martedì 5 novembre 2019

Gl ultimi giorni della marchesa Carla Medici del Vascello

La marchesa Carla Medici del Vascello
al matrimonio della figlia di Farinacci nel 1938
Tutti conosciamo la tragica fine della marchesa Maria Carolina Soranzo Medici del Vascello, ultima proprietaria della villa di San Giovanni in Croce, morta per le conseguenze di uno scontro a fuoco durante la fuga di Roberto Farinacci da Cremona. Carolina, più nota come Carla, morì all'ospedale di Merate l'11 maggio 1945, dopo una lunga agonia. Ma nuovi documenti ed il racconto di quei giorni riportato dal giornalista Mario Mori, permettono di ricostruire le ultime ore della marchesa ed il ritratto di una donna che andò incontro al suo destino per amore. In realtà Carla, che di cognome faceva Mocenigo Soranzo, era già sposata con Francesco Medici del Vascello. Da tempo, però aveva abbandonato la villa di Palvareto, come allora si chiamava San Giovanni in Croce, ed era andata ad abitare in un appartamento in affitto in piazza Cavour a Cremona. Nei giorni che precedono il 25 aprile è molto nervosa: dà ordini concitati che poi contraddice, telefona ora all'uno ora all'altro, fa e disfa le valigie. Inizia a dubitare anche lei, come stanno facendo d'altronde tutti quelli che non hanno ancora abbandonato il ras, che le fantomatiche armi segrete tedesche di cui le ha parlato Farinacci, esistano davvero. Anche la granitica fiducia che aveva avuto sino a poche settimane prima nell'invincibilità della Germania di Hitler, vacilla paurosamente. Si rende conto di essere rimasta paurosamente sola: è malvista da gran parte dei suoi familiari che non le hanno mai perdonato le sue sfrontate esibizioni di fede politica nel fascismo, ed è detestata dalla popolazione di Palvareto e di Cremona per il suo contegno altezzoso, anche se, a dimostrare la sua vocazione filantropica, una volta all’anno, nel giorno di San Carlo in occasione dei festeggiamenti per il suo onomastico, offre cioccolata ai bambini dell’asilo.  Sempre a causa dei suoi modi autoritari si è circondata di antipatie anche nel ruolo di dirigente della G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio) prima e del Fascio femminile poi, al punto che le malelingue mettono in giro la storiella che la marchesa sia in realtà una spia degli inglesi, lei, che nei 45 giorni tra il 25 luglio del 1943 e l'8 settembre, era finita addirittura in carcere per le sua incondizionata fede nazifascista. E poi c'è il suo chiacchierato rapporto con Roberto Farinacci, confermato dal fatto che il ras di Cremona avesse scelto il castello di San Giovanni in Croce per realizzarvi il suo rifugio antiaereo. Farinacci se ne vantava, e più di una volta aveva cullato la segreta speranza che gli aerei della Raf concentrassero i loro sforzi su Cremona, per poter poi dire che, ritenendolo un grande stratega, non potendo colpire lui avevano ferito almeno la sua città.
La situazione sta precipitando: gli alleati, dopo aver sfondato l'ultima difesa tedesca, stanno per varcare il confine del Po. La marchesa capisce che ormai non c'è più nulla da fare e decide di fuggire. Ha dato ordine al proprio autista di tenere in garage un'auto pronta per la fuga ma quando, qualche ora dopo, è giunto il momento di partire, la macchina è sparita. A sottrarla è stato lo stesso Farinacci che, avuto sentore della fuga, ha deciso che la marchesa parta invece insieme a lui, ed ha fatto nascondere l'auto in un luogo segreto che solo lui conosce. La marchesa apprende il fatto con filosofia e, con una certa tranquillità, fa buon viso a cattiva sorte. Il giorno dopo, però, è radio Londra ad annunciare che la fine del regime è ormai prossima. Carla non può più aspettare, la città è percorsa in lungo e in largo da motociclette e automezzi tedeschi e fascisti, spesso mascherati con fronde d'albero, e i resti del 51° Corpo d'armata tedesco hanno iniziato ad attraversare il Po in ritirata. Decide nuovamente di organizzare la fuga, da sola. Incarica l'autista di approntare una nuova macchina ma, quando questo si reca nell'autorimessa, trova ad attenderlo Mario Maestrelli, caposquadra della GNR, che verrà giustiziato pochi giorni dopo, il 1 maggio, alla Caserma del Diavolo. Imbraccia un mitra e glielo punta contro, intimandogli di recarsi alla propria abitazione, caricare in auto i suoi familiari e portarli immediatamente in salvo altrove. La marchesa incassa anche questo colpo. Ormai è rassegnata alla sua sorte e capisce che non può far nulla per evitarla. E ad una persona amica confida: “Va bene, partirò con Farinacci. Del resto sono tanto contenta di poter rimanere finalmente sola con lui”.
Arriva il giorno della partenza. E' il 26 aprile, fa freddo e c'è nebbia. E' quasi mezzogiorno. Farinacci ha appena lasciato la sede del “Regime fascista” dove, in tipografia, ha incontrato tutti gli operai: “Io parto – ha detto – Vi affido uno stabilimento in piena efficienza. Sappiatelo conservare perchè è da questa azienda che voi traete il vostro pane. Arrivederci fra due mesi!”. Nel corridoio ha salutato i redattori chiedendo chi volesse seguirlo. Solo in tre hanno risposto all'appello: il capo redattore Mario Mangani, il suo segretario personale Emanuele Tornaghi e, di malavoglia e solo perchè costretto, Angelo Ferdinando Sampietro. Sceso in piazza, in quel momento abbastanza affollata, Farinacci incontra Vittorio Dotti, segretario del partito repubblicano che, dopo l'8 settembre, era stato l'unico a scrivergli una lettera piena di sdegno, pubblicata sul quotidiano, e poi ripresa da giornali svizzeri, inglesi ed americani. Gli fa con la mano un gesto di saluto, “Auguri, io rimango”, risponde Dotti.
Davanti all'hotel Impero sono pronte tre auto berline nere. Sulla prima prendono posto i tre giornalisti Mangani, Sampietro, Tornaghi e l'autista della Questura Antonio Danielis. Sulla seconda, una grossa Bianchi, il maresciallo della Questura Campoccia, il milite della GNR Luigi Soldi, l'ex partigiano Rino Puerari e la GNR Nello Ceolin con il figlio sedicenne. Sulla terza, infine, una Lancia Aprilia, salgono Farinacci, che si mette al volante, la marchesa Medici al suo fianco, e una donna dai capelli neri, di cui non si è mai saputa l'identità e di cui si sono perse le tracce, forse perchè scesa in qualche sosta intermedia effettuata durante il viaggio. Il mesto corteo, preceduto da una motocicletta con sidecar guidata dal maresciallo della GNR Martinenghi, con a bordo i militi Bergamaschi e Sartori, si avvìa lungo corso Campi e Garibaldi, arriva a piazza Risorgimento e imbocca la statale per Bergamo. A Soncino viene raggiunto da altri cremonesi, da alcuni militi della brigata nera “Gentile” e della GNR di Reggio Emilia e da una colonna tedesca. Il viaggio prosegue tranquillo sino a Seriate, dove il convoglio viene intercettato da una trentina di partigiani della Brigata 56ª Garibaldi che ingaggia un combattimento, ma ha la peggio e lascia sul campo sette uomini, altri quattro sono feriti ed il resto vengono fatti prigionieri ed utilizzati come ostaggi, posti in piedi sulle auto per impedire altri attacchi. La colonna arriva a Bergamo dove il comandante tedesco raggiunge un accordo con i partigiani che presidiano le porte della città, gli ostaggi vengono rilasciati ed il gruppo ottiene in cambio un lasciapassare per l'intera provincia di Bergamo. I partigiani, però, riconoscono Farinacci, ma non possono venire meno agli accordi appena sottoscritti per tutti i componenti del gruppo in fuga. Si limitano, dunque, a lanciare un avvertimento: “Siano attenti, perchè al di là dell'Adda c'è una intera divisione partigiana armata di tutto punto e munita di autoblinde. Il nostro lasciapassare, ha valore sino all'Adda, dopo non più...”. Si tratta, evidentemente, di un tranello, ma Farinacci non se ne avvede e decide di proseguire la strada con la colonna tedesca. Con questa pernotta in una località vicino all'Adda e la mattina del 27 aprile, quando i tedeschi decidono di passare l'Adda a Brivio e puntare verso Lecco, Farinacci decide di abbandonare la colonna tedesca dirigendosi verso il milanese, a Oreno. Ma è in corso una battaglia tra i partigiani della 104ª Brigata Garibaldi Citterio ed una colonna fascista proveniente da Bergamo composta da circa una sessantina di mezzi, e presso Rovagnate la prima macchina del convoglio viene intercettata e fermata. Farinacci con la sua segue qualche centinaio di metri più indietro, si accorge di quanto sta accadendo e capisce che, se verrà fermato, sarà facilmente riconosciuto, per cui ordina all'autista, un agente di Ps che da tempo lavora per lui, di fare immediatamente inversione di marcia, prendendo la strada per Lecco che conduce al passo dello Stelvio. Ma la sua manovra non passa inosservata, perchè i partigiani erano stati avvertiti telefonicamente da quelli del primo posto di blocco chi trasportava quell'auto. Mentre gli occupanti della Bianchi vengono catturati, l'Aprilia nera forza un posto di blocco, subito inseguita da un gruppo di cinque partigiani del distaccamento di Merate che sparano alcuni colpi in aria, prima di mirare risolutamente all'auto che, crivellata di colpi, sbanda paurosamente prima di arrestarsi davanti allo stabilimento Rovetti di Beverate. L'autista resta ucciso sul colpo, mentre Farinacci, protetto dalla selva di bagagli e valigie che aveva fatto caricare sul retro dell'auto, è incolume, spalanca una portiera, balza a terra e si rifugia in una villa vicino, dove i partigiani, armi in pugno, lo catturano.
La marchesa Carla Medici del Vascello è stata colpita da un proiettile alla testa. Le sue condizioni appaiono subito disperate ed è lo stesso partigiano che ha sparato i colpi contro l'auto, Angelo Gerosa, a soccorrerla per poi trasportarla, qualche ora dopo, all'ospedale di Merate. Viene registrata alla pagina 393 con il nome di Medici Carla, fu Tommaso, da Palvareto (Cremona) di anni 49. Carla è in coma, paralizzata in tutta la parte destra del corpo ed ha perso l'uso della parola. Resta immobile nel letto d'ospedale e solo un flebile lamento le esce ogni tanto dalle labbra. Solo molti giorni dopo, quando le sue condizioni sembrano migliorare, chiede di poter scrivere, con una grafia quasi illeggibile, poche righe con una matita su un pezzo di carta: “Avvertite mio marito che è in Isvizzera e la mamma che Lily muore”.

