Questo grano è molto migliore et più
nutritivo che non è il miglio, et rende più farina che non fa il
formento. Et è buono e saporoso pane, o semplice, o misturato, et
composto con formento fa perfetto biscotto, fa bonissima polenta, et
infine si gode in qualunque modo si voglia”.
E’ il 1556 quando il nobile cremonese
Giovanni Lamo in una lettera al Granduca di Toscana, offrendogli una
partita di semi di mais perchè potesse iniziarne la coltivazione nei
territori medicei, parla per la prima volta della possibilità di
realizzare la polenta e dimostra come il nostro cereale fosse più
diffuso nelle nostre zone di quanto possano documentare le
testimonianze storiche.
Lamo è in assoluto il primo che
consiglia di utilizzare il mais per fare la polenta, sfatando un
luogo comune. Nell’Italia del primo ‘500 il mais era conosciuto
tra i letterati e botanici, soltanto però come specie coltivata
negli orti o nei giardini di facoltosi interessati a specie esotiche.
Prima prova della coltivazione del mais
in Italia a scopo alimentare ci viene data da Giambattista Ramusio,
tramite una pubblicazione risalente al 1554, dove descrive il recente
tentativo sperimentale della coltivazione di mais, precisamente di
due varietà, una a pigmentazione bianca e una a pigmentazione rossa,
nel Polesine di Rovigo e a Villabona (attualmente Villa d’Adige),
Verona, Veneto.
La pianta di mais in un'antica incisione |
“La mirabile et famosa semenza detta
mahiz ne l’Indie occidentali, della quale si nutrisce metà del
mondo, i Portoghesi la chiamano miglio zaburro, del qual n’è
venuto già in Italia di colore bianco et rosso, et sopra il Polesene
de Rhoigo et Villa bona seminano i campi intieri de ambedue i
colori”.
Lungo le terre bagnate dal Po il mais
venne introdotto semplicemente come sostituto del sorgo, a cui
somigliava sia per la forma degli steli, che per la predilezione per
i luoghi umidi, per i tempi e le tecniche di semina, sarchiatura e
raccolta.
Ed accanto al sorgo, il miglio, che
però, insieme al precedente era ritenuto dai proprietari una coltura
che impoveriva il terreno e quindi da tenere sotto controllo. Miglio
e sorgo erano generalmente utilizzati per l’alimentazione del
bestiame da cortile, maiali e colombi, tuttavia in tempi di carestia
non è raro che sia sorgo che miglio venissero impiegati anche
nell’alimentazione umana.
Il bolognese Pier Crescenzi, che scrive
nel 1564, conferma che il sorgo era adatto per l’alimentazione di
porci, buoi e cavalli, ma anche per gli uomini in particolari
necessità. Se il pane ottenuto macinando questi due cereali era
ritenuto quanto di più miserabile esistesse per l’alimentazione
umana, non così era per le polente, o meglio polentazze, come erano
chiamate. Ed anche questo fu un elemento che favorì la sostituzione
alimentare del mais al miglio.
L’uso delle farine di granoturco per
fare polenta rappresentava per le popolazioni contadine l’impiego
più pratico e conveniente, oltre che il più indicato, e così, come
nei campi, il mais finì per sostituire il miglio come ingrediente
base per la polenta, cibo, come vedremo, antichissimo per le
popolazioni europee.
La polenta di miglio e di altri
cereali, fino all’arrivo del mais, era cibo comune e quotidiano
soprattutto fra pastori, mandriani, taglialegna e carbonai, categorie
di lavoratori molto misere ma soprattutto caratterizzate dal fatto di
risiedere in ricoveri precari, che cambiavano in continuazione e
dunque non adatti all’attività di panificazione.
La polenta, dunque, era innanzi tutto
un sistema molto semplice e rapido di preparazione dei cereali per
l’alimentazione.
Nel XVI secolo, secondo quanto afferma
l’agronomo padovano Giorgio Dalla Torre, i contadini padovani
avevano ormai abbandonato la tradizionale polenta di miglio a favore
di un’altra polenta di mais “quae laevissimo labore et brevi
tempore confecta”.
In secondo luogo bisogna anche
ricordare che il mais, così come il miglio e il sorgo, fornisce un
pane di cattiva qualità e tutti i tentativi fatti dalle
amministrazioni annonarie per impiegare il mais per la fabbricazione
del pane per la popolazione più misera avevano dati scarsi
risultati, essendo la farina di mais molto incoerente, tanto che
occorreva aggiungere all’impasto farina di frumento o di segale.
