Era il 21 giugno del 1875,
centoquarant'anni fa, quando la giunta comunale, dopo una lunga
discussione, pose le basi per la realizzazione dei giardini pubblici
di piazza Roma sull'area occupata fino a pochi anni prima dalla
basilica e dal convento di San Domenico. Uno dei più discussi
interventi urbanistici della storia cremonese. Prova ne sia il lungo
dibattito che precedette la decisione, di fronte alla vista del
grande vuoto lasciato dalle macerie. Nessuno dei 62 progetti
concorrenti al concorso artistico bandito dal Comune con un premio di
tremila lire aveva soddisfatto i committenti: si prevedeva di
riutilizzare parte dell'area nella zona adiacente le case Anselmi e
Pagliari, per la costruzione di un edificio scolastico, e parte con
la sistemazione di un giardino pubblico. Ma l'idea era poi caduta
dopo le rimostranze di un gruppo di autorevoli cittadini, fra cui
Libero Stradivari, Ettore Sacchi, Luigi Ratti, Luigi Monteverdi e
Stefano Bissolati. L'impasse era stato poi superato dall'ingegnere
Ruggero Manna che, supportato da numerosi amici, aveva proposto il
progetto di un giardinetto provvisorio da allestire in occasione
della Fiera di Settembre.
Già all'indomani della decisione fu
affidato l'incarico al giardiniere Giuseppe Barozzi che vi lavorò
per tutto il mese di agosto in modo che agli inizi di settembre fosse
pronto il giardinetto, che occupava la prima parte di piazza Roma,
dove attualmente sorge il monumento ad Amilcare Ponchielli. La
realizzazione fu accettata molto bene dalla cittadinanza, tanto che
l'assessore Vacchelli aveva indirizzato una lettera di ringraziamenti
a Ruggero Manna: “Uno dei divertimenti più belli e simpatici che
ha avuto la nostra Fiera, fu senza dubbio quello da V.S. Ideato,
coll'improvvisato giardinetto in piazza Roma. Con tale opera che V.S.
propugnò con quella forza di volontà che è dote degli animi eletti
ed ancora pieni di giovinezza, e condusse a termine con tanto zelo,
abnegazione e sapere V.S. ha sciolto un problema purtroppo da molti
ancora ritenuto insolubile a Cremona, di fare cioè un giardino a
simpatico ritrovo e con una spesa così mite. Di tutto questo mi è
dolce il poter dire che Cremona va debitrice a V.S. Soltanto e che ne
serberà la più indelebile memoria e riconoscenza, e mi tanto più
caro il sapere di essere con ciò l'interprete dei sentimenti
dell'intera cittadinanza. Accolga V.S. In particolare i
ringraziamenti della Giunta comunale e della commissione divertimenti
per la fiera 1875 e mi creda con distinta stima e considerazione”.
Frattanto proseguiva il dibattito sul
futuro dell'area man mano che proseguivano le demolizioni. Vennero
rispolverati nuovamente vari progetti, fra cui quello dell'ingegnere
Vincenzo Marchetti, che prevedeva portici con negozi e la
risistemazione dei fabbricati già esistenti per le scuole comunali
intorno al giardinetto “square”. A superare le indecisioni ci
pensò l'ingegnere Signori che a nome del consiglio comunale si
rivolse ai fratelli Roda, architetti specializzati nel settore che
già avevano realizzato il parco del Valentino a Torino. Il nuovo
progetto tecnico divideva il giardino in due parti: una, destinata in
particolare per l'ascolto e la partecipazione a spettacoli musicali,
con un chiosco in legno che potesse accogliere le bande ed in gruppi
musicali in genere, si estendeva verso sud ed era costituita “da
una larga piantata di umus montana”, disposta in filari regolari
distanti l'uno dall'altro quattro metri con un viale ellittico;
l'altra parte invece sarebbe stata adibita specificatamente a
giardino, con un vasto tappeto verde anch'esso di forma ellittica,
dolcemente ondulato, ornato con varie piante per offrire ombra, oltre
che per abbellire; altri due prati erbosi e una scogliera alta un
metro e mezzo nell'angolo nord est dell'area completavano il disegno
del giardino che doveva poi essere tutto circondato da una siepe di
viva “thja” appoggiata a fili di ferro zincato. Quest'ultima
venne poi sostituita con una cancellata in ferro sostenuta da uno
zoccolo in muratura. Si lasciava uno spazio libero a ridosso delle
case Anselmi e Pagliari per l'eventuale costruzione di un fabbricato.
