venerdì 20 dicembre 2013

Adamo, il medico che salvò la crociata


E' la mattina dell’8 settembre 1227 quando cinquanta grandi navi salpano dal porto di Brindisi cariche di cavalieri diretti in Terra Santa. E’ la sesta crociata che Federico di Svevia ha allestito minacciato di scomunica da parte del papa Gregorio IX, che lo invita rispettare il voto fatto ormai anni prima e mai adempiuto. Nel corso dell’estate si sono già radunati circa duecentocinquanta cavalieri, che insieme con i settecento giunti dalla Germania e ai cento della sua guardia personale, e ad altri, superano i mille previsti dall’accordo. Ma l’affollamento di armati e di pellegrini e la penuria di vettovaglie causano un’epidemia e svariati decessi, compreso quello di Sigfrido, vescovo di Augusta. Il caldo e la peste spingono molti a tornare in patria, lasciando diverse navi vuote nel porto, tuttavia a metà agosto il grosso dei crociati è già salpato da Brindisi. Ma l’imperatore e Ludovico di Turingia sono ammalati di peste. Arrivati a Otranto sono costretti a tutti scendere a terra perchè una grave forma gastrointestinale ha colpito nel frattempo l’intera armata.
A nulla valgono le giustificazioni di Federico, il 29 settembre arriva inflessibile la scomunica del Papa. A Federico non resta altro da fare che chiamare in aiuto il suo medico di corte, Adamo da Cremona, “cantor ecclesiae”. Il suo manuale “Regimen iter agentium vel peregrinatium” indirizzato a chi intendesse dedicarsi “ad liberandam terram sanctam de manis inimicorum” costituisce la prima guida pratica di precetti igienici ad uso non soltanto del pellegrino, ma di chiunque volesse intraprendere un viaggio. E di questa probabilmente si servì poi l’imperatore per allestire l’anno seguente la nuova crociata. Per questo come per altri spostamenti si trattava di disporre l’organismo a un viaggio che alterava le consuete condizioni di vita; tutto ciò poteva provocare un disequilibrio degli umori corporei poiché “repentinam mutationem natura non diligit”. Occorreva dunque adattarsi a nuovi climi e ad alimenti diversi nonché “famem et sitim tolerare et iacere duriori lecto”, occorreva abituarsi alle privazioni della quiete, del sesso, dei bagni, “ceterisque corporis deliciis” in modo che il ricordo di quelle consuetudini non causasse fenomeni di depressione. Adamo, della cui vita si conosce pochissimo, è documentato tra i canonici della Cattedrale tra il 1213 e il 1223, ma è anche il primo medico cremonese di cui la storia faccia memoria. Il suo trattato, redatto attingendo ampiamente alla versione latina del “Canon” di Avicenna, è diviso in tre libri. Il primo contiene i principi generali per una giusta dieta alimentare, diversificata per ciascun soggetto, indicazioni sui cibi da mangiare e sulla loro conservazione, sulle bevande da bere e su come tenerle al riparo da eventuali contaminazioni, come far fronte ad una indigestione, piuttosto che i modi per sopportare la fame, la sete e il caldo.
Sulla base di questi presupposti Adamo dedica gran parte del libro ai singoli cibi e alle dosi alimentari: il pane, i cereali, i diversi tipi di carne facendo una differenza tra la carne rossa e la selvaggina e sul modo di cucinarle; e poi il pesce, il latte e i suoi derivati, come il siero latte acido e il formaggio; le uova e la loro preparazione, la verdura e la frutta. Adamo disserta poi sulle bevande come vino, vino di dattero, miele, birra e sciroppi dedicando alcuni paragrafi all’acqua, alle sue qualità ed ai processi di desalinizzazione, mettendo in guardia il viaggiatore dal pericolo di un uso non appropriato. Nel “Regimen” di Adamo ogni aspetto di quella cura corporis alla quale gli scienziati medievali dedicarono estrema attenzione venne esaminato minuziosamente.

