venerdì 27 aprile 2018

Pietro Anelli, il signore del pianoforte


Una vecchia pubblicità di Anelli
Una bella storia cremonese che compie un secolo quest'anno e che ha segnato, fino al 1968, cinquant'anni di primato indiscusso nell'industria musicale. Una storia che sarebbe andata irrimediabilmente perduta se la caparbietà del musicologo Fabio Perrone, unita alla determinazione dimostrata dall'amministrazione comunale di Crema, dalla Fondazione San Domenico e dall'Istituto Musicale Folcioni non l'avessero salvata. E la mostra dedicata alla “Società Anonima Anelli, Pianoforti Cremona (1918-1968)” che si sta allestendo a Crema nell'aula magna di palazzo Verdelli, sede della fondazione San Domenico e dell'Istituto musicale Folcioni, con la presentazione, oggi, del bel catalogo curato da Fabio Perrone, è il coronamento di un sogno, iniziato nella bottega di Ferdinando Giordano all'ombra del Torrazzo, che ha preso forma, però in riva al Serio, per il protrarsi del silenzio, durato dal 2014 al 2017, degli amministratori cremonesi a cui era stata proposta. Ma tutto questo è stato reso possibile grazie a Luciano Nazzari e Marco Tamagni, eredi della grande tradizione cremonese della costruzione di pianoforti che hanno messo a disposizione della città il materiale posseduto perchè fosse adeguatamente valorizzato. La condizione era che venisse creato uno spazio espositivo adeguato aperto al pubblico, che ricordasse e documentasse questa straordinaria attività, prima artigianale e poi industriale, che ha fatto di Cremona la capitale indiscussa del pianoforte “made in Italy”. E non è un fatto da poco, perchè in quegli anni le prodigiose scatole musicali prodotte all’ombra del Torrazzo, furono in grado di rivaleggiare con i mitici strumenti tedeschi, vero oggetto di culto per tutti gli esecutori europei.
All’origine della dinastia Anelli c’è Antonio, detto “El pitturin”, era un artigiano assai versatile: scolpiva statue di santi in legno, faceva il pittore, decorava ed indorava candelabri e cornici. Vi sono chiese nel Piacentino e nel Lodigiano interamente rifinite da lui, dall’organo ai quadri, ai candelabri. Nel 1836 da Santo Stefano Lodigiano dove era nato nel 1795, trasferì la sua attività a Codogno. Antonio ebbe un figlio, Gualtiero, qui nato nel 1838. Fin dalla più tenera età Gualtiero aveva seguito il padre ed a vent’anni era già un valente restauratore e costruttore di organi, ma scomparve nel 1880 a soli 42 anni lasciando il figlio Pietro, diciassettenne, alla custodia del nonno Antonio, da cui ereditò la volontà e la grande tenacia. Nel 1882, però, morì anche il nonno e Pietro, anche per sostenere la numerosa famiglia e i fratelli più piccoli di cui era tutore si adoperò per cercare nuovi lavori, aiutato in questo dal padre Emilio del convento dell'Osservanza dei Frati minori riformati di Faenza, che gli procurò i primi incarichi, tra cui l'organo della chiesa di Santa Maria in Regola di Imola, la prima opera interamente realizzata da Pietro Anelli nel 1886. Nel 1887 andò a lavorare a Genova con l’organaro inglese George Trice, che era impegnato nella fabbricazione dell’organo monumentale della Concezione di quella città, di cui successivamente, in seguito allo scioglimento e alla messa in liquidazione della società originaria, nel 1893 divenne socio e la ditta prese la ragione sociale “Trice, Anelli & C”. Uno di questi organi, il primo costruito da Anelli avvalendosi del sistema Trice, fu visto ed acquistato dal cavalier Pacifico Inzoli di Crema, desideroso di avere uno strumento costruito sul nuovo modello. Ma la ruota della fortuna gira e la società lavora in perdita, per cui Anelli, che nel frattempo per il suo lavoro riceve anche i complimenti di Lorenzo Perosi, chiede agli azionisti londinesi la possibilità di cedere la ditta ad un prezzo conveniente. La ditta, che nel frattempo si è trasferita a Quarto, vicino a Genova, su pressioni degli investitori inglesi viene invece venduta all’organaro Vegezzi‐Bossi di Torino. Con la cessione della ditta cessa anche la produzione degli organi e Antonio se ne torna a Codogno dove continua a dedicarsi alla manutenzione degli organi e dei pianoforti. Ma i tempi sono oramai maturi: il settore organistico è ormai inflazionato per la presenza di Giuseppe, Angelo e Gaetano Cavalli, Luigi Riccardi, Pacifico Inzoli e Giovanni Tamburini, che proprio nella bottega Anelli aveva svolto il suo apprendistato, e Pietro decide di dedicarsi alla costruzione di pianoforti, aprendo nel 1896 una succursale a Cremona, prima in corso Venezia 13, poi in corso Umberto I. Prima di iniziare l'attività vera e propria in una nuova bottega inaugurata il 17 giugno 1909 in piazza Filodrammatici, e poi in corso Garibaldi 10, Pietro Anelli viaggia molto: a Berlino, Stoccarda, Parigi, Braunschweig per conoscere le più grandi fabbriche del settore. Pietro Anelli ha il culto della tradizione liutaria cremonese e la sera suona il violino, che aveva studiato fin da ragazzo. Intuisce che la tavola armonica dello strumento può avere qualche affinità con quella del pianoforte e si appassiona a questa ricerca.
