Il parcheggio della Coop in via del Sale un campo di
battaglia. Non per le auto, beninteso, ma per le galee veneziani di oltre
cinque secoli fa. La scoperta sensazionale è stata fatta da Giulio Grimozzi,
già presidente del Laboratorio del Cotto, ed è frutto di una scrupolosa ricerca
che, alle fonti storiche, ha affiancato i rilievi tecnici delle triangolazioni
geometriche.
La battaglia ci cui parliamo è quella combattuta sul Po il
21 e 22 giugno 1431 quando 35 galee della Serenissima, giunte da Venezia per
dar man forte al conte di Carmagnola che assediava Cremona, furono sgominate
dalle navi dei Visconti nella più grande battaglia fluviale mai combattuta sul
territorio nazionale. Spettatori i cremonesi che, meravigliati, osservavano la
scena dall’alto delle torri e dei campanili. Ed è proprio quest’ultimo
particolare che ha convinto Grimozzi ad approfondire la questione: nelle
cronache dell’avvenimento si dice che i navigli veneziani avevano gettato
l’ancora ad un “tiro di archibugio” dalle mura, quindi a circa 350 metri di
distanza, tanti quanti erano consentiti dalla gittata dei proiettili utilizzati
da questi prototipi dei nostri fucili.
Il problema era capire in quale punto esatto del Po si
svolse lo scontro. Dai dati raccolti, osserva Grimozzi, si può desumere con
buona certezza la posizione nello specchio d’acqua costituito dall’ansa che il
fiume formava di fronte a Porta Po Vecchia, collocata all’inizio di via del
Sale all’incrocio con via Cadore. Calcolata la gittata dei proiettili degli
archibugi in 350 metri si arriva nell’area del parcheggio della Coop. La
posizione è stata confermata valutando le linee di osservazione del popolo che,
una volta salito sui campanili di Sant’Omobono, San Marcellino e San Pietro al
Po, osservava lo scontro: le linee di osservazione di intersecano proprio in
quel punto.
Oggi ci risulta difficile immaginare una battaglia di queste
proporzioni. Non riusciamo a concepire come una flotta di una trentina di navi
abbia potuto risalire il Po da Venezia fino alle mura di Cremona, ed i libri di
storia, che narrano le gesta marinare della Repubblica veneta, non ci
soccorrono in questo sforzo di immaginazione. La stessa conoscenza dei luoghi
attuali non ci aiuta: dove dovrebbe esserci uno specchio d’acqua oggi c’è
invece il parcheggio di un centro commerciale. Come è possibile?
Occorre ricordare che l’alveo del Po nel XV secolo non era
irreggimentato e le sue sponde erano distanti anche quindici chilometri l’una
dall’altra, in pratica dalle mura di Cremona a Monticelli d’Ongina e la sponda
cremonese era quasi a ridosso della cinta muraria da ovest a sud-est al punto
che le acque la lambivano per un lungo tratto da poche decine di metri
dall’attuale via Milano fino a San Sigismondo. Mentre paludi e lanche
separavano il corso vivo della corrente dalle sponde piacentine, le acque del
Po lambivano la città oltre l’insula fluvialis, collocata nei pressi dell’attuale piazza Cadorna.
Data la larghezza dell’alveo e la portata del fiume che non doveva essere molto
differente dall’attuale, la corrente del Po doveva essere prevalentemente di
tipo lacustre e poteva consentire facilmente la navigazione a remi e persino a
vela anche contro corrente, con fondali mediamente poco profondi ma tali da
consentire le manovre delle galee anche in assetto da battaglia.
Quella mattina del 21 giugno 1431, dunque, le galee
veneziane erano giunte sotto le mura di Cremona con una certa facilità,
pensando di farne facile preda, stante la loro indiscussa capacità marinara.
Le galee veneziane erano imbarcazioni equipaggiate con circa
25-30 rematori di dimensioni ordinariamente comprese entro i 41 metri di
lunghezza, per 6,50 di larghezza, 2,80 di
altezza con un metro di pescaggio e un dislocamento di circa 250 tonnellate,
anche se si ha notizia di galee lunghe anche cinquanta metri. A prua vi era un
castelletto chiamato “rambata”. a poppa il padiglione in cui era ricavato
l’alloggio per gli ufficiali.
Galea veneziana del XV secolo |
I rematori erano quasi tutti condannati (i galeotti) e
l’equipaggio armato era prevalentemente costituito da marinai greci, turchi e
albanesi che venivano pagati sulla base del numero di teste che presentavano
alla fine di ogni combattimento per il conteggio e la riscossione del compenso.
Tuttavia persero la battaglia. I loro piani vennero
vanificati probabilmente per colpa di un paio di errori di valutazione: il
primo fu sicuramente la sottovalutazione della forza dell’avversario. Infatti
Cremona disponeva di una marineria agguerrita e, soprattutto, di una secolare
tradizione di navigazione che risaliva ai tempi delle Crociate, quando i
cremonesi avevano inviato oltremare galee, dette Busa, con cento cavalieri
ognuna. In pratica, calcolando che ogni cavaliere si tirava dietro scudieri,
armigeri, stallieri, cavalli armi e vettovaglie, oltre ai 1500 artigiani citati
da Francesco Robolotti, la flotta cremonese doveva essere numericamente di
tutto rispetto. Un altro motivo della sconfitta va ricercato nell’atteggiamento
del duca di Carmagnola.
Questi avrebbe dovuto attaccare la città da terra, cosicché
Cremona si sarebbe trovata tra due fuochi, impegnata su due diversi fronti. Ma
questo non avvenne, senza che il motivo sia stato chiarito.