Villa Medici del Vascello a San Giovanni in Croce
Il 28 aprile la radio dà la notizia del ferimento della marchesa e del suo ricovero nell'ospedale di Merate. A Palvareto tutti ne parlano, ma la più colpita è una popolana che per molti anni aveva prestato servizio come domestica alla villa Medici del Vascello. La marchesa, che negli ultimi tempi si era mostrata più nervosa ed irascibile del solito, aveva avuto con lei una serie di screzi ed infine l'aveva licenziata. Ma alla notizia del grave ferimento la donna sussulta. Mentre nel resto del paese la gente non se ne preoccupa, lei prende la decisione: andrà a Merate ad accudire la sua padrona. Parte a piedi, perchè non ha altri mezzi e non può dire dove va, per paura di essere tacciata di collaborazionismo. Ogni tanto trova un passaggio su una delle poche auto in circolazione e su qualche carro. Il viaggio dura quattro giorni. Quando arriva regna la più grande confusione: le strade sono percorse da uomini armati, mezzi militari vanno e vengono, ovunque sono ancora le tracce dei furiosi combattimenti nella battaglia della Brianza. La donna è spaventata e non sa a chi rivolgersi. E' in preda alla paura che qualcuno le chieda chi sia, dove vada, chi cerca. Poi ha un'idea: bussa alla porta dell'ospedale e chiede della madre superiora. Le confida il motivo del suo viaggio e della sua paura di essere scoperta a portare assistenza alla ex segretaria del fascio femminile di Cremona. Anche la suora è incerta sul da farsi, non è in grado di valutare quale potrebbe essere la reazione dei partigiani se ne venissero a conoscenza. Poi, però, trova la soluzione: procura una divisa da infermiera e gliela fa indossare in modo tale che, così vestita e sotto la protezione delle suore stesse, possa circolare liberamente nell'ospedale e visitare i degenti che desidera. E la donna resta al capezzale della marchesa giorno e notte, attendendo con trepidazione l'esito delle cure. Il chirurgo tenta, in extremis, un'operazione, che sembra riuscire fino a quando non subentrano le complicazioni di una polmonite. E' l'11 maggio, e la madre superiora assicura la donna che la marchesa “è morta bene”, con i conforti religiosi, nonostante una vita condotta all'ombra del “più fascista”. La domestica veglia la salma, la compone in un umile feretro ed è l'unica ad accompagnarla nell'ultimo viaggio nel cimitero di Vimercate dove, in fondo nell'angolo sinistro, è pronta la fossa. Vi viene posta sopra una modesta pietra su cui è inciso solo “Lily Soranzo”. Poi la dona torna, così come era venuta, a Palvareto. Nessuno saprà mai il suo nome.

venerdì 27 settembre 2019

Eusebio, un cremonese a Betlemme

Le grotte della  basilica della Natività di Betlemme
Nelle grotte della basilica della Natività di Betlemme, accanto al sacello dove, secondo la tradizione, San Girolamo mise mano alla prima traduzione della Bibbia, vi è il sepolcro di un suo discepolo: Eusebio da Cremona, il primo cristiano cremonese fino ad ora conosciuto. Una lapide incastonata nella pietra recita semplicemente “S. Eusebii ora pro nobis peccatoribus”, ed un'altra iscrizione moderna, ricalcata su una più antica, sottolinea che qui sono sepolti “Hieronymus et Paulianus frater eius, Eusebius Cremonensis, Vincentius presbiter, Lupinianus, Valerianus et plurimi alii”. Una piccola porta posta sul fondo della grotta della Natività immette in un corridoio che porta a un complesso di altre grotte. A queste, comunque, si può accedere direttamente dalla chiesa di Santa Caterina tramite una scala ripida, posta a destra della navata, che vi scende. Gli scavi archeologici, condotti da padre Bellarmino Bagatti, attestano che le grotte venivano già usate dal VI secolo a.C. e, a partire dal I sec. d.C., vennero adibite a tombe per i Cristiani. La prima grotta che si incontra al centro, scendendo dalla ripida scale, è la grotta di San Giuseppe, che ricorda il sonno del Santo riportato nel vangelo di Matteo, quando l’angelo gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, e fuggi in Egitto…» (Mt 2,13).
L'epigrafe del sepolcro di S.Eusebio
C’è poi a sinistra, una seconda grotta detta dei Santi Innocenti, a ricordo dei bambini fatti uccidere da Erode. Sul lato destro, invece, si notano i cenotafi in cui furono sepolti alcuni santi vissuti a Betlemme nei primi secoli: le due sante matrone romane Paola e sua figlia Eustochio che, giunte a Betlemme al seguito di San Girolamo, si dedicarono alla vita ascetica e cenobitica; Sant’Eusebio da Cremona, discepolo e successore di san Girolamo, e lo stesso San Girolamo, i cui resti secondo la tradizione furono portati prima a Costantinopoli e poi a Roma, dove dal XII secolo sono venerati nella chiesa di Santa Maria Maggiore. L’ultimo ambiente di questo labirinto di grotte e cunicoli è la grotta di San Girolamo, dove egli visse. Girolamo era nato a Stridone verso il 347 da una famiglia cristiana, che gli aveva assicurato un’accurata formazione, inviandolo anche a Roma a perfezionare i suoi studi. Da giovane aveva subito l'attrattiva della vita mondana, ma poi era prevalso in lui il desiderio e l'interesse per la religione cristiana. Ricevuto il battesimo verso il 366, si era orientato alla vita ascetica e, recatosi ad Aquileia, si era inserito in un gruppo di ferventi cristiani, da lui definito quasi «un coro di beati» riunito attorno al Vescovo Valeriano. Era poi partito una prima volta per l'Oriente, vivendo da eremita nel deserto di Calcide a sud di Aleppo in Siria. Ad Antiochia nel 379 Gerolamo riceve il sacerdozio e nel 382 si trasferisce a Roma, dove Papa Damaso I, conoscendo la sua fama di asceta e la sua competenza di studioso, lo assume come segretario e consigliere e lo incarica di riscrivere in latino il testo di una diffusa versione della Bibbia, detta Itala, realizzata non sull’originale ebraico, ma sulla versione greca detta dei Settanta.
Per fare questo lavoro Gerolamo resta a Roma dove sentendo più pungente il peso dei trascorsi giovanili avverte il contrasto tra mentalità pagana e vita cristiana e presto si scontra e polemizza con i nuovi cristiani, stigmatizzandone vizi e ipocrisie, dopo che l’imperatore Teodosio ebbe fatto del cristianesimo la religione di Stato. Intorno a lui si forma un gruppo di vergini e vedove, capeggiate dalla nobile Marcella e dalla ricca vedova Paola, con le figlie Blesilia e Eustochio, per vivere una vita ascetica fatta di preghiere, meditazione, astinenza e penitenza. Alla morte di papa Damaso I, la curia romana contrasta con grande determinazione ed efficacia l'elezione di Girolamo, anche attribuendogli una forte responsabilità nella morte della sua discepola Blesilla., deceduta probabilmente a causa dei continui digiuni. Data la singolarità dell'evento e la grande popolarità della famiglia di Blesilla, il caso solleva un grande clamore. Gli avversari di Girolamo affermano che le mortificazioni corporali teorizzate erano semplicemente degli atti di fanatismo, i cui perniciosi effetti avevano portato alla prematura morte di Blesilla. Nell'agosto 385, Girolamo seguito dal fratello Paoliniano, dal prete Vincenzo e da alcuni monaci a lui fedeli, s'imbarca da Ostia, seguito poco dopo anche dalle discepole Paola, Eustochio ed altre appartenenti alla comunità delle ascete romane e torna in Oriente.
Girolamo arrivò in Terra Santa nel 386 e si stabilì, insieme a Paola, vedova, e alla sua giovane figlia Eustochio, a Betlemme. Le grotte adiacenti a quella della Natività, prima delle tombe, divennero abitate e formarono il primo cenobio a Betlemme.
Per oltre trent’anni il monaco dalmata visse nella solitudine della sua Betlemme, bruciato dall’ideale ascetico, dalla lotta per l’ortodossia della fede, dalla ricerca della verità e soprattutto dalla passione per la Parola di Dio, che egli tradusse in latino. Girolamo univa alla conoscenza del latino e del greco quella dell’ebraico. Infatti, nel deserto di Calcide un giudeo-cristiano l’aveva iniziato alla conoscenza della lingua e un altro aveva rifinito la sua preparazione a Betlemme, durante sedute notturne di studio, che facevano affiorare alla mente di Girolamo l’incontro notturno di Gesù con Nicodemo.
Grazie a questa preparazione egli intraprese la traduzione dell’Antico Testamento dall’originale ebraico. Il mondo cristiano, allora, riteneva ispirata la traduzione greca detta dei Settanta. Girolamo affrontò parecchie difficoltà, tra le quali anche la fatica di procurarsi i testi che si trovavano in mano agli ebrei, custoditi gelosamente come si conviene a un testo sacro. Girolamo non esitò a rinunciare al sonno delle sue notti per lavorare sui testi che un rabbino gli portava prelevandoli dalle sinagoghe, così come non si accontentò di attingere direttamente l’ebraica veritas dal testo biblico, ma una volta afferratone il senso per se stesso, usava confrontare i risultati del suo lavoro con le interpretazioni tradizionali degli ebrei.
Fin qui l'opera di Girolamo, ma che ci faceva un cremonese in Terra Santa ai primordi dell'era cristiana, nel IV secolo dopo Cristo? A parlarci di Eusebio è San Girolamo stesso. Secondo quest'ultimo Eusebio sarebbe nato a Cremona in una famiglia agiata ed educato dai migliori precettori del tempo, ma in seguito, abbandonati gli studi di giurisprudenza, si sarebbe recato a Roma entrando nel gruppo di San Girolamo, decidendo di accompagnarlo nel pellegrinaggio che aveva deciso di fare a Gerusalemme, abbandonando la capitale, dove era malvisto per le sue posizioni a favore del celibato. I due attraversano il mar Ionio in mezzo alla tempesta, transitano per le Cicladi, si recano a Cipro, dove vengono accolti dal vescovo Sant'Epifanio di Salamina. Poi passano ad Antiochia, dove vengono ricevuti dal vescovo San Paolino, ed infine arrivano a Gerusalemme, dove visitano i luoghi della Passione, passano a Betlemme e si recano sul Calvario, sul monte degli Ulivi, il Tabor, la valle del Cedron, tra l'attuale spianata delle moschee ed il monte degli Ulivi, il castello di Emmaus. Poi si inoltrano in Egitto per osservare con i loro occhi come vivono gli eremiti della Tebaide, dove San Pacomio ha fondato la prima comunità cenobitica di Tabennisi. Infine tornano in Palestina per fermarsi a Betlemme, dove decidono di fondare il primo monastero, ben presto preso d'assalto da quanti desiderano abbracciare la regola che san Girolamo stesso si è dato.
Le epigrafi nelle grotte di San Gerolamo
A raccontare questo primo pellegrinaggio dei due è Francesco Ferrario, ripreso da Joseph-Francois Michaud nella sua “Storia delle crociate” del 1831 illustrata da Gustave Doré. Secondo lo storico i due cenobiti, non riuscendo a garantire vitto e alloggio ai numerosi pellegrini, decidono di ritornare in Italia per vendere i beni posseduti destinando il ricavato alle loro opere di misericordia. E' in occasione di questo secondo soggiorno italiano che ai due si sarebbe aggregata appunto santa Paola con la figlia Eustochio, che sarebbero poi partite per proprio conto per effettuare un pellegrinaggio fino in Egitto, e giungere infine a Betlemme dove, sotto la guida di San Girolamo, fondano una serie di alloggi per viaggiatori ed ospedali. Sappiamo da San Girolamo che Eusebio partecipa con il suo maestro alle grandi dispute teologiche dell’epoca. Rufino, avversario di Girolamo, lo descrive come un uomo molto impulsivo, ma di vita integra e austera. Fu legato da amicizia con il santo vescovo e poeta Paolino di Nola. Girolamo gli dedicò i commentari al libro di Geremia e al vangelo di Matteo. Nulla sappiamo degli ultimi avvenimenti della sua vita: succeduto al maestro nella guida del monastero di Betlemme, morì poco dopo, verso il 423. Fu tra i migliori collaboratori di San Girolamo, e forse anche autore di scritti in proprio nome, dato che gli viene attribuito un trattato sul mistero della croce. Tornò a diverse riprese in Italia, e forse fu anche a Cremona, sua città natale. Curiosamente però, nonostante Eusebio sia il più antico dei santi locali, l'eremo edificato tra il V ed il VI secolo nei pressi di Pizzighettone, in località Ferie, sui resti di quello che si è ritenuto essere un sacello di epoca romana, è dedicato ad un altro Eusebio, vescovo di Vercelli, nato in Sardegna nel 283 e nominato primo vescovo del capoluogo piemontese nel 345. Ciò si può dedurre anche osservando il dipinto esposto nell'abside di San Bassiano, la chiesa principale di Pizzighettone (dalla cui giurisdizione ecclesiastica dipende anche Sant'Eusebio), dove il santo viene ritratto con le insegne di vescovo e raffigurato con la mano destra che indica il Segno Trinitario, mentre nella sinistra, appoggiata su un libro, tiene uno stilo, di solito simbolo dei Dottori della Chiesa. Viceversa a Sant'Eusebio da Cremona è dedicata una tavola, parte della “cona” della Visitazione dipinta da Pedro Fernandez prima del 1516, conservata oggi al Museo di Capodimonte, che raffigura Eusebio di fronte agli eretici. Un'altra raffigurazione famosa è quella fornita da Raffaello nel miracolo attribuito al santo cremonese, una splendida tela realizzata tra il 1502 ed il 1503, conservata oggi al Museo d'arte antica di Lisbona.

