A nulla valgono le giustificazioni di
Federico, il 29 settembre arriva inflessibile la scomunica del Papa.
A Federico non resta altro da fare che chiamare in aiuto il suo
medico di corte, Adamo da Cremona, “cantor ecclesiae”. Il suo
manuale “Regimen iter agentium vel peregrinatium” indirizzato a
chi intendesse dedicarsi “ad liberandam terram sanctam de manis
inimicorum” costituisce la prima guida pratica di precetti igienici
ad uso non soltanto del pellegrino, ma di chiunque volesse
intraprendere un viaggio. E di questa probabilmente si servì poi
l’imperatore per allestire l’anno seguente la nuova crociata. Per
questo come per altri spostamenti si trattava di disporre l’organismo
a un viaggio che alterava le consuete condizioni di vita; tutto ciò
poteva provocare un disequilibrio degli umori corporei poiché
“repentinam mutationem natura non diligit”. Occorreva dunque
adattarsi a nuovi climi e ad alimenti diversi nonché “famem et
sitim tolerare et iacere duriori lecto”, occorreva abituarsi alle
privazioni della quiete, del sesso, dei bagni, “ceterisque corporis
deliciis” in modo che il ricordo di quelle consuetudini non
causasse fenomeni di depressione. Adamo, della cui vita si conosce
pochissimo, è documentato tra i canonici della Cattedrale tra il
1213 e il 1223, ma è anche il primo medico cremonese di cui la
storia faccia memoria. Il suo trattato, redatto attingendo ampiamente
alla versione latina del “Canon” di Avicenna, è diviso in tre
libri. Il primo contiene i principi generali per una giusta dieta
alimentare, diversificata per ciascun soggetto, indicazioni sui cibi
da mangiare e sulla loro conservazione, sulle bevande da bere e su
come tenerle al riparo da eventuali contaminazioni, come far fronte
ad una indigestione, piuttosto che i modi per sopportare la fame, la
sete e il caldo.
Sulla base di questi presupposti Adamo
dedica gran parte del libro ai singoli cibi e alle dosi alimentari:
il pane, i cereali, i diversi tipi di carne facendo una differenza
tra la carne rossa e la selvaggina e sul modo di cucinarle; e poi il
pesce, il latte e i suoi derivati, come il siero latte acido e il
formaggio; le uova e la loro preparazione, la verdura e la frutta.
Adamo disserta poi sulle bevande come vino, vino di dattero, miele,
birra e sciroppi dedicando alcuni paragrafi all’acqua, alle sue
qualità ed ai processi di desalinizzazione, mettendo in guardia il
viaggiatore dal pericolo di un uso non appropriato. Nel “Regimen”
di Adamo ogni aspetto di quella cura corporis alla quale gli
scienziati medievali dedicarono estrema attenzione venne esaminato
minuziosamente.
In effetti c’era già nel Secolo XIII
una diffusa consapevolezza della necessità che, per evitare il
contagio, ci si dovesse garantire la purezza dell’acqua; ciò era
stato già evidenziato da Avicenna che aveva esortato a bollire e a
filtrare l’acqua attraverso un panno e aveva anche suggerito di
‘correggerla’ con aceto o vino; suggerimenti questi che furono
ripresi dal medico imperiale. Nel “De Regimine” il nostro medico
riprende anche il tema del sonno e della veglia e delle differenti
cause dell’insonnia. Alcuni paragrafi sono dedicati alla qualità
dell’aria, individuando come buona quella finemente chiara e
moderata e malsana quella che si trova in stanze prive di
ventilazione, vicino a paludi o esposta all’odore di sostanze in
putrefazione. Prende poi in esame le norme igienico-sanitarie, gli
insetti nocivi, i pidocchi e come affrontare gli animali velenosi.
Molto dettagliata è la descrizione
degli esercizi corporei, degli sforzi legati alle marce, degli
effetti del caldo e del freddo e dell’affaticamento fisico, per cui
raccomanda massaggi e bagni, caldi e freddi, da praticarsi con
frequenza e assiduità e dell’inutilità della cura con salassi.