Mascagni suona un pianoforte Anelli
Un'altra attività legata al nome di Pietro Anelli è la “Fabbrica rulli musicali traforati Anelli e C.”; che nel 1908 diventa First (Fabbrica Italiana Rulli Sonori Traforati). La fabbrica, fondata da Pietro Anelli, ha sede in via Cesari presso l’ex Istituto Ciechi, dove oggi è il Centro di formazione professionale CRForma ed è diretta da maestro Michele D’Alessandro, compositore e direttore della Banda cittadina. Ne fanno parte anche la Ricordi, l'editore Edoardo Sonzogno, l'industriale Ugo Finzi, il banchiere Giuseppe Sullam, il duca Uberto Scotti, ha un capitale iniziale di 200.000 lire e, già tra il marzo 1907 e l'ottobre 1908 riesce a pubblicare un migliaio di rulli. La First rappresenta per quegli anni una novità assoluta nel settore della produzione industriale di strumenti musicali, con una quindicina di operaie che realizzano tra il 1910 ed il 1912 ben 3767 rulli. Nel 1921 intanto entra nell’azienda un altro grande personaggio destinato in futuro a far parlare di sé: è Luigi Nazzari, che per il momento viene assegnato proprio al reparto “autopiani”.

Finita la guerra, che aveva visto un calo della produzione, avviene la definitiva consacrazione dell'azienda. Pietro aveva registrato il suo primo brevetto nel 1887, con il pianoforte a corista registrabile, e nel 1918 la società è già in grado di realizzare cinque pianoforti al giorno. Dopo la prima guerra mondiale esplodono le fabbriche artigiane che si dedicano alla costruzione di pianoforti verticali, magari storpiando i marchi stranieri ed Anelli decide di far chiarezza dando alla luce un libretto, stampato in quindicimila copie, dove si elencano uno per uno tutti i nomi utilizzati per perpetrare gli imbrogli. Mentre scoppia la polemica Pietro, dopo anni di studi e sacrifici, realizza uno strumento eccezionale, il pianoforte “Apollo”, che regge il confronto con i migliori prodotti tedeschi. In quel periodo lo stabilimento conta ben quattrocento dipendenti, molti dei quali giunti da varie parti d’Italia per imparare a Cremona i segreti della costruzione. L’incremento raggiunto da questa impresa è tale che nel 1918 egli costituisce la Società Anonima Anelli accrescendone non soltanto la produzione, ma soprattutto la fama. Ne fanno parte gli azionisti avvocato Ferdinando Piva, Pietro Anelli, l'avvocato Giacinto Cremonesi, e Oreste Mainardi e in cinque anni decuplica il capitale. L’anno dopo si rende necessario trasferirsi in un locale più ampio e l’attività finisce nei locali dell’ex cinema Eden, dove oggi è la caserma della Guardia di Finanza.
Una giovanissima Mina seduta su un pianoforte Anelli
Nel 1912 ottiene il brevetto per la tastiera a leva registrabile, un sistema, che permetteva di regolare di regolare la tastiera rendendo più leggeri o più pesanti i tasti a seconda delle necessità del pianista, nel 1922 quello per il processo produttivo metalpiano, che consisteva nella produzione in serie dei telai fusi in ematite ai quali veniva applicata la tavola armonica precedentemente preparata e successivamente il sorniere, armata la piastra o griglia, prima di inserire la meccanica nell'apposito alloggiamento del mobile, consentendo grande rapidità nelle operazioni senza inficiare la qualità del prodotto finito. Nel 1926 viene depositato un altro brevetto relativo alla cassa armonica con triplice archetto, per porre rimedio alla povertà di suono e alla minore durata dei suoni del settore centrale-acuto rispetto a quelli del settore centrale-grave. Dopo un tentativo di realizzare pianoforti verticali integrati con altoparlanti applicati direttamente sula tavola armonica, in modo da avere un suono più puro, profondo, potente e vibrante, in alternativa ai pianoforti tedeschi Bechstein, rispondendo alle nuove esigenze sonore determinate dalla diffusione della radio, Pietro Anelli decide di sospendere per il 1931 la produzione di pianoforti ma, dopo aver ottenuto l'appoggio dello stesso Benito Mussolini che per villa Torlonia acquista un pianoforte Anelli dove si esibivano Alfredo casella e Ildebrando Pizzetti, nel 1935 viene depositato il brevetto per la meccanica a ripetizione, un sistema che consentiva nell'applicazione di una speciale molla che, opportunamente registrata, permetteva la rapida ripercussione del tasto e quindi la ripetizione rapida di notte per ottenere ribattuto, trilli e tremoli.