Paolo Puerari in un breve testo dedicato al vescovo Cesare Speciano, “Breve narratione della vita et miracoli di Santo Eusebio, Nobile cremonese”, pubblicato a Cremona da Cristoforo Dragoni nel 1605, racconta alcuni miracoli compiuti dal cremonese a Betlemme: “Dopo la morte del glorioso San Girolamo si levò tra Greci una setta d'heresia pestilentissima; perilche congregando il Santissimo Eusebio, et tutti gli Vescovi, et altri Catolici, pregarono il pietoso Re del Cielo, che non volesse comportar, che la sua Santa sede fosse così iniquamente combattuta, et lacerata da sì falso errore; Onde avvenne, che passati tre giorni dell'oratione, et digiuni apparve la notte seguente al Beato Eusebio il glorioso Girolamo, et con benigne parole lo confortò a star di buono voglia, informandolo del modo, col qual havesse da batter a terra, e distruggere quel maledetto mostro d'heresia, si come fece poi il giorno sussequente, che radunati i Catolici, et Heretici al Presepio di Christo, et pigliando il Beato Eusebio il Cilicio del Santissimo Girolamo, pregando devotamente Dio, l'accostò a tre corpi morti, e subito, O meraviglia, o stupore l'anime che da lor eran già fatte pelegrine, vi tornarono a stanciar dentro. Questa gratia hebbe il venerando Eusebio per instinto del suo diletto Padre San Girolamo, et il frutto, che ne seguì fu tale, che molti Heretici, voltale le spalle a quella falsa dottrina, tornarono alla vera fede. Di più essendo un Monaco di quel suo Monastero diventato cieco, toccando con la sua faccia la faccia del Beato Eusebio, subito rihebbe intieramente la vista. Et portandosi a sepelire il suo santissimo Corpo, riscontrando un indemoniato, subito fu liberato, e fatto sano. Fu sepolto alla fine con molta riverenza ignudo in Betelemme a lato del suo caro Maestro, havendolo sopra vissuto d'anni duoi”.

