lunedì 23 novembre 2015

Si fa presto a dire polenta


Questo grano è molto migliore et più nutritivo che non è il miglio, et rende più farina che non fa il formento. Et è buono e saporoso pane, o semplice, o misturato, et composto con formento fa perfetto biscotto, fa bonissima polenta, et infine si gode in qualunque modo si voglia”.
E’ il 1556 quando il nobile cremonese Giovanni Lamo in una lettera al Granduca di Toscana, offrendogli una partita di semi di mais perchè potesse iniziarne la coltivazione nei territori medicei, parla per la prima volta della possibilità di realizzare la polenta e dimostra come il nostro cereale fosse più diffuso nelle nostre zone di quanto possano documentare le testimonianze storiche.
Lamo è in assoluto il primo che consiglia di utilizzare il mais per fare la polenta, sfatando un luogo comune. Nell’Italia del primo ‘500 il mais era conosciuto tra i letterati e botanici, soltanto però come specie coltivata negli orti o nei giardini di facoltosi interessati a specie esotiche.
Prima prova della coltivazione del mais in Italia a scopo alimentare ci viene data da Giambattista Ramusio, tramite una pubblicazione risalente al 1554, dove descrive il recente tentativo sperimentale della coltivazione di mais, precisamente di due varietà, una a pigmentazione bianca e una a pigmentazione rossa, nel Polesine di Rovigo e a Villabona (attualmente Villa d’Adige), Verona, Veneto.
La pianta di mais in un'antica incisione

“La mirabile et famosa semenza detta mahiz ne l’Indie occidentali, della quale si nutrisce metà del mondo, i Portoghesi la chiamano miglio zaburro, del qual n’è venuto già in Italia di colore bianco et rosso, et sopra il Polesene de Rhoigo et Villa bona seminano i campi intieri de ambedue i colori”.
Lungo le terre bagnate dal Po il mais venne introdotto semplicemente come sostituto del sorgo, a cui somigliava sia per la forma degli steli, che per la predilezione per i luoghi umidi, per i tempi e le tecniche di semina, sarchiatura e raccolta.
Ed accanto al sorgo, il miglio, che però, insieme al precedente era ritenuto dai proprietari una coltura che impoveriva il terreno e quindi da tenere sotto controllo. Miglio e sorgo erano generalmente utilizzati per l’alimentazione del bestiame da cortile, maiali e colombi, tuttavia in tempi di carestia non è raro che sia sorgo che miglio venissero impiegati anche nell’alimentazione umana.
Il bolognese Pier Crescenzi, che scrive nel 1564, conferma che il sorgo era adatto per l’alimentazione di porci, buoi e cavalli, ma anche per gli uomini in particolari necessità. Se il pane ottenuto macinando questi due cereali era ritenuto quanto di più miserabile esistesse per l’alimentazione umana, non così era per le polente, o meglio polentazze, come erano chiamate. Ed anche questo fu un elemento che favorì la sostituzione alimentare del mais al miglio.
L’uso delle farine di granoturco per fare polenta rappresentava per le popolazioni contadine l’impiego più pratico e conveniente, oltre che il più indicato, e così, come nei campi, il mais finì per sostituire il miglio come ingrediente base per la polenta, cibo, come vedremo, antichissimo per le popolazioni europee.
La polenta di miglio e di altri cereali, fino all’arrivo del mais, era cibo comune e quotidiano soprattutto fra pastori, mandriani, taglialegna e carbonai, categorie di lavoratori molto misere ma soprattutto caratterizzate dal fatto di risiedere in ricoveri precari, che cambiavano in continuazione e dunque non adatti all’attività di panificazione.
La polenta, dunque, era innanzi tutto un sistema molto semplice e rapido di preparazione dei cereali per l’alimentazione.
Nel XVI secolo, secondo quanto afferma l’agronomo padovano Giorgio Dalla Torre, i contadini padovani avevano ormai abbandonato la tradizionale polenta di miglio a favore di un’altra polenta di mais “quae laevissimo labore et brevi tempore confecta”.
In secondo luogo bisogna anche ricordare che il mais, così come il miglio e il sorgo, fornisce un pane di cattiva qualità e tutti i tentativi fatti dalle amministrazioni annonarie per impiegare il mais per la fabbricazione del pane per la popolazione più misera avevano dati scarsi risultati, essendo la farina di mais molto incoerente, tanto che occorreva aggiungere all’impasto farina di frumento o di segale.
Come tutti sanno l’introduzione del mais in Europa è dovuta a Cristoforo Colombo. Fin dai suoi primi viaggi esplorativi, esattamente sull’isola di Cuba il 6 novembre 1492, Colombo conobbe il mais chiamato dagli indigeni dell’isola “Mahiz” e ne riconobbe subito il ruolo primario nella coltura locale. Al suo rientro in Spagna, nel 1493, Colombo portò con sé oltre a beni preziosi (oro, ambra, ecc.) il mais, come riportato nello scritto Vita di Cristoforo Colombo attribuibile a Ferdinando suo figlio. La nuova specie attirò da subito l’attenzione in Castiglia, dove si tentò la sua coltivazione, ma probabilmente le prime coltivazioni non ebbero grande successo, non riuscendo a portare a termine il ciclo di maturazione della spiga e quindi della granella. Questo fatto probabilmente fu dovuto all’origine dei campioni di mais giunti nel vecchio mondo, provenienti da isole tropicali, dove la specie è ben adattata a fotoperiodi lunghi, al contrario dell’areale Iberico e più in generale quello europeo caratterizzato da fotoperiodo più breve, nei quali il ciclo biologico del mais o di altre specie importate non poteva essere completato. L’impossibilità di portare a termine il ciclo biologico rallenterà l’utilizzo agrario del mais in Europa, ma non la sua scoperta: di fatto compare già negli anni successivi in Portogallo sotto il regno di Re Giovanni II (1481-1495), e si suppone che fosse stato proprio lo stesso Colombo a farlo conoscere ai Portoghesi.