Per i viaggi in nave Adamo consiglia anche norme e rimedi per il mal
di mare. Il secondo libro approfondisce il tema dell’indebolimento
fisico durante le marce con suggerimenti sul tipo dell’andatura da
tenere sulla base delle differenti costituzioni fisiche e sul diverso
tipo di strada, sul trattamento delle ferite, sl concetto di contagio
e infezione e su come curare e prevenire la formazione di vesciche.
Il terzo libro, infine, il più breve, riguarda la strada, la fine
del viaggio e la meta che si è deciso di raggiungere.
Se Adamo è il precursore dei medici
cremonesi, abbiamo anche notizia di altri illustri scienziati durante
i secoli che precedettero lo sviluppo della medicina nel XVI Secolo.
Era un medico Giambonino da Gazzo, insegnante all’Università di
Padova nella seconda metà del Duecento ed autore del “Liber de
ferculis et condimentis”, traduzione quasi letterale di due manuali
di medici arabi dell’XI Secolo.
Negli statuti del 1240 era previsto che
un medico dovesse andare sul carroccio al seguito dell’esercito per
curare le ferite e le fratture, con un compenso di “duos solidos
imperiales in die et non plures”. Un altro medico cremonese.
Giacomo da Verano, era il barbiere-chirurgo della fortezza di Genova
nel 1498, protagonista suo malgrado di un curioso quanto macabro
episodio per essere stato accusato dagli eredi di aver asportato del
grasso dal cadavere di Zanono da Groppello, anziché le sole viscere,
come era consuetudine fare quando si doveva trasportare il corpo di
un defunto al luogo di sepoltura distante qualche giorno di cammino.
Gli statuti dei chirurghi del 1586
sostengono che ai medici e ai chirurghi era consentito ottenere dal
podestà di Cremona solo nei mesi autunnali e invernali, i cadaveri
degli impiccati per poterli sezionare. Due chirurghi decisamente
importanti dovevano essere Omobono de Cademosti, originario di
Pizzighettone, e sua moglie madonna Veronica “detta la Romana”
che nel 1556 chiedevano alla Magnifica Comunità che venisse loro
rilasciato un certificato di qualità che riconoscesse la loro
abilità, testimoniata da cinque anni di attività a Cremona e dai
risultati ottenuti nella cura di diverse infermità. Evidentemente
questo sarebbe servito nei confronti di quanti esercitavano
abusivamente la professione, come conferma una grida del 23 luglio
1583, emessa a tutela dell’incolumità dei cittadini, in cui si
ordina che “niuno ponga mano in questo Stato a medicare, ne
interiormente, ne esteriormente, che non sia prima conosciuto, et
approvato per idoneo”.
Alla fine del Cinquecento sappiamo che
a Cremona si contavano 25 medici e chirurghi e che era diffuso il
detto “Fa notte agl’Infermi inanzi sera”. Francesco Arisi
ricorda fin dal 1540 la dinastia dei Somenzi, da Bartolomeo, medico,
filoso e astronomo morto nel 1480, a Tommaso, “uomo di profonda
scienza” nella medicina e nella fisica, scomparso nel 1576. Famoso
è poi Pietro Manna, figlio di Cataldo, anche lui medico, nominato
archiatra personale da Francesco II Sforza nel 1520, a cui il
modenese Gabriele Falloppio dedicò le sue “Osservazioni
anatomiche”. Insegnò per vent’anni logica, fisica e metafisica
all’università di Pavia Francesco Mainardi, morto in Istria
Pirano e sepolto nel 1528 nel convento cremonese di San Domenico.
Sempre a Pavia fu lettore di fisica,
filosofia e medicina, un altro Mainardi, Giuliano, morto nel 1582.
Omobono degli Offredi fu un medico tanto celebre da essere conosciuto
come l’Ippocrate cremonese: Antonio Campi ricorda che “alla casa
di lui, come ad albergo e posto sicurissimo di sanità, si ricorreva,
non solamente da nostri cittadini, ma anco da tutte le parti
d’Italia; essendo egli chiamato alla cura di diversi signori...con
non poca riputatione della patria”.
C’erano ovviamente anche i dentisti.
La Magnifica Comunità aveva emanato nel 1477 un ordine perchè “i
zaratani et magistri dentium” non osassero attirare la gente sulle
piazze e sotto i portici del palazzo comunale tenendovi “bancum”.