Pietro Anelli scompare il 27 gennaio 1939, non senza aver portato a termine, nel 1930, un'altra grande impresa: l'acquisizione dei cimeli stradivariani posseduti dal liutaio bolognese Luigi Fiorini, di cui era divenuto amico dopo che questi, nel 1925, aveva visitato la fabbrica di pianoforti di via Montello e si era detto disponibile a donarli a Cremona a patto che venisse creata una scuola di liuteria. Le redini della società vengono prese dal figlio Gualtiero che, in via Garibotti, apre una linea produttiva di fisarmoniche, destinate soprattutto al mercato americano. Nel frattempo, per fare fronte alla richiesta ed ottimizzare la produzione, concentra la realizzazione delle parti meccaniche dei pianoforti nella sede di via Montello e decentra la costruzione e la verniciatura dei mobili presso la Cavalli e Poli, l'altra storica industria musicale cremonese, specializzata anche nelle aste dorate, fondata qualche anno prima da Aristide Cavalli ed ora condotta dal figlio Lelio. Nel dopoguerra dalla Anelli esce un altro fortunato modello, il verticoda, una pianoforte più profondo e più sonoro di un tradizionale pianoforte verticale, che combinava le necessità acustiche di un mezzacoda con quelle di compattezza di uno strumento verticale.
La fabbrica Anelli in via Montello
Negli anni Sessanta iniziano le prime difficoltà finanziarie: la società Anelli viene acquistata dalla Safem di Milano e Gualtiero resta nel nuovo gruppo in qualità di amministratore delegato, mentre la produzione si allarga ai mobili per televisori, ma questo non basta per salvare la società che nel 1964 viene dichiarata fallita, restando in amministrazione controllata fino al 1967. In settembre viene costituita la “Fabbrica Italiana Pianoforti e Strumenti musicali, FIP-Spa – Cremona” con sede in via Montello per la costruzione e vendita di pianoforti, che però cessa d'esistere qualche mese dopo quando il 21 giugno 1968 viene costituita, sempre nella stessa sede, la “Fabbrica Pianoforti Cremona Spa” che non ha migliore fortuna dei precedenti tentativi e viene sciolta e messa in liquidazione dopo appena un anno di vita. Nel 1970 il marchio “Anelli” viene venduto alla Farfisa, con una ripresa della produzione per un altro decennio.
Ecco dunque- commenta Fabio Perrone a conclusione dell'avventura davvero unica di Pietro Anelli - la necessità di raccontare, per onor di storia e per rendere omaggio a quanto hanno lavorato per elevare l'industria nazionale del pianoforte ai livelli europei, la vicenda della 'Casa Anelli' e l'evoluzione di un certo modo di produrre strumenti musicali nel Novecento. Oggi, con l'avanzare della nuova economia globalizzata, la 'Anelli' appartiene a tutti gli effetti ad un mondo che abbiamo definitivamente perduto ma che ha caratterizzato, per molti decenni, la storia d'Italia”.