I bambini di Vienna

Emilio Caldara
(Archivio storico Società Umanitaria di Milano)
La solidarietà non conosce confini, colori né ideologie. Ce lo insegna una bella storia di cent'anni fa, di cui furono protagonisti operai e contadini della nostra città. Nell'autunno del 1919 un sindaco di umili origini operaie, Emilio Caldara di Soresina, primo cittadino socialista di Milano, tese la mano agli ex nemici austriaci lanciando un progetto di accoglienza e fraternità destinato ad accantonare tutto l'odio maturato in quegli anni, prima che, nel giro di un lustro, il fascismo ne cancellasse con un colpo di spugna il ricordo.
I mesi che seguirono l'armistizio di Villa Giusti il 4 novembre 1918 fecero più vittime che la guerra stessa fra i bambini dell’Europa centrale. A causa del blocco economico la gente era ridotta alla fame e le malattie facevano strage tra i vinti. Prime ad accorgersi di questa situazione furono le donne inglesi che lanciarono una campagna di controinformazione costringendo a porre fine al blocco e a organizzare un’azione umanitaria di emergenza rivolta ai bambini dei paesi più colpiti dalla guerra, dando vita al Save the Children Fund . Anche da parte austriaca agli inizi di dicembre 1919 arrivano pressanti richieste di soccorsi per salvare un paese ormai prossimo al disastro e in Italia il dramma austriaco colpisce le coscienze e produce le prime iniziative locali di solidarietà. Cremona è tra le prime a rispondere.
La mattina del 10 dicembre l'Eco del Popolo pubblica l'appello sottoscritto da Antonino Campanozzi, segretario della Lega dei Comuni Socialisti; Ludovico D’Aragona, segretario della Confederazione Generale del Lavoro e AntonioVergnanini, presidente della Lega Nazionale delle Cooperative: “Vienna, la suntuosa capitale dell'infranto impero, in cui la vita aveva raggiunto i più alti culmini della gioia e degli agi, oggi dolora e si accascia sotto il tormento delle più atroci privazioni, della fame. Le notizie che ci giungono sono sempre più sconfortanti; e fra esse assumono un sinistro colore di tragicità quelle intorno alle sofferenze di cui sono vittime le numerose turbe di fanciulli innocenti, ai quali la vita si schiude fu un'alba così fosca e piena di vergogna. Noi non sappiamo come meglio auspicare ad una sollecita era di pace e di lavoro che tutti invocano, ma che lo spirito sovverchiatore del capitalismo minaccia di allontanare sempre più se non chiamando queste piccole vittime della ferocia umana a propiziare la fine di ogni contesa e facendoli, essi, i figli dei «vinti», segno della pietà e della sollecitudine dei «vincitori» soddisfacendo in un augusto atto di solidarietà l'ardente bisogno di giustizia e fratellanza che tormenta le masse lavoratrici di tutto il mondo”.
Primo ad accogliere l'appello è Giuseppe Garibotti che, per conto del consiglio di amministrazione dell'Ospedale, mette a disposizione dei bambini viennesi fino a maggio 1920 l'ospizio di Cesenatico. L'11 dicembre il sindaco Caldara convoca a Milano i rappresentanti delle amministrazioni socialiste dell'Alta Italia. Per Cremona è presente il maestro Giuseppe Sasdelli, presidente della Congregazione di Carità, ma ci sono anche i rappresentanti di Bologna, Reggio Emilia, Alessandria, Busto Arsizio, Novara e Codogno. Le camere del lavoro, le cooperative, le leghe di resistenza del Piemonte e dell'Emilia chiedono di potere assistere centinaia e centinaia di bimbi. Si decide che a Cremona ne toccheranno almeno un centinaio e subito si mette in moto la macchina della solidarietà, con una prima sottoscrizione: “In ogni famiglia i bambini dei proletari con 20 centesimi attestino ai piccoli fratelli austriaci la solidarietà civile ed umana dell'Italia lavoratrice. I maestri e le maestre socialiste compiano questo loro dovere altamente morale ed educativo”. I primi fondi, 50 lire, vengono raccolti con una festa danzante organizzata dalla cooperativa “Fratellanza sociale” nei locali dell'asilo Martini. In attesa che anche il livello centrale del Partito socialista si muova, Caldara si organizza da solo. Lui e i due sindaci di Bologna e Reggio Emilia chiedono al Governo di fornire loro dei treni per potersi recare in Austria, dove la mancanza di carbone blocca la circolazione ferroviaria. I treni all’andata avrebbero caricato i generi alimentari e di soccorso raccolti e al rientro avrebbero accompagnato a svernare in Italia un primo numero di bambini. Ottenuti i treni, sindaci e assessori, medici, educatrici e funzionari a fine dicembre partirono per Vienna. Mentre il 23 dicembre del 1919 verso le 7 parte da Milano il primo treno carico di risorse alimentari, munito di cucina da campo, con a bordo medici e infermieri, con lo scopo di trasferire nella città lombarda i primi bambini, il presidente del comitato di Cremona, il sindaco Attilio Botti organizza l'accoglienza: “Nelle scuole dei comuni socialisti le amministrazioni devono far circolare schede di sottoscrizione raccogliendo in esse le piccole offerte dei bimbi. Negli altri paesi ove l'opposizione dei maestri o delle autorità impediscono le sottoscrizioni nelle scuole, le organizzazioni economiche raccoglieranno esse stesse le offerte in nome dei piccoli figli dei lavoratori. Le cooperative e le Leghe devono subito costituire i comitati per la raccolta dei fondi pro bambini Viennesi. Più bella occasione per manifestare la nostra fede internazionalista non potremmo desiderare. Le somme raccolte devono essere spedite al Sindaco del Comune di Cremona, Presidente del Comitato pro bambini Viennesi”.
L'arrivo dei bambini a Milano (Archivio Istituto derelitti, Milano)
Il comitato cremonese è costituito dal sindaco Attilio Botti, dal sindaco di Duemiglia Attilio Boldori, dal presidente dell'Ospedale maggiore Giuseppe Garibotti, dal presidente della Congregazione di Carità Giuseppe Sasdelli, dal presidente degli Asili infantili Dante Fornari, dal presidente del Patronato scolastico Costantino Superti, da Ernesto Caporali per la Camera del Lavoro, Giuseppe Chiappari per la Federazione provinciale Socialista, Silvio Barbieri per il Circolo socialista di Cremona, dalle maestre Luigina Vailati, Luigina Belli e Maria Masseroni e dagli avvocati Giuseppe Morelli e Ermegildo Ferrari. Sul primo treno, arrivato a Milano il 28 dicembre, salgono 443 ragazzi, di cui 281 maschi e 162 femmine, tutti tra i 6 e 12 anni; di questi ne vengono scartati cinque affetti da morbillo e tonsillite, uno da congiuntivite e uno da tignatricofitosi. Una volta arrivati a Milano i convogli proseguono diretti in Riviera Ligure, dove i piccoli viennesi trovano alloggio presso diverse colonie climatiche; accolti a Porto Maurizio dalle Colonie Balneari Permanenti del comune di Milano, a Pietra Ligure dal Comitato Colonie Balneari, a Loano dalle Colonie del comune di Busto Arsizio, a Spotorno dalla Colonia Climatica del Pio Istituto Santa Corona. Con due spedizioni successive verranno accolti nel Nord Italia oltre 2000 bambini tra i quattro e i dodici anni, ospitati per un periodo di quattro mesi negli istituti per minori, nelle colonie climatiche liguri e sui laghi lombardi.
Bisogna attendere il 12 gennaio 1920 per festeggiare l'arrivo dei bambini viennesi destinati a Cremona, saliti sul secondo convoglio partito da Milano il 3 gennaio. A differenza della prima spedizione, i bambini, che sono stati selezionati dalle associazioni benefiche locali Kinderfreund,vengono visitati dai medici italiani presso le loro abitazioni, in particolare nei quartieri operai. E' un lunedì mattina quando i due sindaci di Cremona e Duemiglia si recano a Milano, dove la Società Umanitaria ha prestato le prime cure ai piccoli viennesi. “I piccoli bimbi che non avevano visti gli aranci e che da anni soffrivano la fame – racconta L'eco del Popolo del 14 gennaio 1920 – alla prova di tanta solidarietà assunsero un atteggiamento gaio che apparentemente diminuiva le impronte delle sofferenze patite. I milleduecento bambini furono distribuiti nelle diverse plaghe. I più denutriti furono mandati in riviera, gli altri in parte ad Alessandria, a Novara, a Codogno, ecc., a Cremona ne vennero assegnati centocinquanta. Noi, che assistemmo i bimbi nel breve viaggio fummo tempestati di domande e di schiarimenti e il nostro interprete traduceva tutto quello che l'animo nostro sentiva in quel momento. Poveri bimbi. Per un concetto antiquato e millenario i vostri padri e noi fummo ferocemente contro, terribilmente cannibali in nome di una patria. Ma la risultante della guerra ha rimesso alla luce del sole la bellezza del nostro ideale socialista che non vuole più carneficine, e nei visetti scarni e vispi noi vedevamo la speranza dell'immediato realizzarsi della nostra idea. Non preparammo e non volemmo preparare manifestazioni al loro arrivo. La popolazione di Cavatigozzi però intervenne a far ala alla lunga sfilata della colonna dei disgraziati. Nell'ampio locale di Cavatigozzi i bimbi trovarono abbondante ristoro e accoglienza festosa. Alla vista della tavola bianca degnamente ricca di viveri, di latte e di frutta, i bambini esultarono ringraziando colle loro voci diventate gaie il benefattore loro. E i bimbi sapranno a giorni che il benefattore è il Partito Socialista. Sì, o compagni di sventura, il socialismo darà a voi ristoro e conforto e voi tornando alle vostre case porterete belle vostre famiglie il palpito di un ideale che non conosce confini. Così noi iniziamo tangibilmente l'internazionale ed affratelliamo gli uomini di tutto il mondo”.
Anche molte famiglie si offrono per ospitare i bambini, ma il comitato è costretto al diniego perchè sarebbe impossibile in questo modo garantire ai bimbi l'istruzione necessaria per la difficoltà della lingua. Tra le condizioni poste dal sindaco Caldara, infatti, c'era quella che i ragazzi non avrebbero interrotto la frequenza scolastica, potendo seguire corsi scolastici impostati secondo il modello austriaco tenuti da educatrici austriache. Ciò, evidenziava il sindaco di Milano, avrebbe garantito il rispetto della diversità culturale e linguistica, senza nessun recondito intento di “italianizzazione”.
Il ritorno dei bambini a Vienna (Archivio Milanoattraverso)
La sottoscrizione indetta fra gli alunni delle scuole vede il contributo di oltre tremila bambini cremonesi, a Solarolo Rainerio si tiene una grandiosa veglia di beneficenza, che non manca di dare spazio alla polemica: “Anche il prete ha voluto dir la sua per questa festa nostra – scrive l'Eco del Popolo – Egli disse dal pergamo che ci vuole altro che fare delle feste pro bambini viennesi, sono i conti che vogliamo vedere egli disse”. Ed i conti parlano chiaro: sono state raccolte circa 7000 lire; oltre che da numerosi privati e cooperative le offerte sono giunte anche dalle Lega spazzini comunali, dalle alunne del convitto femminile comunale, dalle scuole elementari di Spinadesco, dagli alunni delle elementari di S. Ambrogio, del Centro scolastico di via Cannone, della Villetta e del Boschetto, di Gerre Borghi dagli insegnanti del Decia, del Centro Alfeno Varo e passeggio, del Centro Cannone e Palestro, dagli infermieri, suore medici del Manicomio, dalla parrocchia di Cavatigozzi.
Nel frattempo giungono richieste di aiuto anche dalla zone di guerra dovesi è svolta l'ultima battaglia, e la giunta municipale decide di dare assistenza ad altri trenta bambini provenienti dal basso Piave, che verranno alloggiati anch'essi a Cavatigozzi. Mentre la colletta per i bambini viennesi arriva a 16.000 lire, si inizia una nuova raccolta di fondi per i bimbi trevigiani. Vi partecipano cooperative, contadini, operai, scolari ma anche imprenditori e la stessa Banca Popolare. I bambini del Piave arrivano la mattina del 27 febbraio, accompagnati dalla signora Maccagni, sorella del farmacista Carlo Maccagni da tempo residente a Treviso, e vengono accolti al circolo Ferrovieri dove il Ristorante Economico offre pane e latte. Vengono visitati dal dottor Achille Girelli, poi caricati su due omnibus e portati a Cavatigozzi. Ci si rende facilmente conto che quattro mesi di soggiorno non saranno sufficienti ad alleggerire la loro situazione: le case nella zona del Piave sono state distrutte o diroccate dalle artiglierie e sarebbero costretti a trascorrere un altro inverno in baracche prive di riscaldamento. Ogni bambino costerà almeno 3 lire al giorno e per i trenta piccoli ospiti serviranno almeno altre 30 mila lire.
La sera del 2 marzo giunge a Cremona il vice borgomastro di Vienna Max Winter, che sta visitando uno per uno i comuni dove sono alloggiati i piccoli ospiti austriaci. Arriva in auto da Mantova, dove sono stati accolti 275 bimbi, viene ricevuto in comune dal sindaco Botti, da Garibotti e da una rappresentanza della commissione di assistenza per i fanciulli viennesi. Poi si reca a Cavatigozzi per visitare i piccoli ospiti. Ad accoglierlo, un ragazzo viennese, Alois Wagner, l'unico di cui ci sia rimasto il nome: “La letizia di questo giorno fortunato – sono le parole da lui pronunciate che riferisce l'Eco del Popolo, probabilmente scritte da qualche maestra– di questa Sua amabile visita, rimarrà incancellabile in ogni nostro cuore, come indimenticabile rimarrà per tutti noi il giorno del nostro arrivo in questo lembo ospitale d'Italia, dove tutti ci amano, dove sono persone che noi amiamo e che ameremo sempre come più cari fratelli”. Il giorno dopo Winter riparte per Codogno