Di fatto il Carmagnola, fosse per ritardo o tradimento, finì
i suoi giorni sul patibolo allestito in piazza san Marco dove fu decapitato con
l’accusa di alto tradimento. Cremona, peraltro, poteva godere nello scontro di
forze fresche, contrariamente ai veneziani giunti sotto alle sue mura dopo
giorni di viaggio.
Le navi, dunque, si schierano in ordine di battaglia. Le
donne cremonesi, temendo il peggio, si rifugiano nelle chiese e dove capita, ma
soprattutto si prostrano in preghiera davanti alle reliquie dei santi
protettori, a Sant’Eligio, dove riposa Sant’Omobono, e San Tommaso, che
conserva le spoglie dei martiri Marcellino e Pietro. Mentre la città trema,
temendo il saccheggio, la flotta veneziana si dispone su tre schiere: la prima,
di dodici triremi agli ordini di Niccolò Trevisan, è quella più efficiente per
armamento e valore di uomini. Su ogni galea prendono posto esperti capitani
appartenenti alle famiglie più celebri del patriziato veneto: i Pesaro, i
Soranzo, i Delfino e i Da Ponte. Robustissime catene legano tra di loro le navi
per costituire un sicuro argine in previsione dell’attacco dei viscontei.
Altre quindici navi vengono disposte come copertura dei lati
del cuneo centrale, mentre altre navi cariche di rifornimenti sono poste dietro
ed attendono gli sviluppi dello scontro. Lo stesso criterio di disposizione
tattica viene adottato dai viscontei: venti navi disposte a cuneo e altre venti
più leggere ed adatte ad interventi di emergenza sulle ali. Il Piccinino, dopo
aver dato coraggio ai suoi, dà il segnale dell’attacco. Da quel momento si
combatte per quattro ore nell’afa del pomeriggio, tra lo strepito delle armi e
il ribollìo dei flutti. In un primo momento i veneziani sembrano avere la
meglio, ma all’imbrunire il combattimento viene sospeso quando cinque galee
viscontee sono state incendiate e distrutte e tre veneziane catturate.
Tutto viene rimandato al giorno successivo, ma nella notte
il Piccinino corre ai ripari e con il favore delle tenebre fa sbarcare i morti
ed i feriti e li fa rimpiazzare con giovani cremonesi pronti a difendere la
loro città costi quel che costi, mentre incombe il pericolo che intervengano le
truppe di terra del Carmagnola.
Il conte di Carmagnola |
Ma Niccolò Trevisan che guida la flotta veneta cambia
improvvisamente strategia, disponendo le sue galee su due sole schiere. Alle
prime luci dell’alba del 22 giugno, dopo una notte di veglia trascorsa in
preghiera nelle chiese illuminate da ceri e torce e nel medicare i feriti nello
scontro precedente, riprende la battaglia ancora più furente. Nello scontro
vengono lanciati i proiettili più disparati: pietre, saette, dardi, torce
infiammate, missili con pece e zolfo infuocati e anche vasetti colmi di calce
viva, ma vengono utilizzati anche balestre, schioppetti e bombarde.
Mentre regna la confusione fulmineamente entrano in azione
le due più potenti navi viscontee, guidate da Pasino degli Eustachi e da
Pietrobono da Parma: due galee robustissime, lunghe quaranta metri e larghe più
di sei, sospinte dalle braccia di 126 rematori disposti in gruppi di tre su
ciascuno dei 46 remi e gli ultimi 21 per lato: come lanciate da una catapulta
si fiondano contro il cuneo formato dalla flotta avversaria, schiantando tutto
quanto incontrano nella loro corsa, remi, chiglie, catene. I mille soldati
viscontei, ancora freschi, hanno ragione dei tremila combattenti veneziani
stremati dalle lunghe lotte corpo a corpo, colpendoli con i terribili verettoni,
delle lance corte e potenti. Le galee venete, sospinte a valle dalla corrente
ormai abbandonate a se stesse prive di rematori e di remi, fracassati dalle
prue nemiche, vengono ancora ripetutamente colpite ed affondate. Il resto della
flotta viscontea, guidata da Giovanni Grimaldi, si infila tra la riva e l’ala
sinistra della flotta veneta e le dà il colpo di grazia. Dopo dodici ore di
combattimenti sul Po galleggiano i resti dell’armata veneziana.
Dopo aver atteso inutilmente l’arrivo del Carmagnola al
capitano veneto non resta che dare il segnale della ritirata, dopo aver difeso
strenuamente i resti della sua flotta,
solo quattro galee ormai impantanate nei bassi fondali. Lui stesso si dà
alla fuga su una piccola barca travestito per non farsi riconoscere. Il resto
della flotta, inseguito dai vincitori, trova rifugio a Pontelagoscuro. Sul
campo rimangono i resti di 31 galee veneziane, ottomila tra morti, dispersi e
prigionieri, catturate tutte le navi da carico ricche di rifornimenti e
vettovaglie, e condotti in catene a Pavia i marinai libanesi, greci e dalmati.
E per tre giorni i cremonesi fecero festa per lo scampato
pericolo. Rinunciando a dividersi il prezioso bottino di guerra, con una intera
nave catturata stipata di vesti preziose, damaschi e spezie orientali, accesero
luci intense sul Torrazzo, sul palazzo comunale e sulle torrette della
Cattedrale.
E la gioia veniva anche a cancellare il ricordo di due
precedenti sconfitte subite dai viscontei sulle stesse acque del Po nel 1426 e
1427. Ma era soprattutto felice il comandante pavese Pasino degli Eustachi che
in quelle occasioni aveva dovuto inchinarsi alla maggiore esperienza
dell’ammiraglio veneziano Francesco Bembo che aveva risalito il Po fino alla
confluenza del Ticino, minacciando la stessa Pavia.
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