Le strade del 25 aprile


La giunta Calatroni
Nei giorni dell'insurrezione del 25 aprile vi fu un'altra rivoluzione, certamente meno drammatica per il contributo di sangue richiesto, ma non meno significativa per i protagonisti di quegli eventi. Uno dei primi atti della Cremona liberata, di cui si fece interprete la prima giunta repubblicana presieduta dal sindaco del CLN Bruno Calatroni, fu la rivoluzione toponomastica con cui vennero modificati i nomi delle vie che ricordavano gli avvenimenti ed i protagonisti di quel ventennio di dittatura ormai alle spalle. Il 28 aprile 1945 Calatroni aveva inviato al prefetto un rapporto sulla dinamica della Liberazione: “Si può calcolare che le forze partigiane clandestine che hanno partecipato alla liberazione della città assommassero a circa tremila uomini…trenta i caduti dalla parte dei patrioti”. Il 5 maggio, solo una settimana dopo, con la presenza, oltre al sindaco, dei vice Leggeri e Marabotti, e degli assessori Agosti, Bodini, Granata, Lambertini e Zanotti venne approvata all'unanimità la delibera con cui veniva modificata l'intitolazione di alcune vie “intitolate a nomi che ricordano specialmente il periodo più funesto e più tragico imposto all'Italia e alla nostra Città, dalla dittatura fascista, o comunque possono essere sostituiti da nomi più cari alla Città di Cremona”. Ma già dal 30 aprile Calatroni aveva richiesto che si sostituisse immediatamente l'intitolazione di Martiri fascisti con Attilio Boldori e di via Malta con quella di Felice Cavallotti, ed aveva sollecitato l'ufficio tecnico a fornire i nomi di tutte le vie che dovevano essere rinominate. Già nel corso della giornata le intitolazioni incriminate erano state rimosse e il sindaco chiedeva al Prefetto indicazioni sulle nuove intitolazioni Queste sono le attuali vie Attilio Boldori, Felice Cavallotti, Giacomo Matteotti, Ala Ponzone, Ferruccio Ghinaglia, Amedeo Tonani, don Minzoni, corso Vittorio Emanuele II, Piazza della Pace e galleria 25 Aprile. In realtà non mancò qualche inconveniente, dovuto alla fretta del momento. Via Giuseppina, ad esempio, finì per oltre un anno col chiamarsi interamente via Tonani, contrariamente a quanto avrebbe voluto il sindaco Calatroni. In una nota inviata al segretario, con la data del 20 gennaio 1946, lo stesso sindaco puntualizzava: “La delibera con cui veniva imposto il nome di Tonani alla via Giuseppina riguardava solo il tratto compreso dalla via Pippia all'osteria del Gelsomino, invece è accaduto che tutta la via Giuseppina ha preso il nome di Tonani, mentre invece dal Gelsomino in su doveva restare Giuseppina, Provveda far fare l'opportuna rettifica e poi mi riferisca”. Ma si provvide alla correzione solo a novembre.
Mussolini alla lapide dei Martiri fascisti nel 1923 (foto Fazioli)
Ma fu soprattutto su via Martiri Fascisti che si concentrò la prima attenzione della giunta, per l'alto significato simbolico che rivestiva, sottolineato anche dalla presenza di una lapide a ricordo incastonata su via Balbo, che sarebbe in seguito divenuta via Ala Ponzone. L'intitolazione, infatti, ricordava il tentativo dei fascisti di impadronirsi della città un giorno prima della Marcia su Roma. Farinacci era rientrato a Cremona la mattina del 26 ottobre 1922, dopo essere stato a Roma e Napoli, e con in suoi più stretti collaboratori aveva preparato meticolosamente l'azione che poi avrebbe avuto luogo la sera del giorno successivo. Il piano era quello di dare l'assalto ed occupare la Prefettura. Paolo Pantaleo descrive l'episodio minuziosamente (Paolo Pantaleo, Il Fascismo cremonese, Cremona, Cremona Nuova 1931): “Il prefetto eleva formale protesta, dichiara che compirà intero il proprio dovere. Convoca immediatamente il questore, il maggiore dei carabinieri, il comandante del presidio. Dopo una breve discussione dichiara, secondo gli ordini ricevuti da Roma, di rimettere i poteri civili all'autorità militare. Questa immediatamente dispone perchè siano fortemente sbarrate le vie d'accesso alla prefettura. Intanto arrivano a frotte i fascisti dalla provincia: una parte tenta di forzare il portone della prefettura, un altro si addensa in via Bissolati. I carabinieri si distendono lungo attraverso via Vittorio Emanuele e roteando i moschetti tentano respingere le camicie nere che aumentano continuamente di numero, decise ad affrontare ogni rischio. In prefettura guardie regie e carabinieri afferrano i fascisti, che vi erano penetrati e vi si erano installati, e riescono a metterne parecchi alla porta. Mentre si sta studiando il modo di impadronirsi delle prefettura giunge un inviato da Perugia, il quale è latore dell'ordine di sospendere per 24 ore l'azione, in previsione di una nuova situazione che andava delineandosi a Roma. I ministri, infatti, avevano rassegnato all'on. Facta le loro dimissioni e si divulgava la notizia che il presidente del consiglio avesse in animo di chiamare l'on. Mussolini a far parte del governo. Non era possibile attenersi all'ordine venuto da Perugia. Cerano già dei morti, la provincia era tutta in mao dei fascisti: rimandare l'azione equivaleva ad una ritirata in piena regola, senza speranza di una ripresa fortunata e vittoriosa. L'on. Farinacci corre al telefono e chiama il Duce a Milano. Unadramamtico dialogo si svolse. “Ho l'ordine di sospendere l'azione – dice Farinacci – ma ormai è troppo tardi, orami il dado è tratto; fermarsi sarebbe danno irreparabile. Il nostro piano, ormai conosciuto e diffuso, non potrebbe attuarsi più tardi”, “Avete delle vittime tra i fascisti?”. “Tre morti a San Giovanni in Croce e parecchi fascisti feriti in provincia. Abbiamo assediato la prefettura a attendiamo il momento propizio per conquistarla”. “Di fronte a questi fatti”, conclude Mussolini, non resta che continuare”. “Benissimo noi ci rimettiamo ai tuoi ordini, pronti anche ad inviare rinforzi a Milano se occorressero”. E l'azione continua”. In realtà la Prefettura si difese sparando sui fascisti al punto che Farinacci dovette ritirarsi, rimandando l'azione al giorno dopo, ma di fronte all'arrivo di nuovi fascisti dalla provincia al comandante della guarnigione non rimase altro che arrendersi per evitare una carneficina. Alla fine restarono sul terreno dieci morti e si contarono quaranta feriti tra i fascisti.