Il 21 maggio partono dalla stazione di Milano gli ultimi due treni che riportano i bambini dalle loro famiglie in Austria. Il Sindaco Caldara accompagna a casa la gran parte dei piccoli che avevano soggiornato nel nord Italia. Solo per quattro di loro le cure climatiche non hanno avuto effetto effetto. Al loro ritorno i ragazzini e le autorità italiane vengono accolti dal vice borgomastro Winter, a dimostrazione della piena riuscita operazione umanitaria e della ritrovata pace dei due popoli. Emilio Caldara dichiarerà infatti durante il pranzo offerto dal Sindaco di Milano alla stampa viennese: “Una promessa, che sia sopra tutti i partiti: che nessuno più di fronte ad un bambino debba pronunciare una parola di odio contro un altro popolo”. (Arbeiter Zeitung, 27 maggio 1920). Qualche anno dopo, nel 1924, così ricordava Caldara quell'esperienza:”La guerra, con tutti i suoi dolori e i suoi orrori, con l'atmosfera di odio che ne è causa ed effetto ad un tempo, con l'avvelenamento quotidiano dei nostri sentimenti e di ogni loro espressione, ci fece sentire tutta la profonda verità dell'insegnamento di Cristo, per cui i bambini devono essere oggetto di esempio e quasi di culto”(E. Caldara, Impressioni di un sindaco di guerra, Milano 1924)

