Leonardo da Vinci non era per nulla indifferente al fascino
femminile, come invece vorrebbe una certa maldicenza secolare. Anzi smessi i
panni del pittore spesso indossava quelli più prosaici del libertino,
trascorrendo il resto della giornata con una giovane prostituta cremonese. Ne
era talmente invaghito che pensò bene di ritrarla in una versione meno nota e
più scollacciata della Gioconda più conosciuta, appunto la cosiddetta “Gioconda
nuda” una delle quali conservata oggi a Bergamo e considerata fino al tardo
Seicento il ritratto di una meretrice. Il vago ed anigmatico sorriso della
Gioconda “vera” lascia qui spazio ad un ammiccamento che il non più giovane
Leonardo doveva ben conoscere e replicare in più di una versione. Ad ispirarlo
in un modello poi seguito anche da Giulio Romano e Raffaello fu proprio la
bella cremonese che esercitava il mestiere più antico del mondo. A squarciare
il velo su questo Leonardo meno conosciuto è stato Carlo Pedretti, curatore
della mostra vinciana. Il pesante interrogativo sui gusti sessuali di Leonardo
si era già posto secoli addietro a Giuseppe Bossi, il segretario dell’Accademia
di Brera, amico del Canova e di Carlo Porta, a cui era stato dato l’incarico di
realizzare una copia del Cenacolo in grandezza naturale destinata ad essere
riprodotta in mosaico per la chiesa degli Italiani di Vienna. Rovistando tra le
sue carte pubblicate nel 1982, Pedretti qualche anno fa ha rinvenuto una
noticina che, in poche parole, sementisce qualsiasi illazione sul maestro: “Che
Leonardo amasse i piaceri – scriveva Bossi in quella noticina di due secoli
prima – lo prova una sua nota riguardante una cortigiana chiamata Cremona, nota
comunicatami da persone autorevole”. Imbarazzato dalla scoperta il povero Bossi
per attenuare i toni aggunge: “Nè sarebbe stato possibile, ch’egli sì a fondo
avesse conosciuto gl’uomini, e l’umana natura per rappresentarla senza, col
lungo praticarla, tingersi alquanto delle umane debolezze. Ciò è avvenuto a
tutti i più grandi e profondi conoscitori degli uomini: nè credo possibile
senza ciò nominarli, o imitarli sia scrivendo che dipingendo” In realtà in
nessuno degli scritti autografi di Leonardo vi è traccia di questa donna, ma
nulla vieta di pensare che la persona autorevole che informa Bossi della cosa
potesse essere a conoscenza di qualche manoscritto dell’Ambrosiana andato
perduto in seguito alle spogliazioni napoleoniche. D’altra parte il nome della
donna “Cremona” non lascia dubbi nè sulla sua origine, nè tantomeno sulla sua
attività, svolta con ogni probabilità a Roma, dove poteva avere il fascino del
prodotto importato. Qui Leonardo vi giunse quando ormai aveva più di
sessant’anni, accolto dal fratello del papa Giuliano de’ Medici nel Belvedere
Vaticano ed accompagnato dai suoi due assistenti tedeschi con cui aveva spesso
discussioni. Questi due avevano allestito nelle stanze a loro disposizione una
sorta di laboratorio per lavorare gli specchi che sarebbero serviti al maestro
per i suoi esperimenti sullo sfruttamento dell’energia solare. Ma, osserva maliziosamente
Carlo Pedretti, l’uso di quelle attrezzature sarebbe stato in realtà molto più
prosaico e meno scientifico. La cosa era perfettamente comprensibile vista
l’aria libertina che si respirava nella capitale, dove Raffaello e Giulio
Romano si prodigavano nel rappresentare artisticamente quelle scene erotiche
che poi sarebbero andate a illustrare i sonetti lussuriosi di Pietro Aretino.
Ma un particolare in quelle scene che illustrano le performances della
cortigiana ha attirato l’attenzione di Pedretti: l’uso di una acconciatura
raffinata di ascendenza classica che farebbe pensare ad un parrucca. E proprio
una parrucca di questo tipo Leonardo mise in testa alla sua “Leida” alla cui
ideazione stava senz’altro lavorando durante il suo soggiorno romano: “Questa –
scriveva il maestro – si pò levare e porre senza guastarsi”, come se l’avesse
fatta provare alla sua modella. Una parrucca del tutto simile possiede anche la
“Gioconda nuda”, un soggetto proprio pensato a Roma e ripetuto in un’infinita
serie di copie e versioni. Proprio quello conservato oggi all’Accademia Carrara
di Bergamo nel 1664, quando ancora
si trovava al museo Settala di Milano, era catalogato come il ritratto
di una meretrice eseguito da Leonardo: “Mulier, creditur meretrix, opus magni
illius pictoris Leonardo a Vincio”. Come se non bastasse un’altra versione
dello stesso soggetto a cui si sono senza dubbio ispirati Raffaello e Giulio
Romano cone le loro “fornarine”, realizzata da un artista della scuola di
Fontainebleau e conservata al museo di Digione, rappresenta la nostra
cortigiana nell’atto di portarsi una mano al petto tenendo tra le dita un
medaglione ovale nel quale si sarebbe riconosciuto il profilo di Leonardo con
un’iscrizione che reca la data del 1501.