Il sacrario dei Martiri fascisti in via Balbo nel 1939
Attilio Boldori, a cui fu dedicata via Martiri Fascisti, era stato proprio una vittima di quelli, ucciso a bastonate l'11 dicembre 1921 nei pressi della Cascina Marasca di San Vito di Casalbuttano, per l'unica colpa di essere stato  rappresentante socialista in Amministrazione provinciale, di cui era stato vice-presidente, ed al Comune di Due Miglia, di cui era stato Sindaco. Via Felice Cavallotti tornava invece alla sua denominazione originaria, che aveva avuto fin dal marzo del 1898, quattro giorni dopo la sua drammatica morte, avvenuta nel corso di un duello con il monarchico Ferruccio Macola, interrotta solo nel 1940 quando la via venne denominata via Malta. Via Ala Ponzone dal 1943 era stata intitolata a Italo Balbo.
Ma vi erano anche altre strade che con il fascismo avevano modificato la loro intitolazione: viale Regina Margherita il 10 febbraio 1944 era stata rinominata via Fratelli Bandiera e tale rimase fino al 13 marzo 1951 quando venne ripristinata la vecchia denominazione di “viale Po”. Via Bassa era divenuta nel 1940 via cardinal Guglielmo Massaia, un cappuccino che peraltro non ebbe mai rapporti con Cremona, e tale è rimasta fino ai nostri giorni. Via San Lorenzo fu dedicata alla poetessa Rachele Botti Binda, per poi tornare nel 1955 alla denominazione originaria; via Martiri di Sclemo era divenuta nel 1940 via Fanny Brambati, insegnante all'Istituto Tecnico e prima fiduciaria provinciale del Fascio femminile, scomparsa nel 1939 e la denominazione di Martiri di Sclemo era passata ad un tratto di via S. Antonio del Fuoco; via Carlo Alberto nel 1931 era stata intitolata ai fratelli Cairoli, via Villa Glori al medico Gaspare Cerioli, piazza della Pace a Costanzo Ciano, su determinazione, nel 1939, dello stesso podestà Francesco Gambazzi con i ringraziamenti personali del figlio Galeazzo; piazza S. Angelo era divenuta piazza Guglielmo Marconi: vicolo del Teatro era stata intitolato a Tito Minniti, aviatore  decorato con la medaglia d’oro al valor militare, morto nel 1935, e considerato eroe della guerra d’Etiopia. Nel giugno del 1945 su proposta del repubblicano Vittorio Dotti la strada definitivamente intitolata a Gaetano Cesari; via Concordia, allora la quarta a destra di corso Vittorio Emanuele che sbocca di fianco alla chiesa di Santa Lucia, era stata dedicata alla medaglia d'oro al valor militare Angelo Morsenti; corso Vittorio Emanuele ad Ettore Muti, segretario nazionale del partito fascista per un solo anno dal 1939 al 1940 e morto in circostanze oscure un mese dopo la caduta del regime il 25 luglio 1943; via porta Po Vecchia era stata dedicata ad un seniore della Milizia fascista che aveva partecipato alla marcia su Roma nel 1922, Luigi Valcarenghi, medaglia d'oro, caduto nel 1936 in Africa orientale; via Diritta (nome dato allora a via Arcangelo Ghisleri) era divenuta fin dal 11 ottobre 1927 via 28 Ottobre, in ricordo della marcia su Roma, e solo con il 15 maggio 1945 sarebbe stata dedicata al Ghisleri, anche se si pensava in un primo tempo ad una intitolazione ai fratelli Alfredo ed Antonio di Dio, attribuita invece poi al primo tratto di Ala Ponzone tra corso Vittorio Emanuele e via Astegiano, e sei anni dopo ad un strada all'inizio di via Castelleome. Si lasciò stare invece via Gonzaga, divenuta nel 1930 via XI Febbraio in ricordo dei Patti Lateranensi dell'anno precedente.