sabato 13 luglio 2019

C'era una volta la fiera di San Pietro - seconda parte

(2ª parte) È con l’introduzione dell’energia elettrica che avviene la grande trasformazione, pur se lenta e graduale. Gli impianti a gas esistenti prima dell’elettricità, infatti, mal si adattavano a installazioni precarie e temporanee come un parco giochi. Non solo, le prime lampade elettriche permettono la fruizione del parco anche di notte, con conseguente prolungamento dell’orario di apertura. Iniziano a modificarsi anche le decorazioni: dagli intagli e gli specchietti adottati fino a quel momento, si passa a giochi di luce e colori vivaci. Resta però sempre netta la distinzione tra i due mondi: uno quello della fiera, povero ed emarginato, di origine nomadica, e l’altro più ricco, frutto di investimento di capitali. Prova ne sia che accanto alle ultime novità tecnologiche permangono le attività più tradizionali del “Tiro all'anatra”, i vari bersagli, il “labirinto orientale a specchi”, “il padiglione delle bestie feroci”, il circo equestre, il serraglio e via dicendo.
Nel 1929 Renzo Bacchetta, con lo pseudonimo di Remba, ci fornisce un vivace racconto di quale fosse l'offerta merceologica della Fiera di San Pietro sulle pagine del “Regime Fascista”: «Da piazza Cavour fino in fondo a Corso Vittorio Emanuele nulla di straordinario. La solita interminabile processione di gente che si pigerà sui marciapiedi di sinistra, parallelamente al quale s'allineano l'un dopo l'altro banchettini e carrettini di ogni genere: dai gelati ai paralumi, dai bastoni alle scarpe, dalle cravatte alla tiramola, dalle stringhe ai fiori artificiali, dai cestini di vimini ai bicchieri di vino...infrangibili ,dai gemelli per polsini alle calze a un franco il paio, dai dolciumi a due soldi l'etto alle ochine dal collo mobile, dal bussolano alle cornici, dai tegami a prezzi di fallimento ai pizzi d'ogni qualità, dai tappeti ai giocattoli d due soldi, dai cuscini disegnati alle oleografie di Garibaldi, dalle pesche benefiche al palloncino di guttaperca, e che più me ha più ne metta perchè v'è di tutto perfino i libri a quattro soldi. Poveri scrittori! Niente di notevole fin qui, dunque, perchè è tutta roba che a prezzi su per giù uguali, si può acquistare in qualsiasi giorno dell'anno in uno dei tanti negozi cittadini, si può vincere o perdere a seconda se la sorte ti arride o meno in una delle pesche o lotterie che di quando in quando si tengono a scopo benefico. Però v'è questo di buono: che spendi del denaro ma hai della merce. Magari, se vuoi, merce di scarto che dura...fin che dura, ma qualcosa hai. Non si può negare.
Dove comincia il sensazionale, l'eclatant, il pugno nell'occhio alla gente, il soprannaturale, ciò che colpisce la fantasia di chi è ancora disposto a bere grosso, è più oltre, proprio sul piazzale di porta Po». Lo sguardo smaliziato di Bacchetta si posa sui baracconi assiepati nel piazzale, cogliendone l'aspetto anacronistico di spettacolo occasionale, ricco di invenzioni e cialtronerie, in cui il pubblico viene sommerso da richiami, attrazioni, lusinghe e meraviglie: «Oltrepassata la giostra delle automobili e il solito tiro al bersaglio, bambocci e pipe di gesso, ecco il primo baraccone delle meraviglie: la donna fulmine. Due uomini gonfian le gote soffiando l'uno in una trombettina da lattaio l'altro in una cornette dalla quale le note escono così armoniose da straziare anche le orecchie meno sensibili alle melodie degli strumenti a fiato. Poi un imbonitore dalla facile loquela pronuncierà il suo sproloquio che meriterebbe la nobile fatica d'uno stenografo e che qui riproduciamo quasi fedelmente: “Colto e spettabile pubblico – egli comincia senza aggiungere, come si usava una volta, “ed inclita guarnigione” - Qui in uqesto modesto padiglione voi vedrete due fenomeni viventi: la donna fulmine e Kaly la schiava degli indiani.La donna fulmine che qui vedete – ed in così dire indica una giovane bruna, ammantata in una specie di cappa giallo oro che tiene nella mano alzata due lampadine elettriche – ha ottenuto il più strepitoso successo in tutti i teatri di varietà del mondo. (uno del pubblico: Bum!; ma l'imbonitore dalla facile loquela, imperterrito, continua). Il suo corpo andrà ad essere caricato nell'interno da alte correnti elettriche da 125 a 700 volts che potrebbero causare la morte della fanciulla. Ma anche più sorprendente sarà la catena umana da dieci a venti persone che formeranno il cerchio della morte giachè ad esse questa fanciulla trasmetterà la corrente elettrica di cui è carico il suo corpo provocando l'accensione di queste lampadine”. Il professore – come lo ha chiamato colui che sembra il direttore della baracca pomposamente chiamata padiglione scientifico – ha finito. Il direttore stesso narra allora la dolente istoria di Kaly la schiava degli indiani. E' costei una figura di donna che s'intravede formosa sotto un ampio manto, per esso giallo-oro e che nasconde il volto sotto un fitto velo bianco come usano le donne orientali. “Kaly – spiega il secondo imbonitore dallo scilinguagnolo anche più sciolto del “professore” - fu fatta schiava dagli indiani ed il suo corpo tatuato dalla gola ai piedi. Sono di così grande valore i suoi tatuaggi che il suo corpo fu comperato dal Museo di Londra. Signori, lo spettacolo va a cominciare. Avanti, si paga la misera e vergognosa moneta di una lira. Una sola lira per mezz'ora di spettacolo scientifico che a Milano, Torino, Napoli, Roma, costava quattro o cinque lire. Avanti, avanti, signori. Numerosi altri spettatori attendono nell'interno. (Alza il lembo della portiera e dentro non si vede anima viva; allora la cala in fretta e furia e poiche nessuno del pubblico si muove,scende in mezzo a loro a distribuire mezzo decimetro quadrato di carta sul quale sono esaltati i due mirabolanti fenomeni viventi). Molti tiran via, altri entrano. Quando s'è fatto un gruppo d'una ventina di persone, lo spettacolo meraviglioso ha cominciamento. Il corpo della donna fulmine accende le lampadine elettriche, naturalmente con una corrente che anche un innocuo sorcetto casalingo tollererebbe; Kaly è tatuata...con le calcomanie. Ecco i fenomeni viventi. Tutto qui? Sì, e un franchino è un po' troppo. Ma v'è l'arte dell'imbonitore nel darla a bere e il fiato suo vale pur qualcosa anche se elargisce con troppa facilità l'appellativo di ignorante a chi a chi non entra perchè non è né gonzo né tonto e perchè pensa che una liretta non è una moneta vergognosa, ma rappresenta bensì venti soldi, cento centesimi e ci vuol tempo e fatica a guadagnarli. E tiriamo avanti. Un qualche cosa che vorrebbe parere la tolda d'una nave, un puzzo nauseabondo di salsedine, un giovanotto in candida tenuta di marinaio e stivaloni di gomma, un uomo in maniche di camicia che urla a perdifiato in un portavoce di latta: il cane marino ammaestrato, lo spettacolo va a cominciare. Su ampi cartelloni si vedono riprodotte belve feroci d'ogni regione della terra. Anche qui un franchino per entrare. Ma bisogna riconoscere che se altre belve non vi sono da vedere all'infuori di un orsacchiotto, quattro scimmiette ed un serpente, quella povera foca che guizza come un pesce in una vaschetta di qualche metro quadrato e si rizza poggiandosi alla ringhiera con le zampe, strepitando come un'ossessa, ben si guadagna la liretta coi numerosi esercizi che il suo domatore le fa eseguire.
Lasciamo andare il teatro meccanico col ciabattino, il materassaio ed il maniscalco che ci meravigliarono bambini, trent'anni fa; sorvoliamo sul globo della morte perchè ornai è da maggio che Cremona lo conosce; né ci interessala predizione dell'avvenire che si può ottenere con un ventino da da uno dei tanti – oh, quanti! - meccanismi a forma di cuore, disseminati in ogni canto del piazzale, meccanismi i quali, se tu chiedi “Sarò felice?”, ti rispondono “domani piove”; né ci indugeremo a parlare del palazzo misterioso perchè tutti i “morosi” sanno cos'è, e nemmeno della donna cannone perchè di moli come la sua ne vediamo passeggiare alcuni esemplari anche per Cremona, senza meravigliarci; non ci cureremo neppure del museo anatomico, antico quanto le fiere, e nemmeno dei baracconi degli specchi che deformano le nostre immagini, per correre direttamente a vedere Ramayana. Qui l'imbonitore è in camice bianco come l'infermiere di una qualunque guardia medica; ma un uomo in camice bianco, sul palco di una baracca da fiera, è un'attrazione. Ramayana è un nome sonoro, ricorda una canzone in voga, “Ramona”, ed una chitarra da caffè concerto; un pizzico di esotismo che basta a far lavorare di fantasia anche che non ne ha voglia. La gente si accalca li dinanzi e spera di vedere forse una ballerina selvaggia con gli anelloni d'argento al naso ed alle orecchie e invece...brrrr: un fenomeno vivente ma di quelli che fanno raccapricciare; nientemeno che una donna senza testa.
-Senza testa?
-Sì, senza testa...visibile. Cioè la testa ce l'ha ma non si vede: fuori è coperta da un pezzo di tela bianca (chissà come deve respirare male, povera donna!, e dentro la baracca è dietro a due specchi messi ad angolo che, riflettendo le pareti tutte di egual colore della cabina nella quale sta seduta, danno l'illusione ottica che la poveretta sia senza testa.
-Ci son tanti uomini senza testa in giro – diceva iersera una signora arguta -, che non vale proprio la pena di spendere una lira per vedere una donna.