Il preventivo era di 30.000 lire che poi, a consuntivo, passarono a
38.000. Sia il progetto tecnico che il preventivo delle spese furono
approvati a si diede subito inizio alle pratiche per il prestito
finanziario da parte della banca Popolare, che si protrassero a
lungo, mentre continuavano i lavori demolizione e dispianamento. In
ottobre iniziarono così i lavori per il giardino, che finalmente
poteva sorgere in veste completa e definitiva come oggi lo vediamo,
se si escludono alcuni particolari introdotti con il restauro di
Andreas Kipar nel 2002. Ad esempio, la bellissima e gigantesca
magnolia che ancora oggi possiamo ammirare nell'aiuola piccola vicino
alla fontana delle Naiadi fu donata al Comune in quegli anni dal
signor Augusto Pizzamiglio e come lui, tanti altri cittadini
facoltosi donarono molte piante di diverse varietà per decorare il
giardino. Più tardi si tentò anche di installare delle voliere che
potessero accogliere volatili di varie specie, tra cui anche delle
aquile, e delle gabbie che solo per poco tempo ospitarono un gruppo
di mufloni. Il giardino vero e proprio fu terminato nel maggio 1879 e
tutta l'area, con la cancellata e le cinque entrate con la goda per
la musica fu pronta e sistemata durante l'estate,compresi i vasi
ornamentali sul cui piedestallo rimase, a ricordare la presenza
dell'antico complesso di San Domenico, la scarna epigrafe di
Bissolati.
Tra le varie proposte per la
sistemazione di piazza Roma era emersa l'esigenza di realizzare la
costruzione di un edificio che potesse ospitare il mercato generale o
quello dei bozzoli, oppure che potesse accogliere la fiera annuale
settembrina e in ogni caso che fosse dotato di un vasto porticato che
potesse essere adibito ad esposizione, costituendo un importante
centro di informazione commerciale e artigianale per la città.
All'interno di questo fervore di attività e di ricerca di novità,
nel corso del 1879 era nata l'idea di organizzare una “Esposizione
industriale-artistica” per l'anno successivo, in contemporanea con
il Concorso Agrario regionale del 1880. L'apposito comitato si mise
alla ricerca di una sede idonea, visitando i palazzi Dati di via
Palestro, l'Ala Ponzone, il palazzo vescovile, il Seminario in via
Villa Glori, il palazzo Trecchi ed i locali del Ginnasio, Liceo ed
Istituto Tecnico, trovandoli tuttavia inadatti allo scopo. Fino a
quando da Ferdinando Podestà venne presentata una soluzione
alternativa per la realizzazione di un edificio in legno da
edificarsi sul lato nord del giardino di Piazza Roma che, pur
eccedendo i limiti di spesa previsti, venne accettata con riserva e
dopo una crisi all'interno dello stesso comitato organizzatore. Si
pensò di occupare l'area rimasta libera in piazza Roma dopo
l'allestimento dei giardini pubblici che, del tutto inutilizzata,
stava andando in rovina. Il progetto prevedeva che l'armatura e le
decorazioni dell'edificio fossero in legno e ferro, l'ossatura in
legno, le fondamenta e i dadi di sostegno in muratura, utilizzando
eventualmente anche il materiale della cinta a secco che copriva
l'area rimasta libera dei giardini. Il palazzo avrebbe occupato una
superficie di circa tremila metri quadrati dei 5000 ancora
disponibili, con cortili, giardini e una cancellata di protezione,
che dividesse i tre corpi frontali sporgenti dell'edificio dai
giardini pubblici. Così il giornale “Interessi Cremonesi” del 22
agosto 1880 lo descriveva: “I visitatori troveranno un disposizione
logica-semplice dei locali, senza troppi giri e rigiri: tre ampi
saloni al pian terreno e tre al piano superiore, collegati da un
terzo salone, due tettoie eleganti, quattro cortiletti a giardino.
L'intero edificio è in legno: i dadi di sostegno in muratura. Al
piano terreno le tre sale sono divise da una fila di eleganti
colonnette di sostegno: quelle della sala di mezzo (la più vasta)
sono in ghisa, di un disegno svelto e grazioso, e fuse nella fonderia
Tesini-Podestà. Al piano superiore invece l'armatura sostiene il
soffitto. Le tappezzerie sono dei più svariati e graziosi colori.
Alle finestre in alto si ammirano tendine sciolte di paglia, al basso
tende di tela. Lo scalone è comodo, largo e in adatta posizione
nella galleria centrale, in cui vi sarà pure il servizio di caffè.
Una elegantissima scala a chiocciola in ghisa servirà a rendere più
comoda la circolazione. A mezzo dello scalone un amplissimo specchio
rifletterà la folla che salirà al piano superiore. I tre corpi di
fabbricato che, come appare nella prospettiva qui unita, si avanzano
verso il giardino, verranno poi riuniti da una tettoia che si sta
costruendo, e che non appare quindi nel disegno, e che attraversa i
due cortili laterali e i due giardinetti. L'entrata al palazzo è
alla destra (guardando il disegno) l'uscita alla sinistra (c.s.).
L'apertura che appare segnata nel corpo principale servirà per
l'ingresso di S.M. Il Re, se verrà a visitare la mostra. Gli oggetti
di decorazione sono in zinco, le colonnette e l'elegante ringhiera e
balaustra dello scalone in ghisa, il tutto venne fuso espressamene
nella fonderia Podestà.