La galleria 23 marzo, poi 25 aprile
Con il 7 maggio, oltre quelle che abbiamo detto, mutarono nome anche via della Repubblica, che divenne via Giacomo Matteotti, via Balbo che mutò in via Ala Ponzoni, tranne, come abbiamo visto il primo tratto; via Fratelli Cairoli divenne via Ferruccio Ghinaglia, un giovane di Polengo ucciso a Pavia, in borgo Ticino, da una squadra di picchiatori fascisti il 21 aprile 1921, in occasione della festa del Natale di Roma, a cui nel nostro cimitero è dedicato un monumento dello scultore Adamo Anselmi. L'originaria via Giuseppina, come visto, divenne per oltre un anno via Amedeo Tonani, denominazione poi restata solo al tratto che, da via Postumia conduce appunto a via Giuseppina, dove aveva abitato il ragazzo ventunenne che aveva deciso di seguire i partigiani, per poi venire ucciso a Favello in val di Susa un mese prima della Liberazione, medaglia d'argento al valor militare. Via Fanny Brambati divenne via don Giovanni Minzoni (prima a sinistra di via Stenico), via Muti tornò ad essere corso Vittorio Emanuele II, piazza Ciano tornò piazza della Pace, come era dal 1919 e la galleria 23 marzo, che doveva ricordare la nascita dei fasci italiani di combattimento nel 1919 in piazza San Sepolcro a Milano, diventò galleria 25 Aprile. Il primo lavoro della nuova commissione toponomastica poteva dirsi, almeno per il momento, concluso.

martedì 3 aprile 2018

La Grande Guerra raccontata ai bambini

In guerra muoiono così i poveri come i ricchi. La carestia, conseguenza della guerra, è sentita specialmente dai poveri. Ma anche i ricchi soffrono molti danni che derivano dalla guerra. E' perciò impossibile che la guerra l'abbiano voluta i ricchi”. Era il marzo del 1918, l'esercito tedesco aveva scatenato l'offensiva di primavera sul fronte occidentale, mentre su quello italiano, dopo il grande sforzo militare e logistico di Caporetto, che non aveva prodotto un completo crollo dell'esercito italiano, gli austriaci erano ridotti allo stremo. Per far fronte alla riorganizzazione dell'esercito italiano, i ranghi imperiali erano stati rimpolpati con reclute diciassettenni e veterani, ma scarseggiavano le armi ed il cibo e la propaganda degli alleati aveva finito con lo sfiancare anche l'ostinata pervicacia degli austroungarici. Proprio in quei giorni, in attesa dell'attacco finale sul Grappa e alle foci del Piave, agli italiani veniva richiesto un ultimo sforzo. Non solo ai soldati al fronte, ma anche alle donne ed ai bambini rimasti nelle città e nei villaggi. Tutti potevano e dovevano essere utili alla patria. Anche la scuola durante la Grande Guerra si trasformò in una macchina per il sostegno patriottico. A cambiare furono in particolare le materie che, dopo un'attenta revisione, proposero programmi pedagogici legati al tema del conflitto e discussioni legate all'attualità. L'obiettivo era far capire anche ai bambini cosa fossero la Patria, la guerra per Trento e Trieste, l'eroismo militare e farli familiarizzare anche con gli aspetti più tragici della guerra come le violenze quotidiane e la morte.
L'opuscolo stampato a Cremona nel 1918
(Museo del Risorgimento di Bologna)

Fu così che proprio nel marzo di cent'anni fa, per iniziativa del Segretariato Provinciale di Cremona delle Opere federate d'assistenza e Propaganda Nazionale venne pubblicato un opuscolo “Pro resistenza interna. Dettati per le scuole elementari” dove i dettati, divisi per classi 2a e 3a, 4a, 5a, 6a affrontavano i temi della crudeltà del nemico, dell’impegno alla resistenza interna da parte della popolazione, delle misere condizioni di vita dei profughi delle terre invase, degli eroi italiani (da Dante a Garibaldi) e non mancavano per le ultimi classi, lettere di figli ai padri in guerra, in cui i bambini raccontavano i loro sacrifici per aiutare la mamma e il loro impegno per la vittoria dell’Italia.