Ma i documenti ricordano anche una dentista, la “cavadenta”
Isabella di Mariani, abitante nella parrocchia di Sant’Erasmo,
madre di Lucio della Rocca che era stato condannato a morte per
l’omicidio del milanese Francesco Bruno, commesso il 29 ottobre
1606. Con i medici, la cui opera era indispensabile, la Magnifica
Comunità stringeva accordi soprattutto in occasione delle grandi
epidemie. Così sappiamo che in occasione della peste del 1506, ai
medici era stato assegnato uno stipendio mensile di dodici scudi e di
sei fiorini al chirurgo. Per la peste del 1511 fu fatto venire da
Piacenza un chirurgo specializzato e venne nominato “barberio”
Francesco da Montagnana. Sempre durante questa epidemia, che
evidentemente dovette essere particolarmente virulenta, il collegio
dei fisici fu esentato da qualsiasi tassa con il solo obbligo di
mantenere due medici che gratuitamente prestassero le loro cure agli
appestati.
Ad esclusiva disposizione degli
appestati era stato anche nominato il medico cremonese Innocenzo
Guarneri con un stipendio annuo di duecento lire. In occasione
dell’arrivo dei fanti spagnoli si verificarono altri casi di peste
nell’agosto del 1522 e vennero chiamati ad eseguire l’autopsia su
un cadavere i medici Agostino Maranardo, Florobaldo Zucho e Giovanni
Pietro Batalia, che rinvennero “tre grossi carboni et boboni sopra
la persona no senza stremito grandissimo e smaritio de tutta la
città”. Un altro medico, Geronimo Maccagno, fu detenuto nel 1522
perchè accusato d’eresia.
Ma tutti questi medici, che hanno
contribuito a guarire la città dalle epidemie, scompaiono di fronte
ai due colossi del Cinquecento cremonese: Realdo Colombo e Gaspare
Aselli. Figlio di un farmacista e allievo di Vesalio, Colombo insegnò
anatomia a Padova e poi a Pisa. Nel 1548 fu chiamato a Roma dal
pontefice Paolo III e continuò quindi l’insegnamento alla
Sapienza. Tra le relazioni da lui coltivate a Roma vi fu quella con
Michelangelo, il quale avrebbe dovuto eseguire (ma il progetto non fu
realizzato) le tavole per il De re anatomica, il trattato di anatomia
del Colombo. Questi non lasciò più Roma: è tutt’altro che certo
un suo brevissimo periodo di insegnamento a Ferrara. L’ultima data
di rilievo nella sua vita è il 1556, quando, alla morte avvenuta a
Roma di Ignazio di Loyola, esegui la dissezione del suo cadavere. La
sua opera, De re anatomica, costituisce una tappa fondamentale per lo
sviluppo degli studi sulla circolazione del sangue: infatti in essa
si trova per la prima volta chiaramente descritto il meccanismo della
piccola circolazione.
Gaspare Aselli, nato nel 1581, è lo
scopritore dei vasi chiliferi, dato che anche i più recenti
anatomisti, come l’Eustacchi e il Falloppio, pur avendoli
identificati, ne avevano ignorato la funzione. Il 23 luglio 1622,
sollecitato da alcuni anúci, sottopose a vivisezione un cane,
alimentato da poco, con il proposito di mettere in evidenza i nervi
ricorrenti ed i movimenti del diaframma. Mentre si adoperava a
spostare la matassa intestinale per scoprire la fascia addominale del
diaframma, venne attratto dalla presenza di numerosi filamenti
bianchi, ramificati lungo tutto il mesenterio e sulla superficie
peritoneale dell’intestino. In un primo momento quei filamenti si
sarebbero potuti considerare come nervi. Ma bastò inciderne uno tra
i meno sottili, perché ne uscisse fuori un umore biancastro, simile
al latte. L’anatomico propose di denominarli “aut lacteas, sive
albas venas”.
Ebbe da qui inizio uno studio
sistematico di quelle formazioni e l’Aselli subito riconobbe i
rapporti cronologici tra la loro turgescenza e il pasto dell’animale.
Tale constatazione sperimentale gli consentì di mettere in evidenza
successivamente i clifideri in diverse specie animali, seguendone il
decorso fino alle ghiandole mesenteriche.
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