In effetti c’era già nel Secolo XIII una diffusa consapevolezza della necessità che, per evitare il contagio, ci si dovesse garantire la purezza dell’acqua; ciò era stato già evidenziato da Avicenna che aveva esortato a bollire e a filtrare l’acqua attraverso un panno e aveva anche suggerito di ‘correggerla’ con aceto o vino; suggerimenti questi che furono ripresi dal medico imperiale. Nel “De Regimine” il nostro medico riprende anche il tema del sonno e della veglia e delle differenti cause dell’insonnia. Alcuni paragrafi sono dedicati alla qualità dell’aria, individuando come buona quella finemente chiara e moderata e malsana quella che si trova in stanze prive di ventilazione, vicino a paludi o esposta all’odore di sostanze in putrefazione. Prende poi in esame le norme igienico-sanitarie, gli insetti nocivi, i pidocchi e come affrontare gli animali velenosi.
Molto dettagliata è la descrizione degli esercizi corporei, degli sforzi legati alle marce, degli effetti del caldo e del freddo e dell’affaticamento fisico, per cui raccomanda massaggi e bagni, caldi e freddi, da praticarsi con frequenza e assiduità e dell’inutilità della cura con salassi. Per i viaggi in nave Adamo consiglia anche norme e rimedi per il mal di mare. Il secondo libro approfondisce il tema dell’indebolimento fisico durante le marce con suggerimenti sul tipo dell’andatura da tenere sulla base delle differenti costituzioni fisiche e sul diverso tipo di strada, sul trattamento delle ferite, sl concetto di contagio e infezione e su come curare e prevenire la formazione di vesciche. Il terzo libro, infine, il più breve, riguarda la strada, la fine del viaggio e la meta che si è deciso di raggiungere.
Se Adamo è il precursore dei medici cremonesi, abbiamo anche notizia di altri illustri scienziati durante i secoli che precedettero lo sviluppo della medicina nel XVI Secolo. Era un medico Giambonino da Gazzo, insegnante all’Università di Padova nella seconda metà del Duecento ed autore del “Liber de ferculis et condimentis”, traduzione quasi letterale di due manuali di medici arabi dell’XI Secolo.
Negli statuti del 1240 era previsto che un medico dovesse andare sul carroccio al seguito dell’esercito per curare le ferite e le fratture, con un compenso di “duos solidos imperiales in die et non plures”. Un altro medico cremonese. Giacomo da Verano, era il barbiere-chirurgo della fortezza di Genova nel 1498, protagonista suo malgrado di un curioso quanto macabro episodio per essere stato accusato dagli eredi di aver asportato del grasso dal cadavere di Zanono da Groppello, anziché le sole viscere, come era consuetudine fare quando si doveva trasportare il corpo di un defunto al luogo di sepoltura distante qualche giorno di cammino.
Gli statuti dei chirurghi del 1586 sostengono che ai medici e ai chirurghi era consentito ottenere dal podestà di Cremona solo nei mesi autunnali e invernali, i cadaveri degli impiccati per poterli sezionare. Due chirurghi decisamente importanti dovevano essere Omobono de Cademosti, originario di Pizzighettone, e sua moglie madonna Veronica “detta la Romana” che nel 1556 chiedevano alla Magnifica Comunità che venisse loro rilasciato un certificato di qualità che riconoscesse la loro abilità, testimoniata da cinque anni di attività a Cremona e dai risultati ottenuti nella cura di diverse infermità. Evidentemente questo sarebbe servito nei confronti di quanti esercitavano abusivamente la professione, come conferma una grida del 23 luglio 1583, emessa a tutela dell’incolumità dei cittadini, in cui si ordina che “niuno ponga mano in questo Stato a medicare, ne interiormente, ne esteriormente, che non sia prima conosciuto, et approvato per idoneo”.
Alla fine del Cinquecento sappiamo che a Cremona si contavano 25 medici e chirurghi e che era diffuso il detto “Fa notte agl’Infermi inanzi sera”. Francesco Arisi ricorda fin dal 1540 la dinastia dei Somenzi, da Bartolomeo, medico, filoso e astronomo morto nel 1480, a Tommaso, “uomo di profonda scienza” nella medicina e nella fisica, scomparso nel 1576. Famoso è poi Pietro Manna, figlio di Cataldo, anche lui medico, nominato archiatra personale da Francesco II Sforza nel 1520, a cui il modenese Gabriele Falloppio dedicò le sue “Osservazioni anatomiche”. Insegnò per vent’anni logica, fisica e metafisica all’università di Pavia Francesco Mainardi, morto in Istria Pirano e sepolto nel 1528 nel convento cremonese di San Domenico.