Come tutti sanno l’introduzione del
mais in Europa è dovuta a Cristoforo Colombo. Fin dai suoi primi
viaggi esplorativi, esattamente sull’isola di Cuba il 6 novembre
1492, Colombo conobbe il mais chiamato dagli indigeni dell’isola
“Mahiz” e ne riconobbe subito il ruolo primario nella coltura
locale. Al suo rientro in Spagna, nel 1493, Colombo portò con sé
oltre a beni preziosi (oro, ambra, ecc.) il mais, come riportato
nello scritto Vita di Cristoforo Colombo attribuibile a Ferdinando
suo figlio. La nuova specie attirò da subito l’attenzione in
Castiglia, dove si tentò la sua coltivazione, ma probabilmente le
prime coltivazioni non ebbero grande successo, non riuscendo a
portare a termine il ciclo di maturazione della spiga e quindi della
granella. Questo fatto probabilmente fu dovuto all’origine dei
campioni di mais giunti nel vecchio mondo, provenienti da isole
tropicali, dove la specie è ben adattata a fotoperiodi lunghi, al
contrario dell’areale Iberico e più in generale quello europeo
caratterizzato da fotoperiodo più breve, nei quali il ciclo
biologico del mais o di altre specie importate non poteva essere
completato. L’impossibilità di portare a termine il ciclo
biologico rallenterà l’utilizzo agrario del mais in Europa, ma non
la sua scoperta: di fatto compare già negli anni successivi in
Portogallo sotto il regno di Re Giovanni II (1481-1495), e si suppone
che fosse stato proprio lo stesso Colombo a farlo conoscere ai
Portoghesi.
Il mais, come conferma anche il Lamo, è
legata la polenta. Ed è ancora un cremonese, Bartolomeo Sacchi,
detto il Platina, che ne parla nel 1480, trascrivendo in latino tutte
le ricette, originariamente scritte in lingua volgare, di maestro
Martino, il più celebre cuoco della fine del Medioevo.
Il Platina ribattezza con il termine
“polenta” “sive ut vulgo miliacium” un migliaccio, volendo
indicare sia un cereale sfarinato, sia la pappa che con lo stesso
cereale si preparava con procedure diverse da quelle indicate per i
migliacci.
Secondo lo stesso Plinio, la polenta
non è altro che una mistura di 20 libbre d’orzo, 3 libbre di semi
di lino, mezza libbra di semi di coriandolo e un acetabolo di sale.
Il tutto poi viene abbrustolito e macinato piuttosto grossolanamente,
secondo il gusto dei Greci, o finemente, come preferiscono le
popolazioni italiche.
“Polenta” è infatti il nome con
cui gli antichi Romani hanno ribattezzato un piatto introdotto dalla
Grecia che lo chiamava chòndros e indicava sia l’ingrediente di
base (ossia la farina di orzo abbrustolita), sia la farinata che se
ne otteneva. Nicandro di Colofone (II sec. a.C.) prescriveva di
cuocere il cruschello tostato nel brodo con l’olio, facendolo ben
gonfiare, e di servirlo con carni d’agnello, di capretto o di
pollo, secondo quanto riporta Ateneo di Naucrati.
Il chòndros si consumava spesso crudo,
diluito con acqua o anche con sapa, vino dolce o vino mielato; Galeno
ne consigliava l’assunzione specialmente d’estate come bevanda
dissetante e nelle Metamorfosi di Ovidio (V, 449-450) troviamo che
Proserpina, assetata, beve una bevanda dolce, offertale da un’anziana
donna, preparata con polenta appena tostata.
La stessa attitudine a fare da sorbetto
la ritroviamo nel savich degli arabi, il quale, secondo Ibn Butlan è
farina d’orzo moderatamente torrefatta e il più possibile
raffinata che si diluisce con acqua e si beve d’estate per
rinfrescarsi. Secondo altri, in particolare Simone da Genova, il
savich è da intendersi come orzo raccolto poco prima che maturi,
leggermente torrefatto in pentole di bronzo o di terracotta, poi
trebbiato dai residui di glume e cuticole e macinato grossolanamente.
Bartolomeo Sacchi nell'affresco di Melozzo da Forlì |
Si tratta pertanto di un prodotto
antico, fatto risalire al tempo di Alessandro Magno e molto diffuso
nel Medio Oriente mediterraneo, in quanto cibo raccomandato ai
viaggiatori e ai soldati. Citato in tutte le opere di medicina,
compare abbastanza raramente nei ricettari di cucina e comunque non
oltre il X secolo. Si può preparare sia con il frumento, sia con
l’orzo, a seconda delle possibilità del consumatore. I grani
venivano lavati, poi messi a macerare nell’acqua per una notte; poi
venivano scolati e tostati. Una volta freddo, il savich veniva
macinato e setacciato; solo così si poteva conservare per lungo
tempo.