Il mais, come conferma anche il Lamo, è legata la polenta. Ed è ancora un cremonese, Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, che ne parla nel 1480, trascrivendo in latino tutte le ricette, originariamente scritte in lingua volgare, di maestro Martino, il più celebre cuoco della fine del Medioevo.
Il Platina ribattezza con il termine “polenta” “sive ut vulgo miliacium” un migliaccio, volendo indicare sia un cereale sfarinato, sia la pappa che con lo stesso cereale si preparava con procedure diverse da quelle indicate per i migliacci.
Secondo lo stesso Plinio, la polenta non è altro che una mistura di 20 libbre d’orzo, 3 libbre di semi di lino, mezza libbra di semi di coriandolo e un acetabolo di sale. Il tutto poi viene abbrustolito e macinato piuttosto grossolanamente, secondo il gusto dei Greci, o finemente, come preferiscono le popolazioni italiche.
“Polenta” è infatti il nome con cui gli antichi Romani hanno ribattezzato un piatto introdotto dalla Grecia che lo chiamava chòndros e indicava sia l’ingrediente di base (ossia la farina di orzo abbrustolita), sia la farinata che se ne otteneva. Nicandro di Colofone (II sec. a.C.) prescriveva di cuocere il cruschello tostato nel brodo con l’olio, facendolo ben gonfiare, e di servirlo con carni d’agnello, di capretto o di pollo, secondo quanto riporta Ateneo di Naucrati.
Il chòndros si consumava spesso crudo, diluito con acqua o anche con sapa, vino dolce o vino mielato; Galeno ne consigliava l’assunzione specialmente d’estate come bevanda dissetante e nelle Metamorfosi di Ovidio (V, 449-450) troviamo che Proserpina, assetata, beve una bevanda dolce, offertale da un’anziana donna, preparata con polenta appena tostata.
La stessa attitudine a fare da sorbetto la ritroviamo nel savich degli arabi, il quale, secondo Ibn Butlan è farina d’orzo moderatamente torrefatta e il più possibile raffinata che si diluisce con acqua e si beve d’estate per rinfrescarsi. Secondo altri, in particolare Simone da Genova, il savich è da intendersi come orzo raccolto poco prima che maturi, leggermente torrefatto in pentole di bronzo o di terracotta, poi trebbiato dai residui di glume e cuticole e macinato grossolanamente.
Bartolomeo Sacchi nell'affresco di Melozzo da Forlì
Si tratta pertanto di un prodotto antico, fatto risalire al tempo di Alessandro Magno e molto diffuso nel Medio Oriente mediterraneo, in quanto cibo raccomandato ai viaggiatori e ai soldati. Citato in tutte le opere di medicina, compare abbastanza raramente nei ricettari di cucina e comunque non oltre il X secolo. Si può preparare sia con il frumento, sia con l’orzo, a seconda delle possibilità del consumatore. I grani venivano lavati, poi messi a macerare nell’acqua per una notte; poi venivano scolati e tostati. Una volta freddo, il savich veniva macinato e setacciato; solo così si poteva conservare per lungo tempo.
Come si è già detto il Platina, nella sua latinizzazione piuttosto libera del testo di Maestro Martino, usa il termine polenta per descrivere un migliaccio, riferendosi evidentemente ad un uso ormai consolidato di cucinare la polenta con il miglio.
Per il resto, polenta è una parola abbastanza ignorata dalla cucina dei ricettari, per quanto fosse presente in quella rustica, tanto da diventare simbolo di un regime alimentare coscientemente povero. L’ingrediente principale, prima dell’introduzione del mais, era il miglio.