La necessità di avvicinare la scuola e la trincea finiva con il coinvolgere tutte le materie di insegnamento: per la lingua italiana erano previste letture di giornali e periodici che narravano episodi della guerra, l’esame e la descrizione di vignette, quadri, cartoline illustrate rappresentanti i più significativi momenti ed episodi di guerra e specialmente atti d'eroismo del nostro esercito; per la geografia si proponevano tra l’altro, la configurazione del Carso e l’elenco dei comuni conquistati, ed i problemi logistici che affrontava in questo senso l'esercito italiano. Snel programma di scienze venne dato grande spazio alle novità tecnologiche in campo militare. I bambini scoprivano così le armi utilizzate al fronte, gli esplosivi, la crudeltà dei gas asfissianti, gli affascinanti aeroplani. Non mancavano poi riferimenti alle tecniche di costruzione delle trincee, dei camminamenti, dei reticolati e l'organizzazione delle retrovie. Infine, venne suggerito agli insegnanti di educazione fisica di sostituire le ore di ginnastica e sport con visite agli ospedali militari, alle fabbriche riconvertite alla produzione militare e ai campi di prigionia
Gli insegnanti avevano anche il compito di sorvegliare e segnalare i casi di bambini che si dimostrassero poco inclini a sostenere la guerra e lo sforzo patriottico. Antonio Gibelli ("La Grande Guerra degli italiani", BUR, Milano, 2009, p. 235), racconta ad esempio di una bambina che in un tema, scrisse: "Chi fa la guerra sono tutti poveretti perché di signori non ce n'erano lì in terra" riportando delle considerazioni sentite dal padre, ricoverato in un ospedale dopo essere stato ferito al fronte. La maestra, dopo aver chiesto dove avesse sentito queste cose, strappò il compito e diede un ceffone alla piccola. Nulla doveva turbare il crescente patriottismo dei bambini. 
Non a caso l'opuscolo cremonese si apre con il testo che abbiamo riportato all'inizio. E' un dettato per bambini di 2ª e 3ª elementare. Altri affrontavano il tema del nemico tedesco. Infatti fino alla fine del XIX secolo, i bambini erano stati poco considerati all'interno delle società e del nascente mercato di massa. Al contrario, all'inizio del Novecento iniziarono ad essere visti come dei potenziali lettori e consumatori di beni, nella consapevolezza che la loro nazionalizzazione avrebbe costituito per molti versi la premessa all’opera di statalizzazione dell’infanzia condotta successivamente dal fascismo. “I Tedeschi. Recita un altro dettato – si credono destinati da Dio a governare il mondo e perciò fanno la guerra per dominare tutti gli altri popoli. Siccome poi la Germania è molto popolata e possiede tanto ferro e tanto carbone, così con la prepotenza, cerca, fuori dai suoi confini, nuove terre per dare sfogo alle sue produzioni. Per queste ragioni la Germania fa la guerra con grave danno di tutti gli altri Stati”. Come i soldati al fronte, anche ai bambini si chiedeva obbedienza, senza la pretesa di sapere i perchè ed i per come della guerra. Un dettato per la 2ª e 3ª: “Noi fanciulli non dobbiamo prestar fede ai cattivi e agli ignorante che vogliono i tedeschi in Italia. Dobbiamo ascoltare le parole dei nostri maestri e ripetere in casa e fuori che questa guerra è stata voluta dalla Germania, la quale mira a diventare a ogni costo la padrona del mondo”. Ed ancora un richiamo nazionalista: “Gli uomini più grandi del mondo sono: gli scienziati Archimede, Galileo, Volta e Marconi; il poeta Dante Alighieri; lo scopritore Cristoforo Colombo; i pittori Raffaello, Tiziano e Michelangelo; i musicisti Rossini e Verdi; i condottieri Giulio Cesare, Napoleone e Garibaldi. Questi grandi sono nati in Italia e, per essi, tutti gli uomini ebbero la civiltà ed il progresso. Gli italiani non lo devono dimenticare; gli italiani hanno diritto, come ogni altro popolo, di avere la propria libertà, perchè la propria civiltà continui a trionfare”.