Risa generali di quelli ch'eran vicini e squagliamento generale. Ma l'imbonitore in camice bianco, dopo aver levato gran rumore sbatacchiando ripetutamente un gong di nuovo genere, accarezza e batte le sue mani su quelle della sventurata ragazza per persuadere il pubblico dell'autenticità di esse e quindi comincia la dolorosa istoria dell'unico fenomeno del genere. E il pubblico ascolta incuriosito. “Spettabile pubblico – e anche lui dimentica l'inclita guarnigione. Che si sian tutti passata la parola? - questa giovane ragazza ha 20 anni e 4 mesi, è figlia del celebre esploratore Williams Persyl che nel settembre 1926 seguì il padre in una esplorazione nelle Indie: una notte i componenti la spedizione furono catturati da un gruppo di indiani. Il capo dei quali, dopo aver tentato di sedurre questa disgraziata ragazza, la fece torturare e poi le fece tagliare la testa. Faceva parte della spedizione il celebre chirurgico tedesco Beckmann di Berlino, il quale avrete certamente sentito parlare sui vostri giornali. Questo scienziato volle studiare e sperimentare il corpo di questa povera ragazza per farla vivere senza testa. E vi riuscì perchè da oltre due anni questa disgraziata vive senza testa come voi vedete, nutrendosi per mezzo di un tubo di gomma di uova, brodo e latte. Signori, questo fenomeno della scienza è stato visitato da medici, chirurgici, autorità per avere i nostri permessi; potete vederlo anche voi entrando nel padiglione, ma non sdraiata come è adesso, ma seduta sulla sedia a muoversi. Noi siamo reduci da Parigi, la Spagna, Londra, Berlino, premiati con medaglia d'oro all'esposizione di Roma e Milano, ora siamo in questa nobile città di Cremona. Avanti, avanti, con una lira venite a vedere la donna senza testa per tre giorni soltanto, (oggi dirà due), fenomeno vivente a Cremona”. Meno male che l'imbonitore è sincero: senza testa per tre giorni soltanto. Dopo la riavrà, poveretta!, anche in pubblico e non solamente in privato come ora. Ma il baraccone fa affari d'oro. Nessuno crede al fenomeno vivente, neanche il più candido ingenuo, ma tutti entrano a vedere seduta sulla sedia la povera ragazza senza testa, e la più parte escono domandandosi con profondo convincimento: ma non l'avrà proprio, la testa?».
Decisamente movimentata l'edizione del 1931, con la fuga di un leone dal serraglio. La sera del 30 giugno i posti sono gremiti per assistere all'attrazione annunciata: il parrucchiere di porta Po Attilio Pernice deve entrare nella grande gabbia circolare posizionata al centro del padiglione per radere il domatore mentre tiene a bada tre leoni, un maschio maestoso, una femmina e quello che tutti ritengono essere un leoncino, ma che in realtà è un leone adulto nano. Il programma si svolge regolarmente: gli esercizi degli orsi bianchi, le acrobazie di un puma, le iene che saltano il cerchio, gli stessi leoni. Tranne uno, proprio quel leoncino che si rifiuta di eseguire gli esercizi, rispondendo con ringhi furiosi agli scocchi di frusta del domatore e rifugiandosi sotto gli sgabelli, al punto che il domatore decide di interrompere il numero per passare al seguito, con una gara di lotta greco romana tra un lottatore di una settantina di chili ed un gigantesco orso bruno che, ovviamente, si conclude con la vittoria del primo, dopo un ultimo assalto furioso dell'animale respinto a colpi di frusta. Il pubblico è eccitato ed anche intimorito dalla piega che ha preso la spettacolo, quando, accolto dagli applausi, entra nella gabbia il parrucchiere Pernice sedendosi su uno sgabello collocato nel centro, brandendo il suo lucente rasoio con una mano e con l'altra fumando una sigaretta. Con sorriso sprezzante, vestito di tutto punto nella sua giacca bianca da lavoro, osserva il “leoncino” percorrere il corridoio in ferro che conduce alla gabbia, lanciandogli la sua sfida. Ma l'animale ruggisce e torna sui suoi passi. Il circo in cui si svolge lo spettacolo è costituito da un rettangolo lungo una ventina di metri e largo la metà, lungo il lato principale di accesso corre una balconata, mentre sul fronte opposto sono posizionate le gabbie degli animali collegate l'una all'altra da un passaggio costituito da sbarre di ferro a forma di U rovesciata. Le belve, uscendo dalle gabbie entrano nel corridoio che consente di raggiungere la grande gabbia centrale, il corridoio ha due cancelli: uno immette alla gabbia e l'altro, sul fronte opposto, verso il lato estremo del serraglio. I posti principali per il pubblico sono dislocati sui due lati brevi del rettangolo della pista. Per una disattenzione non viene chiusa bene quest'ultima uscita e proprio da questo varco insperato esce il leoncino che si era rifiutato di entrare nella grande gabbia centrale e con un balzo compare ruggendo in mezzo al pubblico. Gli spettatori delle prime file lanciano urla di terrore, si alzano e cercano di guadagnare l'unica uscita, pigiandosi gli uni sugli altri, le madri afferrano disperate i bambini, le balaustre cedono sotto il peso, altri si accalcano in uno stretto pertugio tra le gabbie cercando di sollevare il tendone e guadagnare la salvezza all'esterno. Nel trambusto generale, il leone, impaurito, si è nel frattempo rifugiato sotto le gabbie che racchiudono il puma, l'orso bruno ed un esemplare di leopardo. Ma nessuno si è curato di lui, tutti cercano urlando di mettersi in salvo. Molti cercano rifugio nella stessa gabbia centrale, dove i guardiani hanno chiuso il corridoio delle belve per lasciare entrare dai cancelli gli spettatori impauriti. Ad evitare conseguenze peggiori contribuisce il tempestivo intervento di cinque agenti di Ps e di alcuni carabinieri della vicina stazione di porta Po, che riescono a riportare un po' di ordine tra i fuggitivi. Molti hanno trovato rifugio nelle vicine osterie, ed altri negozianti sono corsi ad armarsi di pistole. Il leone, dal canto suo, impaurito non abbandona il suo rifugio, braccato da militari e agenti giunti a dar man forte ai loro colleghi. Gli addetti del circo collocano una gabbia portatile accanto alla gabbia dove il leone è nascosto, costringendo l'animale ad entrarvi a forza di punzecchiature di forcone. Verso mezzanotte il trambusto è finito,ma il circo è stato distrutto dalla folla terrorizzata. E non è neppure la prima volta. Cinque anni prima, proprio il 30 giugno 1926, quattro leoni erano fuggiti da un circo equestre che aveva piantato le tende a porta Venezia e per più di un'ora avevano scorrazzato per la città, divorando un gatto, azzannando il cavallo di un vetturino e concludendo infine la fuga nella chiesa dei frati Cappuccini di via Brescia.
Terminata la guerra, nel 1948 la fiera di San Pietro torna in gran parte rinnovata. Arriva il “Wall of death”, il muro della morte, che presenta una troupe esclusivamente femminile: quattro donne che girano vorticosamente in moto e bicicletta sulla pista realizzata in un cilindro verticale in legno, inventa in America agli inizi del Novecento e diffusa in Europa dal 1937 quando un pilota marciano, Bob Carew, ne costruì una in Olanda per iniziare una lunga tournèe che lo portò fino in Russia. L'attrazione è curata da Gustavo Cottino, conosciuto come “il re degli imbonitori”, uno dei maggiori impresari del “Wall of death”. In via Ruggero Manna c'è il padiglione “Dalla terra alla luna”, una specie di castello incantato da cui entrano ed escono le solite carrozzelle e il “bob canadian” a cui si sale con un tappeto girevole per poi scendere attraverso un canale che compie evoluzioni vorticose. Dopo vent'anni di assenza torna anche la ruota panoramica. Nel 1952 arrivano i piccoli aeroplani, comandati da volante ed agganciati ad un braccio snodabile di ferro: sono una vera novità, in quanto la giostra è stata brevettata solo un anno prima dal suo inventore, Albino Protti, un geniale meccanico con la passione del volo che, assemblando residuati bellici come i serbatoi degli aeromobili o le ralle dei carriarmati, aveva creato nel 1939 la prima giostra aerea. Ma le dimensioni delle nuove giostre, a causa della ridotta disponibilità di spazi del piazzale di porta Po, impongono ormai la necessità di ripensare la dislocazione delle attrazioni della fiera di San Pietro in un'altra sede più adatta.
Nel 1956 i padiglioni delle giostre dal piazzale di porta Po si trasferiscono nell'attuale ubicazione in largo Marinai d'Italia: l'area, dislocata su una superficie di circa 12 mila metri quadrati raggiungibile con due rampe in terra battuta, è stata ricavata abbattendo una boschina che ora costituisce una sorta di recinto attorno al Luna Park. I banchi dei venditori ambulanti, nonostante le riserve manifestate in un primo tempo, dall'originaria dislocazione lungo corso Vittorio Emanuele, compresa tra piazza del Comune e piazza Cadorna, e le vie limitrofe, vengono allineati lungo il lato destro di viale Po, dal ponte del Morbasco fino alla barriera daziaria. Per l'occasione viene allargata la sede stradale raddoppiando la pista ciclabile già esistente sul lato destro e, a livello sperimentale, vengono installate le prime panchine di marmo. Nelle operazioni preliminari al trasferimento vengono segnati 307 posteggi, in gran parte assegnati a sorteggio. Da un punto di vista merceologico 51 banchi vendono tessuti, 43 bancarelle offrono calzature e bigiotteria, 33 sono i banchi di mercerie, 11 vendono ceramiche, 5 espongono quadri artistici, 12 sono di giocattoli, 28 vendono dolciumi, 3 pizzi e merletti fiorentini ed infine 10 bancarelle offrono gioielleria. Conclude la sfilata il banco di torrone di Antonio Zucchelli, il decano degli ambulanti cremonesi.
Per la prima volta la fiera gode anche di un accompagnamento sonoro, affidato alla ditta Walter Gorno: lungo il viale viene installato un gigantesco impianto di amplificazione con venti altoparlanti ed una cabina centrale di trasmissione collegata telefonicamente con due punti della fiera che, all'occorrenza può servire per eventuali segnalazioni di smarrimenti o necessità di soccorsi urgenti.
Da qualche anno si parlava della necessità di trasferire la fiera di San Pietro in altra zona, sia perchè la dislocazione dei banchi merceologici lungo corso Vittorio Emanuele era causa di notevoli disagi per il traffico urbano, sia in quanto le dimensioni del piazzale di porta Po, oggetto di ristrutturazione con l'inserimento della fontana e lo spostamento delle linee aree dei filobus, limitavano pesantemente le esigenze del Luna Park per le dimensioni raggiunte dalle moderne attrazioni. Nell'edizione del 1954 l'ottovolante era stato confinato in fondo allo slargo di via Bissolati ed i padiglioni si addossavano completamente alle abitazioni. Altri padiglioni erano stati innalzati in via Ruggero Manna e via Porta Po vecchia , tra le proteste dei residenti, mentre il Prefetto, per ragioni di decoro, aveva vietato lo stazionamento delle bancarelle davanti al palazzo del Governo. Nel 1955 le bancarelle erano tornate a disporsi in corso Vittorio Emanuele, e per la prima volta dal 1915, quando erano state spostate per installare la linea tranviaria, in doppia fila. Tuttavia la fiera di San Pietro rischiava un notevole ridimensionamento ed all'amministrazione comunale si erano prospettate due soluzioni alternative: l'area a destra della via del Porto, di proprietà della Società Canottieri Baldesio, utilizzata dalla Società ippica, e l'area a sinistra della stessa via, di proprietà demaniale. Il Comune aveva optato per quest'ultima ed iniziato le relative pratiche con l'Intendenza di Finanza, che ha ceduto l'area solo nel giugno 1968.


