mercoledì 7 novembre 2012

La Gioconda cremonese di Leonardo


Leonardo da Vinci non era per nulla indifferente al fascino femminile, come invece vorrebbe una certa maldicenza secolare. Anzi smessi i panni del pittore spesso indossava quelli più prosaici del libertino, trascorrendo il resto della giornata con una giovane prostituta cremonese. Ne era talmente invaghito che pensò bene di ritrarla in una versione meno nota e più scollacciata della Gioconda più conosciuta, appunto la cosiddetta “Gioconda nuda” una delle quali conservata oggi a Bergamo e considerata fino al tardo Seicento il ritratto di una meretrice. Il vago ed anigmatico sorriso della Gioconda “vera” lascia qui spazio ad un ammiccamento che il non più giovane Leonardo doveva ben conoscere e replicare in più di una versione. Ad ispirarlo in un modello poi seguito anche da Giulio Romano e Raffaello fu proprio la bella cremonese che esercitava il mestiere più antico del mondo. A squarciare il velo su questo Leonardo meno conosciuto è stato Carlo Pedretti, curatore della mostra vinciana. Il pesante interrogativo sui gusti sessuali di Leonardo si era già posto secoli addietro a Giuseppe Bossi, il segretario dell’Accademia di Brera, amico del Canova e di Carlo Porta, a cui era stato dato l’incarico di realizzare una copia del Cenacolo in grandezza naturale destinata ad essere riprodotta in mosaico per la chiesa degli Italiani di Vienna. Rovistando tra le sue carte pubblicate nel 1982, Pedretti qualche anno fa ha rinvenuto una noticina che, in poche parole, sementisce qualsiasi illazione sul maestro: “Che Leonardo amasse i piaceri – scriveva Bossi in quella noticina di due secoli prima – lo prova una sua nota riguardante una cortigiana chiamata Cremona, nota comunicatami da persone autorevole”. Imbarazzato dalla scoperta il povero Bossi per attenuare i toni aggunge: “Nè sarebbe stato possibile, ch’egli sì a fondo avesse conosciuto gl’uomini, e l’umana natura per rappresentarla senza, col lungo praticarla, tingersi alquanto delle umane debolezze. Ciò è avvenuto a tutti i più grandi e profondi conoscitori degli uomini: nè credo possibile senza ciò nominarli, o imitarli sia scrivendo che dipingendo” In realtà in nessuno degli scritti autografi di Leonardo vi è traccia di questa donna, ma nulla vieta di pensare che la persona autorevole che informa Bossi della cosa potesse essere a conoscenza di qualche manoscritto dell’Ambrosiana andato perduto in seguito alle spogliazioni napoleoniche. D’altra parte il nome della donna “Cremona” non lascia dubbi nè sulla sua origine, nè tantomeno sulla sua attività, svolta con ogni probabilità a Roma, dove poteva avere il fascino del prodotto importato. Qui Leonardo vi giunse quando ormai aveva più di sessant’anni, accolto dal fratello del papa Giuliano de’ Medici nel Belvedere Vaticano ed accompagnato dai suoi due assistenti tedeschi con cui aveva spesso discussioni. Questi due avevano allestito nelle stanze a loro disposizione una sorta di laboratorio per lavorare gli specchi che sarebbero serviti al maestro per i suoi esperimenti sullo sfruttamento dell’energia solare. Ma, osserva maliziosamente Carlo Pedretti, l’uso di quelle attrezzature sarebbe stato in realtà molto più prosaico e meno scientifico. La cosa era perfettamente comprensibile vista l’aria libertina che si respirava nella capitale, dove Raffaello e Giulio Romano si prodigavano nel rappresentare artisticamente quelle scene erotiche che poi sarebbero andate a illustrare i sonetti lussuriosi di Pietro Aretino. Ma un particolare in quelle scene che illustrano le performances della cortigiana ha attirato l’attenzione di Pedretti: l’uso di una acconciatura raffinata di ascendenza classica che farebbe pensare ad un parrucca. E proprio una parrucca di questo tipo Leonardo mise in testa alla sua “Leida” alla cui ideazione stava senz’altro lavorando durante il suo soggiorno romano: “Questa – scriveva il maestro – si pò levare e porre senza guastarsi”, come se l’avesse fatta provare alla sua modella. Una parrucca del tutto simile possiede anche la “Gioconda nuda”, un soggetto proprio pensato a Roma e ripetuto in un’infinita serie di copie e versioni. Proprio quello conservato oggi all’Accademia Carrara di Bergamo nel 1664, quando ancora  si trovava al museo Settala di Milano, era catalogato come il ritratto di una meretrice eseguito da Leonardo: “Mulier, creditur meretrix, opus magni illius pictoris Leonardo a Vincio”. Come se non bastasse un’altra versione dello stesso soggetto a cui si sono senza dubbio ispirati Raffaello e Giulio Romano cone le loro “fornarine”, realizzata da un artista della scuola di Fontainebleau e conservata al museo di Digione, rappresenta la nostra cortigiana nell’atto di portarsi una mano al petto tenendo tra le dita un medaglione ovale nel quale si sarebbe riconosciuto il profilo di Leonardo con un’iscrizione che reca la data del 1501.