Foto del Museo dell'Educazione-Università di Padova
Se la condizione dei bambini nel periodo di guerra mutava in relazione alla loro appartenenza sociale, è comunque possibile rilevare alcuni elementi che accomunavano le esperienze dei più piccoli. A partire dalla diffusione dell'ideologia della parsimonia e dei sacrifici che divenne un imperativo economico e morale che riguardava tutti i cittadini, indistintamente, inclusi i più piccoli. Nei giornalini a loro destinati, nelle cartoline illustrate, nei manifesti murali, i bambini diventavano destinatari di ammonimenti precisi: non consumare troppo le scarpe saltando alla corda, non sprecare carta facendo macchie sui fogli, consumare solo lo stretto necessario per l'alimentazione, magari rinunciando allo zucchero che scarseggiava. Ai più piccoli si consigliava questo dettato: “La carestia, conseguenza della guerra, comincia a farsi sentire. È dovere di tutti sopportare le privazioni di questi difficili momenti senza lamento alcuno, serenamente e silenziosamente. Tutto ciò che risparmieremo nelle nostre case tornerà a beneficio dei soldati che, altrimenti, ai gravi disagi della trincea dovrebbero aggiungere anche quello più grave della fame”. Ed ancora: “I nostri bravi soldati resistono, combattono da leoni, perhè il crudele nemico non avanzi, Essi vogliono vincere e vinceranno. Ma alla volontà loro la nostra si aggiunga forte, risoluta. Il ricco, il povero, il letterato, l'operaio, il sacerdote, si uniscano fraternamente in un solo pensiero: la vittoria. Grandi e piccoli, uomini e donne con animo virile sopportino dolori e privazioni. Bisogna resistere, bisogna vincere”. Un dettato per i più grandicelli ammoniva: “E' tempo di sacrifici, fanciulli miei, delle generose rinuncie, che ognuno impone a sé stesso, sull'unica legge del cuore, quando la Patria è nel pericolo e nel dolore. L'aula è poco riscaldata: ebbene, ci riscalderemo noi con la ginnastica che fa l'animo lieto e rinvigorisce il corpo; occorre tanto legno lassù per nuove trincee; nessuno qui senta il freddo. Il pane è oscuro: ma ai nostri prodi combattenti non mancheranno le buone pagnotte; nessuno si lagni. Gli abitini sono un po' logori, ma di grigio verdi ce ne saran sempre di nuovi; non pensiamo a inutili capricci. E non più leccornie, non più cinematografi, non più sollazzi, finchè lo straniero calpesti il suolo d'Italia”. Un altro dettato cerca di giustificare la mancanza di derrate alimentari. mettendo all'indice i disfattisti: “Alcuni dicono ancora oggi: «Si poteva restare neutrali e non vi sarebbe stata carestia». Ebbene guardiamo le azioni neutrali p.e. la Svizzera e la Spagna. Esse sono in condizioni quasi peggiori di noi per quantità di generi alimentari. Ciò perchè gli Stati in guerra han proibito l'esportazione di molti generi e han rincarato tutto. I neutrali, per aver ciò che loro manca, devono pagarlo ad altissimo prezzo. E' aumentato anche incredibilmente il costo dei trasporti di merci, per i danni dei sottomarini. I negozianti nei paesi neutrali hanno comperato ad ogni prezzo i viveri, per rivenderli ai paesi belligeranti, e tutto questo ha portato la carestia anche ai neutrali, carestia forse più grave di quella che sentiamo noi”.
Disegni di un bambino (Museo dell'Educazione-Università di Padova)
Non mancavano parole anche per le martoriate popolazioni che si trovarono nei territori invasi dalle truppe austriache e tedesche all’indomani di Caporetto; qui i bambini e le bambine conobbero anche la paura e la fame, la prepotenza degli uomini in armi, il precoce contatto con la violenza e con la morte. Inoltre i bisogni della popolazione finirono in se- condo piano rispetto alle priorità dell’esercito occupante: i generi alimentari destinati ai civili vennero drasticamente razionati; le produzioni manifatturiere e agricole vennero requisite e si procedette allo smantellamento di ciò che ri- maneva dell’apparato produttivo; foraggi, animali, derrate alimentari e persino suppellettili domestiche e biancheria dovettero essere consegnate. “Abbi pietà di tutti gli infelici; ma, oggi, il tuo cuore sia specialmente rivolto ai profughi delle terre invase: ai miseri che abbandonarono la casa, le cose più care, per isfuggire alla cattiveria del nemico, per essere liberi e Italiani. Per loro risparmia il soldino destinato alla gola”.

La necessità di fornire un sostegno patriottico ai soldati impegnati al fronte, vede in prima linea anche i bambini. Il nostro opuscolo si conclude con l'indicazioni di due dettati dal forte contenuto emotivo: “Scrivete al vostro babbo, suggerite alla mamma, che con voi gli scriva: ditegli che lo vedete con gli occhi del cuore e della mente, e ve lo figurate attento e fiero, pronto all'attacco per la vittoria nostra, per la sconfitta di quel nemico che mira con ansia feroce a rendersi padrone delle nostre case, delle nostre belle campagne, delle nostre industri città, che vuol calpestare le tombe dei nostri avi che l'avevano scacciato, che vuol soffocare in noi ogni palpito di libertà, che vuol renderci schiavi una seconda volta”. Ed infine: “Questo grido: La Patria è in pericolo! Questo grido che vuole chiamare in soccorso tutte le forze di tutti gli italiani, viene persino dalle madri, che hanno già perduto un figlio e che scrivono all'altro che è in trincea: «Figlio mio, fai il tuo dovere; combatti e vendica il fratello ucciso; combatti e sii degno della libertà che vogliamo, della giustizia che dobbiamo amare!» Vi sarà ancora oggi un insensato che osi dire: «Ben vengano i Tedeschi!»? Ricordatevi: Tedesco significa bastone, catene, forza, miseria, avvilimento, distruzione di tutto ciò che è bello, santo, di tutto ciò che amiamo. Di tutto ciò che è nostro”. La guerra non risparmiava nessuno, tutti venivano chiamati. Anche i bambini.