Le polente, intese in senso generico, sono senza data, e le modalità di base della loro preparazione rimangano sostanzialmente le stesse: la cottura in acqua di cereali ridotti in polvere. Innanzi tutto il temine “polenta” non ha nessuna etimologia.
Conosciuta già dai Greci e dai Romani,  conserva nel suo nome la sua origine latina, puls. La polenta allora era fatta con il farro, una specie di riso dal chicco duro, ma non aveva la consistenza della polenta di mais. Si condiva con latte, formaggio, carne di agnello, maiale e salsa acida ed  era conosciuta in tutta l’area mediterranea. Famose sono le polentine tramandataci nelle ricette di Plinio e Apicio, vecchie più di due millenni. Ricette di polenta di castagne, di miglio e polente di spelta ci sono state lasciate da Maestro Martino da Como, cuoco del Patriarca di Aquileia (XV secolo). Nel De honesta voluptate et valetudine dello scrittore Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, alla fine del XV secolo,  ritroviamo la polenta di farro.
Il banchetto nuziale, di Pieter Brueghel il Vecchio

I legionari romani portavano con sé un sacchetto di farina di farro che cucinavano sotto forma di polenta. Oggi quando parliamo di polenta intendiamo un impasto di farina di mais. Ed anche per questo nuovo cibo dobbiamo ringraziare Cristoforo Colombo che, al ritorno dal primo viaggio nel Nuovo Continente, portò con se alcuni semi di una pianta chiamata mahiz (grani d’oro, dal nome indigeno deriva anche il nome botanico della pianta, Zea mays). Alcuni reperti paleobotanici hanno permesso di stabilire che il mais veniva coltivato da almeno 3000 anni in varietà simili a quelle contemporanee ed era sicuramente conosciuto da Maya e Aztechi.Le prime coltivazioni si diffusero in Europa trent’anni dopo la scoperta dell’America, in Andalusia introdotte dagli Arabi che lo impiegavano come foraggio; verso il 1520 la coltivazione si diffonde in Portogallo, di seguito in Francia e nell’Italia del Nord. Tra il 1530 ed il 1540 arriva a Venezia. Inizialmente veniva coltivato a scopo di studio in orti e giardini di appassionati botanici, ma la prima regione italiana a coltivarlo in campi veri e propri fu il Veneto, dove venne introdotto prima del 1550, secondo quanto afferma  Ramusio, storiografo e geografo al servizio della  Serenissima.Dal Veneto, il mais si diffuse in Friuli, dove la sua presenza e’ documentata dal 1580, quindi nel bergamasco. A Milano, una grida del 1649 dispone l’apertura del mercato alla vendita del mais per contrastare la penuria di altri grani. Da qui ha proseguito verso l’attuale Ungheria del Sud e la penisola Balcanica.I veneziani lo trasportarono nel vicino oriente durante i loro viaggi, mentre gli spagnoli contribuirono alla diffusione del bacino del Mediterraneo ed in Asia; i portoghesi lo introdussero in Africa. Il mais venne chiamato grano turco per indicare la sua origine straniera, infatti con il termine turco nel XVI secolo si identificava tutto ciò che aveva origini coloniali. In Piemonte si diffuse a metà del ‘700 e da subito andò ad occupare un posto di rilievo nella cucina locale.
Dopo aver incuriosito i raffinati palati del signori dell’epoca, la polenta fu presto bandita e divenne il cibo della dieta delle classi meno abbienti. All’inizio dell’Ottocento, periodo di guerre e carestie, fu il piatto più consumato dai contadini, spesso del tutto scondito, perché costava meno del pane e riempiva la pancia. Ma era un cibo povero carente in principi nutritivi, soprattutto di vitamine e fu la causa del diffondersi della pellagra, che divenne in breve una piaga sociale. Tale patologia comparve per la prima volta in una monografia italiana del 1771 che ne descriveva la diffusione proprio fra i mezzadri che vivevano di polenta. La malattia non era conosciuta dagli indigeni d’America perchè usavano trattare il cereale con sostanze alcaline.

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