C'era una volta la fiera di San Pietro - prima parte

La fiera di San Pietro nel 1901
Tradizionalmente si fa risalire l'origine della fiera di San Pietro alla battaglia delle Bodesine. combattuta tra milanesi e cremonesi presso Castelleone il 2 giugno 1213, festa dei santi Marcellino e Pietro esorcista, che coincideva quell'anno con la ricorrenza della Pentecoste. Secondo la leggenda a favorire le sorti dei cremonesi sarebbe stata la comparsa miracolosa dei due santi patroni a cavallo, che si posero alla guida dell'esercito quando ormai era in rotta. I cremonesi riportarono una grande vittoria, sottraendo ai milanesi il Carrocci,che da quel giorno sarebbe stata ricordata con una fiera che, non si sa esattamente per quale motivo, si tenne tradizionalmente il 29 giugno, festa dei santi Pietro e Paolo. Forse alla base di questo slittamento sta la confusione sul nome del santo, identificato con San Pietro apostolo. E' più probabile, invece, che la fiera abbia un'origine mercantile, legata al commercio dei bozzoli, che normalmente giungono a maturazione tra la fine di maggio ed i primi di luglio. Lo storico Giuseppe Bresciani accenna semplicemente ad una cerimonia seicentesca a cui prendevano parte la nobiltà, il popolo, l'autorità municipale e tutto il clero. I Patrimoniali della città si muovevano collegialmente preceduti da quattro servitori municipali e si recavano alla chiesa di San Pietro per rendere omaggio al Principe della Chiesa e ricevere in cambio un paio di guanti candidi del valore di un ducatone, secondo un legato così espresso dal nobile Fogliata, risalente al 1615.
Ufficialmente a Cremona il mercato pubblico dei bozzoli si teneva sotto un tendone installato in piazza del Duomo nel 1882. Dai dati statistici riportati in giunta dal sindaco Giuliano Sacchi il 31 agosto 1888, quando si pensava di realizzare un nuovo mercato coperto in piazza Cavour, si ricava che nel 1888 si erano prodotti 81.920 chilogrammi di bozzoli, non molto in verità, rispetto a quanto prodotto nel 1882, ad esempio, quando i chili furono 113.848, ma comunque una discreta quantità. E probabile, però, che prima di giungere al luogo deputato alla contrattazione vera e propria tra produttori e filangieri la produzione contadina di bozzoli freschi venisse incettata dai mercanti, secondo una prassi diffusa ma scarsamente documentata, già alle porte della città.
Il mercato dei bozzoli si chiudeva tradizionalmente il giorno di San Pietro, il 29 giugno, ed è probabile che in tale ricorrenza i contadini, avendo a disposizione più denaro del solito, si recassero in città a far compere, sostando nei pressi di porta Po, a poca distanza dall'attracco fluviale, approfittando della ricorrenza festiva. Henri Pirenne ha descritto il processo per cui dalle piazze delle città medievali, luoghi tradizionalmente deputati allo scambio di merci specifiche, con lo sviluppo dell'attività mercantile e l'ingresso di nuovi venuti, gli scambi commerciali si siano progressivamente trasferiti all'esterno degli spazi consueti, fuori dalle mura, nei sobborghi. In questo contesto nascono le fiere, che inizialmente radunano i venditori e gli acquirenti solo in occasione di particolari feste religiose, una o due volte all'anno, nei pressi delle chiese ed in un secondo tempo, pur conservando i loro carattere fondamentalmente ludico, si trasformano in manifestazioni continuative, inserite nel quadro dell'economia agraria, come punti fissi di un circuito mercantile con cadenze fisse. I mercati cittadini restano nella loro funzione di approvvigionamento di beni per gli abitanti, mentre le fiere vengono a costituire il primo canale di collegamento tra la città e la campagna, tra le zone di produzione e quelle di commercializzazione dei prodotti. (H. Pirenne, Storia economica e sociale del Medioevo, Roma 1997, p. 68)
Prima che nel gennaio 1748 il Consiglio dei Decurioni della città di Cremona iniziasse ad affrontare il progetto di una fiera, con particolare riferimento alla produzione tessile sulla base delle istanze dell'Università dei mercanti, la fiera di San Pietro era con ogni probabilità l'unica occasione di scambio ed incontro annuale per un mercato povero come quello contadino, basato prevalentemente sullo scambio in natura, legato alla stagionalità ed alla sua origine ludica e sacrale.
Nel 1828 si parla esplicitamente per la prima volta di “baracche della fiera” in un documento dell'ingegnere del Comune Giovanni Battista Tarozzi che, facendo seguito ad una rimostranza dell'Imperiale Regia Intendenza provinciale delle Finanze, suggerisce l'utilizzo di una di queste strutture per riparo provvisorio degli agenti doganali che, con la realizzazione della nuova strada diretta al porto, non avrebbero goduto più dalla loro Ricevitoria della visuale idonea ad osservare il flusso delle merci. Questa soluzione sarebbe già stata adottata in occasione della costruzione della nuova porta Po nel 1825. Evidentemente la Congregazione municipale aveva a disposizione un certo numero di questi padiglioni, utilizzati in occasione della fiera sul piazzale esterno della porta, divenuta ormai un appuntamento tradizionale. Prima di tale data l'unica traccia della Fiera di San Pietro è nel primo sipario del Teatro Filodrammatici dipinto da Giovanni Motta verso la fine del XVIII secolo, di cui resta testimonianza nell'inventario dei beni posseduti nel 1864 dalla Società Filodrammatica, che rappresenta “La Fiera detta di S.to Pietro”. L'originale, conservato al Museo civico Ala Ponzone, è stato ricostruito dal pittore Sereno Cordani per incarico dell'Associazione provinciale degli Ambulanti presieduta da Giuseppe Poli in occasione della fiera del 1969. Il sipario, originariamente steso ed inchiodato su un'intelaiatura in legno, venne ritrovato arrotolato nelle soffitte del museo in precario stato di conservazione, in quanto la polvere aveva completamente impregnato la tela, strappata in corrispondenza dei chiodi che la tenevano legata al telaio e la pittura, in seguito all'arrotolamento, era quasi completamente scrostata. Una successiva ripulitura, inoltre, aveva finito con il danneggiare ulteriormente le scaglie superstiti dei colori originari, rendendone quasi impossibile la lettura. Nella ricostruzione offerta da Cordani compaiono a destra la facciata della chiesa di San Pietro, dove in passato si sarebbe tenuta la fiera, le case di via Cesari digradanti verso corso Vittorio Emanuele e nella parte sinistra una folla di popolani e nobili raccolta intorno alle bancarelle ed agli spettacoli dei giocolieri. I bambini reggono in mano il tradizionale “castello”: un bastone lungo fino a due metri ed avvolto in carta colorata sul quale, ad una distanza di una ventina di centimetri l'uno dall'altro, erano fissati dei cerchi concentrici di cartone colorato a cui erano appesi dolci tradizionali e piccoli doni. Una tradizione che si estingue intorno al 1914.
La giostra onde marine del 1901
Dal 1826 si tiene a porta Po il mercato delle gabbie in vimini, del pollame e soprattutto dell'uva, proveniente dal piacentino, il piazzale esterno alla porta viene completato nel 1838, tra il 1854 ed il 1855 viene realizzato il nuovo ponte sul colatore Morbasco e nel giugno 1857 viene collaudata la nuova strada Passeggio che, però, viene pesantemente danneggiata nell'ottobre da una disastrosa piena del Po che impone un generale riordino di tutti gli argini per eliminare i fenomeni di corrosione, operazione che viene completata nel 1861.Tuttavia fino al 1868, anche in occasione della festività di San Pietro, vengono concessi indifferentemente spazi diversi della città per installarvi baracconi e divertimenti di spettacoli viaggianti, senza alcun riferimento ad un evento particolare. Così avviene per piazza San Luca fin dal 1864, per il piazzale esterno di porta Milano, piazza San Domenico, piazza San Tommaso e piazza Lodi. Spesso si tratta non di comuni girovaghi, ma di compagnie affermate, come quella del “Teatro meccanico” di Antonio Cardinali che, il 20 giugno 1868, chiede di installare il proprio padiglione “messo elegantemente adobbato luminato a gas, tapeti per terra senza sciamassi di sorta” specificando che “il piazzale adatto per noi sarebbe quel medesimo che abiamo avuto circa 18. fà in un piazzale credo vicino alla Questora”. Il “teatro meccanico” è l'antesignano del cinema moderno, una sorta di varieté azionato da mezzi tecnici utilizzati nella scenotecnica teatrale e nelle illusioni ottiche che si stanno sperimentando in quegli anni: nel buio della sala lo spettatore segue il passaggio, talvolta animato, di uomini, animali, veicoli mentre nell'ambiente circostante avvengono mutamenti come il passaggio dalla notte al giorno, il mare che da calmo diventa burrascoso ottenuti dall'associazione di due o più lanterne magiche e da lastre di vetro che, sovrapponendosi o scorrendo le une sulle altre mediante un congegno meccanico, danno l'illusione del movimento o di fenomeni naturali, come la caduta della neve, il sorgere del sole o il calare della notte. Il tutto accompagnato da effetti sonori adeguati che suscitano meraviglia e rendono la rappresentazione più efficace. A questo tipo di spettacoli complessi e tecnologicamente avanzati continuerà ad essere riservato spazio adeguato nell'edizione della fiera settembrina, mentre la dimensione più popolare resterà prerogativa della fiera di San Pietro sul piazzale di Porta Po. Qui già negli anni precedenti era stata concessa un'area a Vincenzo Valanzasca per installarvi un tiro al bersaglio e nel settembre 1868 la sezione edile viene incaricata di limitarne esattamente lo spazio, stabilendo in 5 lire l'affitto per un periodo di quindici giorni in occasione della fiera di settembre.
Il carattere popolare della fiera è confermato dalla prima richiesta di plateatico per posizionare una giostra ed un organetto sul piazzale di porta Po di Annunciata Ferrari “illetterata” di Paderno Cremonese ed è datata 19 giugno 1869, un recinto “destinato ad esporre al Pubblico una raccolta di belve” della ditta Faimali di Milano è documentato nel 1873 e sempre in quest'anno si registra anche il primo incidente, con protagonista una scimmia del serraglio che morde alla mano sinistra il girovago Faustino Lapelli di Annicco, a sua volta titolare di una giostra, che viene visitato in Ospedale dal capo medico Ciniselli, per scongiurare il pericolo che l'animale sia idrofobo. Nel 1874 si aggiunge una compagnia equestre e l'anno successivo la giostra acrobatica di Antonio Ruffini. Nel 1876 è la volta dell'esposizione di “fenomeni”, proposti da Faustino Loschi di Annicco, uno dei più assidui frequentatori della Fiera di San Pietro: in realtà si tratta della macabra esposizione di due feti, figli di due abitanti di Annicco, che Loschi ha già esposto a Bergamo, con l'autorizzazione della Commissione municipale di sanità. Compare anche il tiro al bersaglio con armi ad aria compressa di Vincenzo Vallanzasca. Nel 1881 è la volta della “donna atleta”, della “donna albina” e dell'immancabile donna cannone, attrazione inventata solo qualche anno prima nel 1877, esposte in un unico padiglione, affiancato da un altro con un coccodrillo vero ed alcuni serpenti. Non mancano i prestigiatori, il primo che fa richiesta nel 1887 è un certo De Lorenzo, che possiede anche un “gabbinetto pittorico”. In quell'anno la presenza di spettacoli viaggianti doveva essere già consistente, se Maria Alberici chiede di poter installare eccezionalmente il suo teatro di varietà in “quella piazzetta apena dentro della porta a sinistra di fianco proprio al Macello”, in quanto sono “già occupati tutti i posti fuori di porta”.
Accanto alle giostre più semplici, manovrate da cavalli, compaiono anche le celebrità circensi della Belle Epoque. La prima è nel 1876 la grande “Ménagerie des Indes” di Joseph Pianet, serraglio attivo fin dal 1834 il cui titolare comprava animali in Algeria. Ma la più celebre è Nouma Hawa, giunta a Cremona con il suo circo nel 1895: originaria di Costantinopoli, Nouma Hawa, il cui nome significa Rosa della sera, aveva rilevato il circo dal marito, il celebre domatore Pernet, morto a Roma nel 1883 in seguito al morso di un leone, e lei stessa era stata attaccata più volte nel 1883 alle "Folies Bergères" dalla sua leonessa, da un'altra leonessa, a cui aveva cercato di sottrarre i cuccioli, nel 1886, ed infine nel 1888 da un orso bianco, che a Bruxelles le aveva lacerato un seno. Nel 1915, dopo fortunate tournèe in Italia e Svizzera, vendette il circo ritirandosi sul lago di Ginevra.
Nel 1889 Hugo Haase porta a Cremona la novità della giostra elettrica: un tapis roulant su cui sono sistemate delle barche, mosso da macchine installate in tendoni nascosti al pubblico.
La fine dell’Ottocento vede la nascita del fenomeno delle fiere industriali, il cui fine era quello di presentare al pubblico i nuovi ritrovati tecnologici, intrattenendo al contempo i visitatori. Ecco quindi che, accanto alle attrazioni fantastiche degli ambulanti, fanno la loro comparsa giochi meccanici, altalene, giostre. Avviene così che la fiera, che fino a quel momento aveva offerto un divertimento basato esclusivamente sulla fantasia o sulle doti fisiche e intellettuali dell’uomo, lascia gradualmente spazio alle macchine, che si rivelano ben presto più remunerative delle attività ambulanti nelle piazze. Con l’introduzione dei parchi divertimento, cambia anche il ruolo del pubblico, non più spettatore passivo, ma parte attiva dell’attrazione stessa. Inizialmente è infatti proprio l’uomo la forza motrice di molti mezzi: si pensi alle prime altalene che si muovevano grazie ai muscoli di forzuti individui ai seggiolini agganciati a lunghe catene, quelli ancora oggi noti come calci, i cui primi esemplari erano mossi dalle braccia dell’uomo. È il periodo anche delle giostre a cavalli di legno, che dovevano il proprio movimento circolare ad un cavallo bendato che veniva fatto girare in tondo. Seguono infine quelle che venivano chiamate onde di mare per il loro movimento rotatorio e ondulatorio: primordiali giostre a saliscendi di produzione straniera, come quella portata alla fiera di San Pietro da Diomede Manfredi nel 1901.
Fino al 1915 i banchi dei venditori ambulanti si allineavano su due file lungo corso Vittorio Emanuele fino al piazzale di porta Po, dove trovavano posto i baracconi delle attrazioni. Nel 1916, sia in conseguenza della realizzazione della linea tranviaria che per lo scoppio del conflitto mondiale, vennero eliminati i banchi sul lato sinistro della strada. Altre giostre trovavano posto in piazza della Libertà, mentre, in occasione della fiera settembrina, si utilizzavano anche gli spazi di piazza Risorgimento, il sagrato della chiesa di San Luca, piazza Agamennone Vecchi ed in altre occasioni piazza Marconi, porta Romana, porta Mosa.
Nel 1926, tra gli imbonitori che sistemano i loro baracconi sul piazza di porta Po, davanti a casa Foletti staziona Giovanni Paneroni, di professione gelataio specializzato nella fabbricazione del “tiramolla”, ma divenuto con successo sostenitore della teoria della terra piatta e ferma, che spiega con l'ausilio di un giroscopio. Tra le due guerre Paneroni gode di un certo successo e produce una copiosa mole di scritti e disegni sull'argomento, diventando famoso per il suo motto “La Terra non gira, o bestie). Pochi i baracconi in piazza Libertà: due giostre, due serragli, un museo anatomico vietato ai minori di 18 anni, un circo equestre e qualche tiro a segno. Nel 1927 tra la folla viene notata la presenza di uno dei più grandi ciarlatani del tempo, che ormai si dedica al commercio di quadri: si tratta di Arturo Frizzi, nato a Mantova, ma cresciuto nell'orfanotrofio cremonese “Casa Archetta”, venditore girovago di opuscoli, almanacchi, cartoline illustrate, prestigiatore, venditore di chincaglierie, suonatore ambulante e strillone, con un trascorso di attivista politico nel Partito Socialista ma noto soprattutto per aver dato alle stampe “Il ciarlatano”, un racconto autobiografico in cui dispensa anche consigli bizzarri per vivere di espedienti.

I banchetti sfilano da via Baldesio a piazza della Pace dove su due file sono stati installati anche alcuni baracconi: un “gigante”, le foche, il castello incantato, il palazzo misterioso, un padiglione di “attrattive moderne” ed un baraccone anonimo. Vera attrazione della fiera è la pista delle auto elettriche, probabilmente una delle prime giunte in Italia. A portarla a Cremona è forse Felice Piccaluga, anche se la richiesta iniziale di posteggio in piazza dell'anno precedente è per un padiglione sportivo. La cosa è particolarmente interessante perchè tradizionalmente si attribuisce l'introduzione della prima pista elettrica a due meccanici di biciclette veneti, nonché venditori di dolci casalinghi alle fiere, Umberto Favalli e Umberto Bacchiega di Bergantino in provincia di Rovigo, che il 24 aprile 1929 erano in grado di presentare sulla piazza di Bergantino, per la Fiera di San Giorgio, la prima autopista interamente italiana e tutta in legno, mutuando l'idea dall'americana Dodgem Corporation, capace già nel 1922 di sfornare ben 800 vetturette. La trovata si basava ovviamente sull’elettricità e soprattutto sulla sua tecnica di distribuzione, attraverso una rete sospesa alla quale attingere con un trolley tipo quello dei tram, idea brevettata sempre negli Stati Uniti addirittura nel 1890.
(1. continua)