Si era giunti alla vigilia
dell'apertura della Mostra Industriale-artistica quando, la notte tra
il 29 e il 30 agosgo 1880, la città fu colpita da un violento
uragano: un vento impetuoso soffiava incessantemente, portando
sferzanti scrosci di pioggia che si riversavano nelle strade della
città tra lampi e tuoni. Improvvisamente il buio della notte fu
rischiarato da un immenso incendio che, tra fiamme altissime e vapori
biancastri, in poco più di un'ora distrusse completamente il palazzo
dell'Esposizione. Le faville furono disperse dal vento a grande
distanza e il fuoco si propagò rapidamente alle case vicine,
minacciando le proprietà Anselmi, Pagliari e Bellini, e il teatro
Ricci poco distante. I volontari e le forze dell'ordine accorsi sul
posto, non poterono fare altro che costatare la distruzione del
palazzo e di adoperarono quindi per circoscrive l'incendio cercando
di proteggere le abitazioni. “La notte dal 29 al 30 agosto del 1880
– scriveva il “Corriere Cremonese” - rimarrà memorabile negli
annali della storia di Cremona. In quella notte orribile,
temporalesca. Uno spaventevole incendio incendio distrusse uno degli
edifici più simpatici, più eleganti che fossero stati costruiti
nella nostra città: l'edificio destinato all'Esposizione
industriale-artistica, fabbricato appositamente con tanti dispendio
nella Piazza Roma. Alle 4 ¼ del mattino si svilupparono le prime
fiamme e alle 5 ½ il fabbricato era completamente distrutto. Ma
tutto non finì lì. Le fiamme aiutate da un vento impetuosissimo
innalzandosi ad un'altezza prodigiosa si gettarono contro le vicine
case Anselmi, Pagliari e Bellini e vi appiccarono fuoco producendo
guasti rilevanti. Era uno spettacolo orrendo. Una colonna di fuoco
della larghezza di circa cento metri si stendeva sopra il gruppo di
case che circondano il teatro Ricci e che corre da piazza Roma alla
chiesa di S. Agostino, suscitando negli abitanti di queste una panico
indescrivibile. Tizzoni ardenti, pezzi grossissimi di cartone
incatramato accesi volavano al di sopra delle dette case trasportati
dalla furia del vento, ad una distanza enorme, cadendo poi sui tetti
con grave pericolo di incendio. E' così che al tetto del teatro
Ricci si apprese pure il fuoco che però venne subito spento mercè
il pronto soccorso dei cittadini edella truppa: e che anche al vicino
albergo d'Italia si fosse pure in pensiero per un lieve principio
d'incendio. Intanto in poco più di mezz'ora distrutto il grandioso
palazzo, cui riuscì inutile ogni tentativo per salvarlo almeno in
qualche parte, l'opera dell'autorità e dei cittadini si rivolese
tutta sulle tre vicine case in preda alle fiamme; e dopo due ore di
lavoro e di sforzi inauditi il fuoco in queste veniva completamente
spento. Il veto e la pioggia non cessarono un solo istante durante il
disastro che distruggeva un fabbricato che formava l'orgoglio della
nostra città. L'intero comitato ordinatore della mostra e le
autorità municipali e governative erano sul luogo al primo annunzio
dell'incendio: la truppa, i carabinieri accorsero pure a prestare
opera volonterosa, ma era inutile. L'ampio fabbricato tutto avvolto
nelle fiamme non permetteva di accedere interamente, sicchè si
dovette assistere col cuore straziato allo sfasciarsi di un
fabbricato che ogni cittadino cremonese guardava con una certa
compiacenza“.
Sulle cause dell'incendio fiorirono le
ipotesi. Secondo gli uomini a guardia del palazzo, alloggiati al
piano superiore, le fiamme si sarebbero sviluppate da una delle tende
del piano inferiore che, sbattuta dal forte vento, si sarebbe
infiammata venendo a contatto con una lampada a gas, propagando il
fuoco al soffitto del piano inferiore. Più inquietante un'altra
ipotesi, formulata in forma anonima da un giornalista del “Corriere
di Cremona”: il pavimento del piano terreno era formato da assi
bucate per permette una migliore ventilazione dell'ambiente, sotto le
quali erano stati ammassati in quantità enorme i trucioli prodotti
dalla lavorazione del legno durante i lavori per la costruzione del
palazzo. Se qualcuno degli uomini di guardia avesse trasgredito al
divieto di fumare, avrebbe potuto facilmente causare quella scintilla
che avrebbe scatenato l'incendio. Più maliziosamente vi era chi
osservava che il palazzo sarebbe stato assicurato per 75.000 lire
presso l'Assicurazione Generale di Venezia e che 55.000 lire fossero
state liquidate al Podestà, che aveva rinunciato a sua volta al
compenso di 15.000 lire dovuto dal Comitato che gli erano state
versate in precedenza. Lo spegnimento dell'incendio richiese una
grande dispendio di uomini e di risorse: 119 volontari, tra
brentadori e cittadini, e 217 uomini delle forze militari, più altri
della Vigilanza urbana e della Polizia lavorarono incessantemente per
molte ore, con l'aiuto di alcune macchine fornite dal Comune e da
alcune ditte, utilizzando tredici botti grandi e 19 piccole per il
trasporto dell'acqua.
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