Come si è già detto il Platina, nella
sua latinizzazione piuttosto libera del testo di Maestro Martino, usa
il termine polenta per descrivere un migliaccio, riferendosi
evidentemente ad un uso ormai consolidato di cucinare la polenta con
il miglio.
Per il resto, polenta è una parola
abbastanza ignorata dalla cucina dei ricettari, per quanto fosse
presente in quella rustica, tanto da diventare simbolo di un regime
alimentare coscientemente povero. L’ingrediente principale, prima
dell’introduzione del mais, era il miglio.
Le polente, intese in senso generico,
sono senza data, e le modalità di base della loro preparazione
rimangano sostanzialmente le stesse: la cottura in acqua di cereali
ridotti in polvere. Innanzi tutto il temine “polenta” non ha
nessuna etimologia.
Conosciuta già dai Greci e dai Romani,
conserva nel suo nome la sua origine latina, puls. La polenta
allora era fatta con il farro, una specie di riso dal chicco duro, ma
non aveva la consistenza della polenta di mais. Si condiva con latte,
formaggio, carne di agnello, maiale e salsa acida ed era
conosciuta in tutta l’area mediterranea. Famose sono le polentine
tramandataci nelle ricette di Plinio e Apicio, vecchie più di due
millenni. Ricette di polenta di castagne, di miglio e polente di
spelta ci sono state lasciate da Maestro Martino da Como, cuoco del
Patriarca di Aquileia (XV secolo). Nel De honesta voluptate et
valetudine dello scrittore Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, alla
fine del XV secolo, ritroviamo la polenta di farro.
Il banchetto nuziale, di Pieter Brueghel il Vecchio |
I legionari romani portavano con sé un
sacchetto di farina di farro che cucinavano sotto forma di
polenta. Oggi quando parliamo di polenta intendiamo un impasto
di farina di mais. Ed anche per questo nuovo cibo dobbiamo
ringraziare Cristoforo Colombo che, al ritorno dal primo viaggio nel
Nuovo Continente, portò con se alcuni semi di una pianta chiamata
mahiz (grani d’oro, dal nome indigeno deriva anche il nome botanico
della pianta, Zea mays). Alcuni reperti paleobotanici hanno permesso
di stabilire che il mais veniva coltivato da almeno 3000 anni in
varietà simili a quelle contemporanee ed era sicuramente conosciuto
da Maya e Aztechi.Le prime coltivazioni si diffusero in Europa
trent’anni dopo la scoperta dell’America, in Andalusia introdotte
dagli Arabi che lo impiegavano come foraggio; verso il 1520 la
coltivazione si diffonde in Portogallo, di seguito in Francia e
nell’Italia del Nord. Tra il 1530 ed il 1540 arriva a Venezia.
Inizialmente veniva coltivato a scopo di studio in orti e giardini di
appassionati botanici, ma la prima regione italiana a coltivarlo in
campi veri e propri fu il Veneto, dove venne introdotto prima del
1550, secondo quanto afferma Ramusio, storiografo e geografo al
servizio della Serenissima.Dal Veneto, il mais si diffuse in
Friuli, dove la sua presenza e’ documentata dal 1580, quindi nel
bergamasco. A Milano, una grida del 1649 dispone l’apertura del
mercato alla vendita del mais per contrastare la penuria di altri
grani. Da qui ha proseguito verso l’attuale Ungheria del Sud e la
penisola Balcanica.I veneziani lo trasportarono nel vicino oriente
durante i loro viaggi, mentre gli spagnoli contribuirono alla
diffusione del bacino del Mediterraneo ed in Asia; i portoghesi lo
introdussero in Africa. Il mais venne chiamato grano turco per
indicare la sua origine straniera, infatti con il termine turco nel
XVI secolo si identificava tutto ciò che aveva origini coloniali. In
Piemonte si diffuse a metà del ‘700 e da subito andò ad occupare
un posto di rilievo nella cucina locale.
Dopo aver incuriosito i raffinati
palati del signori dell’epoca, la polenta fu presto bandita e
divenne il cibo della dieta delle classi meno abbienti. All’inizio
dell’Ottocento, periodo di guerre e carestie, fu il piatto più
consumato dai contadini, spesso del tutto scondito, perché costava
meno del pane e riempiva la pancia. Ma era un cibo povero carente in
principi nutritivi, soprattutto di vitamine e fu la causa del
diffondersi della pellagra, che divenne in breve una piaga sociale.
Tale patologia comparve per la prima volta in una monografia italiana
del 1771 che ne descriveva la diffusione proprio fra i mezzadri che
vivevano di polenta. La malattia non era conosciuta dagli indigeni
d’America perchè usavano trattare il cereale con sostanze
alcaline.
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