Sempre a Pavia fu lettore di fisica, filosofia e medicina, un altro Mainardi, Giuliano, morto nel 1582. Omobono degli Offredi fu un medico tanto celebre da essere conosciuto come l’Ippocrate cremonese: Antonio Campi ricorda che “alla casa di lui, come ad albergo e posto sicurissimo di sanità, si ricorreva, non solamente da nostri cittadini, ma anco da tutte le parti d’Italia; essendo egli chiamato alla cura di diversi signori...con non poca riputatione della patria”.
C’erano ovviamente anche i dentisti. La Magnifica Comunità aveva emanato nel 1477 un ordine perchè “i zaratani et magistri dentium” non osassero attirare la gente sulle piazze e sotto i portici del palazzo comunale tenendovi “bancum”. Ma i documenti ricordano anche una dentista, la “cavadenta” Isabella di Mariani, abitante nella parrocchia di Sant’Erasmo, madre di Lucio della Rocca che era stato condannato a morte per l’omicidio del milanese Francesco Bruno, commesso il 29 ottobre 1606. Con i medici, la cui opera era indispensabile, la Magnifica Comunità stringeva accordi soprattutto in occasione delle grandi epidemie. Così sappiamo che in occasione della peste del 1506, ai medici era stato assegnato uno stipendio mensile di dodici scudi e di sei fiorini al chirurgo. Per la peste del 1511 fu fatto venire da Piacenza un chirurgo specializzato e venne nominato “barberio” Francesco da Montagnana. Sempre durante questa epidemia, che evidentemente dovette essere particolarmente virulenta, il collegio dei fisici fu esentato da qualsiasi tassa con il solo obbligo di mantenere due medici che gratuitamente prestassero le loro cure agli appestati.
Ad esclusiva disposizione degli appestati era stato anche nominato il medico cremonese Innocenzo Guarneri con un stipendio annuo di duecento lire. In occasione dell’arrivo dei fanti spagnoli si verificarono altri casi di peste nell’agosto del 1522 e vennero chiamati ad eseguire l’autopsia su un cadavere i medici Agostino Maranardo, Florobaldo Zucho e Giovanni Pietro Batalia, che rinvennero “tre grossi carboni et boboni sopra la persona no senza stremito grandissimo e smaritio de tutta la città”. Un altro medico, Geronimo Maccagno, fu detenuto nel 1522 perchè accusato d’eresia.
Ma tutti questi medici, che hanno contribuito a guarire la città dalle epidemie, scompaiono di fronte ai due colossi del Cinquecento cremonese: Realdo Colombo e Gaspare Aselli. Figlio di un farmacista e allievo di Vesalio, Colombo insegnò anatomia a Padova e poi a Pisa. Nel 1548 fu chiamato a Roma dal pontefice Paolo III e continuò quindi l’insegnamento alla Sapienza. Tra le relazioni da lui coltivate a Roma vi fu quella con Michelangelo, il quale avrebbe dovuto eseguire (ma il progetto non fu realizzato) le tavole per il De re anatomica, il trattato di anatomia del Colombo. Questi non lasciò più Roma: è tutt’altro che certo un suo brevissimo periodo di insegnamento a Ferrara. L’ultima data di rilievo nella sua vita è il 1556, quando, alla morte avvenuta a Roma di Ignazio di Loyola, esegui la dissezione del suo cadavere. La sua opera, De re anatomica, costituisce una tappa fondamentale per lo sviluppo degli studi sulla circolazione del sangue: infatti in essa si trova per la prima volta chiaramente descritto il meccanismo della piccola circolazione.

Gaspare Aselli, nato nel 1581, è lo scopritore dei vasi chiliferi, dato che anche i più recenti anatomisti, come l’Eustacchi e il Falloppio, pur avendoli identificati, ne avevano ignorato la funzione. Il 23 luglio 1622, sollecitato da alcuni anúci, sottopose a vivisezione un cane, alimentato da poco, con il proposito di mettere in evidenza i nervi ricorrenti ed i movimenti del diaframma. Mentre si adoperava a spostare la matassa intestinale per scoprire la fascia addominale del diaframma, venne attratto dalla presenza di numerosi filamenti bianchi, ramificati lungo tutto il mesenterio e sulla superficie peritoneale dell’intestino. In un primo momento quei filamenti si sarebbero potuti considerare come nervi. Ma bastò inciderne uno tra i meno sottili, perché ne uscisse fuori un umore biancastro, simile al latte. L’anatomico propose di denominarli “aut lacteas, sive albas venas”.
Ebbe da qui inizio uno studio sistematico di quelle formazioni e l’Aselli subito riconobbe i rapporti cronologici tra la loro turgescenza e il pasto dell’animale. Tale constatazione sperimentale gli consentì di mettere in evidenza successivamente i clifideri in diverse specie animali, seguendone il decorso fino alle ghiandole mesenteriche.

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