La Gioconda nuda dell’Accademia Carrara di Bergamo si lega a Cremona anche per un’altra strana coincidenza. Agli inizi del Novecento l’opera si trovava presso un’antiquaria di Varese; nel 1909 veniva acquistata dal signor Cesare Pisoni (Soresina 1846-Milano 1924), un industriale e collezionista d’arte della nostra provincia, ma naturalizzato milanese. Fu donata da questo, insieme a molti altri dipinti dal Sei all’Ottocento, all’accademia Carrara di Bergamo, dove giunse il 20 ottobre 1924. Il soggetto si ispira ad un’invenzione di Leonardo, la cosiddetta “Gioconda nuda”, nota solo attraverso un disegno autografo dell’Ermitage, ma riprodotta in un gran numero di copie e varianti. L’esemplare in questione fu oggetto di un’accanita disputa attributiva. Inzialmente ritenuta autografa di Leonardo, venne poi riconosciuta come risalente al XVII secolo. Ascritta dapprima all’ambiente di Jean Bruegel des Velours (1568-1625) è stata successivamente attribuita a Giulio Cesare Procaccino (1574-1625), mentre i fiori ai lati della figura su considerano eseguiti dal congiunto Carlo Antonio. Il dipinto è un olio di cm. 79x61. Sul verso vi si trova un sigillo con gli stemmi delle famiglie milanesi Cravenna e Settala. Il particolare lo fece collegare ad un esemplare già citato nel catalogo del museo Settala di Milano al n. 33, del 1664. Non ci sono note, al momento, ulteriori attribuzioni. Presso l’archivio della Carrara di Bergamo sono conservati diversi documenti che riguardano il dipinto: in particolare una lettera del 1925 del celebre architetto Luca Beltrami, conoscente di Cesare Pisoni, che l’aveva a suo tempo osservato in casa del collezionista a Milano.
Tornando alla “Gioconda nuda” c’è chi sostiene che l’opera potrebbe essere un ritratto di Gian Giacomo Cappotti detto il Salai (cioè “diavoletto”), l’allievo prediletto di Leonardo e ritenuto, da chi sostiene la presunta omosessualità dell’artista, il suo amante. Gli indizi sulla possibile omosessualità di Leonardo sono legati solo ad un processo che subì per sodomia, nel quale venne scagionato perché la denuncia era stata presentata ìn forma anonima, e quindi non valida, e sulla lunghissima convivenza con Salai, a proposito della quale lo scrittore d’arte Gian Paolo Lomazzo, pochi decenni dopo la morte di Leonardo, fece dire all’artista in un dialogo alcune cose “compromettenti”. In effetti, se guardiamo con attenzione, l’aspetto della donna è piuttosto mascolino, con poco seno e le braccia nerborute, e l’effetto generale è piuttosto ambiguo. 
A lasciare indizi in tal senso contribuisce anche la somiglianza di questo dipinto con il san Giovanni Battista di Leonardo della Pinacoteca Ambrosiana, un’opera anch’essa dall’aspetto ambiguo, in cui il protagonista è molto simile alla “Gioconda nuda”. Il Battista, come si può verificare nei Vangeli, era senza dubbio ben diverso da questa figura efebica che sfoggia un sorriso malizioso, ed è possibile secondo alcuni che anche qui Leonardo abbia ritratto il suo allievo prediletto. Di certo il Salai fu una figura importante nella vita di Leonardo che lo accolse nella sua bottega a dieci anni, considerandolo come un figlio. Pur di temperamento irrequieto e poco diligente, mostrò da subito un gran talento diventando l’ombra del maestro, così da indurre il Vasari a scrivere di lui: “Prese in Milano Salai Milanese il qual era vaghissimo di grazia e di bellezza, avendo belli capelli ricci e inanellati, de’ quali Lionardo si dilettò molto: e a lui insegnò molte cose dell’arte, e certi lavori, che in Milano si dicono essere di Salai, furono ritocchi di Lionardo”. Artista di discreto valore Salai riprende gli insegnamenti del maestro; una delle pochissime opere attribuite a lui con certezza, dove è visibile, e ormai certa, anche la mano di Leonardo, è appunto la famosa “Giocoda nuda” appartenuta al cardinale Fesch ed oggi di proprietà della fondazione Primoli. Qui Monna Vanna (come è stata chiamata questa versione della Gioconda), sembra possedere la doppia natura umana (come il san Giovanni), sia maschile che femminile, quale androgino perfetto, anche se secondo alcuni non sarebbe difficile vedervi la fisionomia dello stesso Salai. Ultimamente però Renzo Manetti, esperto di iconologia, nel saggio “Il velo della Gioconda. Leonardo segreto” uscito recentemente presso l’editore fiorentino Polistampa, affaccia l’ipotesi che Leonardo da Vinci avesse dipinto due Gioconde, una delle quali, ora scomparsa, era ritratta nuda. Accanto all’enigmatico ritratto di Monna Lisa esposto al Louvre, l’artista scienziato rinascimentale avrebbe quindi dipinto una seconda Gioconda con la precisa intenzione di formare un dittico e rendere omaggio ai due volti di una stessa divinità, nientemeno che Venere. Comunque sia a noi piace pensare che la modella di questa variazione più scollacciata dell’enigmatica figura leonardesca sia stata proprio la nostra “Cremona”, che il maestro ha strappato all’anonimità a cui l’avrebbe relegata la sua condizione, eternandola per sempre con l’arte.

1 commento:

  1. E' più poetica la versione di Renzo Manetti, che però distrugge il radicamento della ragazza. Che non è bella: perché Leonardo non ha dipinto una "Gioconda nuda" bellissima? Si sarebbe limitato a una rappresentazione realistica? Vicenda davvero molto interessante in ogni caso.

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