aver visto compagni ormai senza alcuna speranza
gettarsi contro la rete del recinto e restare fulminati
La visita stava finendo, a gruppi ci si
dirigeva verso l'uscita, noi tre, assieme ad uno che parlava tedesco,
andammo alle baracche, volevamo sapere da chi erano occupate. Si
trattava i profughi dell'est in attesa di una sistemazione con casa e
lavoro, sistemazione che era stata loro promessa. Non eran entusiasti
di vivere lì, in un affollamento eccessivo, si lamentavano anche del
clima, o troppo caldo o troppo freddo, sembravano pentiti di avere
scelto la libertà”
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