La Gioconda nuda dell’Accademia Carrara di Bergamo si lega a
Cremona anche per un’altra strana coincidenza. Agli inizi del Novecento l’opera
si trovava presso un’antiquaria di Varese; nel 1909 veniva acquistata dal
signor Cesare Pisoni (Soresina 1846-Milano 1924), un industriale e collezionista
d’arte della nostra provincia, ma naturalizzato milanese. Fu donata da questo,
insieme a molti altri dipinti dal Sei all’Ottocento, all’accademia Carrara di
Bergamo, dove giunse il 20 ottobre 1924. Il soggetto si ispira ad un’invenzione
di Leonardo, la cosiddetta “Gioconda nuda”, nota solo attraverso un disegno
autografo dell’Ermitage, ma riprodotta in un gran numero di copie e varianti.
L’esemplare in questione fu oggetto di un’accanita disputa attributiva.
Inzialmente ritenuta autografa di Leonardo, venne poi riconosciuta come
risalente al XVII secolo. Ascritta dapprima all’ambiente di Jean Bruegel des
Velours (1568-1625) è stata successivamente attribuita a Giulio Cesare
Procaccino (1574-1625), mentre i fiori ai lati della figura su considerano
eseguiti dal congiunto Carlo Antonio. Il dipinto è un olio di cm. 79x61. Sul
verso vi si trova un sigillo con gli stemmi delle famiglie milanesi Cravenna e
Settala. Il particolare lo fece collegare ad un esemplare già citato nel
catalogo del museo Settala di Milano al n. 33, del 1664. Non ci sono note, al
momento, ulteriori attribuzioni. Presso l’archivio della Carrara di Bergamo
sono conservati diversi documenti che riguardano il dipinto: in particolare una
lettera del 1925 del celebre architetto Luca Beltrami, conoscente di Cesare
Pisoni, che l’aveva a suo tempo osservato in casa del collezionista a Milano.
Tornando alla “Gioconda nuda” c’è chi sostiene che l’opera
potrebbe essere un ritratto di Gian Giacomo Cappotti detto il Salai (cioè
“diavoletto”), l’allievo prediletto di Leonardo e ritenuto, da chi sostiene la
presunta omosessualità dell’artista, il suo amante. Gli indizi sulla possibile
omosessualità di Leonardo sono legati solo ad un processo che subì per sodomia,
nel quale venne scagionato perché la denuncia era stata presentata ìn forma
anonima, e quindi non valida, e sulla lunghissima convivenza con Salai, a
proposito della quale lo scrittore d’arte Gian Paolo Lomazzo, pochi decenni
dopo la morte di Leonardo, fece dire all’artista in un dialogo alcune cose
“compromettenti”. In effetti, se guardiamo con attenzione, l’aspetto della
donna è piuttosto mascolino, con poco seno e le braccia nerborute, e l’effetto
generale è piuttosto ambiguo.
A lasciare indizi in tal senso contribuisce anche
la somiglianza di questo dipinto con il san Giovanni Battista di Leonardo della
Pinacoteca Ambrosiana, un’opera anch’essa dall’aspetto ambiguo, in cui il protagonista è molto simile alla “Gioconda nuda”. Il Battista, come si può
verificare nei Vangeli, era senza dubbio ben diverso da questa figura efebica
che sfoggia un sorriso malizioso, ed è possibile secondo alcuni che anche qui
Leonardo abbia ritratto il suo allievo prediletto. Di certo il Salai fu una
figura importante nella vita di Leonardo che lo accolse nella sua bottega a
dieci anni, considerandolo come un figlio. Pur di temperamento irrequieto e
poco diligente, mostrò da subito un gran talento diventando l’ombra del
maestro, così da indurre il Vasari a scrivere di lui: “Prese in Milano Salai
Milanese il qual era vaghissimo di grazia e di bellezza, avendo belli capelli
ricci e inanellati, de’ quali Lionardo si dilettò molto: e a lui insegnò molte
cose dell’arte, e certi lavori, che in Milano si dicono essere di Salai, furono
ritocchi di Lionardo”. Artista di discreto valore Salai riprende gli
insegnamenti del maestro; una delle pochissime opere attribuite a lui con
certezza, dove è visibile, e ormai certa, anche la mano di Leonardo, è appunto
la famosa “Giocoda nuda” appartenuta al cardinale Fesch ed oggi di proprietà
della fondazione Primoli. Qui Monna Vanna (come è stata chiamata questa
versione della Gioconda), sembra possedere la doppia natura umana (come il san
Giovanni), sia maschile che femminile, quale androgino perfetto, anche se
secondo alcuni non sarebbe difficile vedervi la fisionomia dello stesso Salai.
Ultimamente però Renzo Manetti, esperto di iconologia, nel saggio “Il velo
della Gioconda. Leonardo segreto” uscito recentemente presso l’editore
fiorentino Polistampa, affaccia l’ipotesi che Leonardo da Vinci avesse dipinto
due Gioconde, una delle quali, ora scomparsa, era ritratta nuda. Accanto
all’enigmatico ritratto di Monna Lisa esposto al Louvre, l’artista scienziato
rinascimentale avrebbe quindi dipinto una seconda Gioconda con la precisa
intenzione di formare un dittico e rendere omaggio ai due volti di una stessa
divinità, nientemeno che Venere. Comunque sia a noi piace pensare che la modella di questa variazione più
scollacciata dell’enigmatica figura leonardesca sia stata proprio la nostra
“Cremona”, che il maestro ha strappato all’anonimità a cui l’avrebbe relegata
la sua condizione, eternandola per sempre con l’arte.
E' più poetica la versione di Renzo Manetti, che però distrugge il radicamento della ragazza. Che non è bella: perché Leonardo non ha dipinto una "Gioconda nuda" bellissima? Si sarebbe limitato a una rappresentazione realistica? Vicenda davvero molto interessante in ogni caso.
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