mercoledì 20 aprile 2016

Guido Acerbi e il "caso Piccoletti"

Il foglio identificativo di Guido Acerbi
Un episodio oscuro dei primi anni della nostra storia repubblicana, a lungo rimosso, ed ora riportato alla luce nella sua drammaticità in una quarantina di pagine scritte con passione e rigore scientifico da Mimmo Franzinelli e Nicola Graziano nel libro “Un'odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio”, edito da Feltrinelli. Una vicenda che diventa lo specchio dei conflitti e delle contraddizioni di un tempo convulso, tra la fine della guerra e le prime elezioni democratiche del 1948 nell'ex feudo di Farinacci. A lungo, per descrivere la vicenda giudiziaria e umana di Guido Acerbi, si sono usati i termini “estremismo”, “infantilismo politico”, mentre invece le pagine rigorose di Franzinelli e Graziano, lasciano intuire ben altro. Se Danilo Montaldi ne avesse avuto il tempo, avrebbe probabilmente dato alle stampe quel documento clandestino avuto il 20 aprile 1951 in cui Guido Acerbi, detenuto a Portolongone oggi noto come Porto Azzurro, racconta a Ernesto Marabotti le condizioni di vita nel carcere a cui era stato condannato in quanto accusato del delitto “Piccoletti”. Ma, ancor di più, avrebbe completato quella sua ricerca sociologica sull'effettivo ruolo della “paramilitare” e dei rapporti dei militanti clandestini con l'ufficialità dell'apparato, testimoniata solo da un foglietto di appunti.
Acerbi, assolto dall'accusa di costituzione di organizzazione a carattere militare, appena diciannovenne venne condannato per omicidio a ventisei anni, sei mesi e venti giorni di carcere oltre alla multa di 190.000 lire, con libertà vigilata e interdizione perpetua dai pubblici uffici e nellaprimavera del 1949 venne trasferito nel penitenziario di massima sicurezza dell'Isola d'Elba da dove iniziò un'odissea giudiziaria che lo portò a Alessandria, Pizzighettone, Milano, Piacenza fino al manicomio di Aversa, dove entrò la mezzanotte del 3 settembre 1959 per uscirne il 30 settembre 1962 a trentaquattro anni. Lavorò poi come geometra in modo autonomo, prima di trovare impiego all'ufficio urbanistica del Comune di Cremona. Non si avvicinò mai più alla politica attiva, pur non nascondendo le sue simpatie di sinistra, e confessava di essersi profondamente pentito di quella “tragica stupidaggine”, dovuta “ad accecamento ideologico”.
E' la vigilia delle elezioni del 18 aprile 1948. Guido Acerbi è uno studente di quinta geometri dell'Istituto tecnico superiore Eugenio Beltrami, legato agli ambienti della Federazione comunista e dell'Anpi. Sono momenti di grande tensione: gli ex garibaldini nascondono le armi in previsione di un'eventuale offensiva democristiana. Nel giugno del 1946 la questura ha già rinvenuto una quantità di fucili mitragliatori, bombe a mano e materiale bellico nella caserma Massarotti, sede provinciale delle Fiamme Verdi. Qualche mese dopo, in agosto, vengono sequestrate due mitragliatrici Breda e il 10 settembre il bracciante Olimpio Puerari viene ucciso a bruciapelo dall'ex segretario fascista di Scandolara Ravara Mario Morandi, che poi verrà infine assolto dopo un processo interminabile. Guido, dal canto suo, appena sedicenne, nel corso delle vacanze scolastiche di Natale nel dicembre 1944, aveva lasciato la città e raggiunto una prima volta i partigiani tra Valdarda e Valnure ma poi, salvato dal rastrellamento da una famiglia di contadini, era stato convinto da questi a tornarsene a casa. Ma il ragazzo non aveva più voluto saperne della scuola e si era aggregato alla brigata “Eugenio Curiel” con il nome di battaglia di “Rinaldo”, occupandosi della distribuzione clandestina di volantini. Agli inizi di marzo 1945, dopo essersi iscritto al Pci, era stato assegnato alla prima brigata “Ferruccio Ghinaglia”, il 10 marzo aveva combattuto in uno scontro ad Azzanello e poi arrestato il 21 aprile per propaganda sovversiva, per poi essere rilasciato quattro giorni dopo alla vigilia dell'insurrezione. Nell'autunno del 1947 Guido costituisce il circolo giovanile Giuseppe Garibaldi al numero 2 di viale Trento e Trieste, presso la sede del comitato provinciale Anpi: conta una settantina di soci, tra cui Benito Longoni, di sei anni più anziano, nipote del dirigente democristiano Tarcisio Longoni, già membro del Cln di Monza, che poi verrà eletto deputato nelle successive elezioni del 18 aprile 1948. I due giovani si legano al sessantenne Pietro Piccoletti, un personaggio strano che vive di espedienti e che nella sua abitazione di via Genala 21 raccoglie ogni genere di oggetti, ma che, soprattutto, custodisce le armi recuperate e stipate nei depositi della stazione. Guido fa riferimento a lui per spostare le armi custodite nella propria abitazione, dapprima nella casa dell'amico, e poi, il 28 marzo 1948, fuori città nella capannina del circolo Garibaldi in un bosco in riva al fiume Po. Su un carretto a tre ruote vengono portati fucili, bombe a mano e due mitragliatrici Breda, che vengono nascosti in una cavità ricavata sotto il pavimento, raggiungibile attraverso una botola. I dirigenti politici del Pci erano a conoscenza di questi traffici? Probabilmente si, sostiene Franzinelli, ma lasciavano fare sia perchè i due gravitavano nell'orbita della sinistra, sia perchè non iscritti al Pci. Garanzia, questa, di totale estraneità in caso di un eventuale arresto. Ma quando la campagna elettorale entra nel vivo e la tensione cresce, Piccoletti muta atteggiamento e pretende denaro per mettere a disposizione dei compagni il suo arsenale. Vuole quarantamila lire o minaccia di rivelare l'esistenza della rete clandestina. Il 21 marzo, domenica di Pasqua, Acerbi, giunto al capanno per completare il trasferimento delle armi, non trova più il materiale bellico già recuperato. 
Guido Percudani ad una riunione del PCI
Evidentemente Piccoletti lo ha già venduto, e Guido medita la vendetta. Chiede a Isaia Gardani della Federazione del Pci come ci si debba comportare nei confronti di un traditore, ottenendo la risposta di “toglierlo dalle spese” mentre il dirigente organizzativo Guido Percudani suggerisce più prudentemente di allontanarlo dalla cerchia dei compagni. L'appuntamento per il chiarimento definitivo, o piuttosto per la resa dei conti, è fissato per la notte di sabato 3 aprile a Bosco ex Parmigiano, nei pressi delle colonie padane: Guido si sarebbe presentato con la somma necessaria per far recedere Piccoletti dal suo proposito. Ma Guido quel denaro non l'ha recuperato e cerca di convincere l'amico a tornare sui propri passi. Piccoletti, messo alle strette, confessa di aver venduto le armi a due giovani ebrei, provenienti dall'est europeo, alloggiati nel campo dell'ex caserma Pagliari, militanti sionisti che a loro volta hanno già consegnato l'arsenale all'Organizzazione militare nazionale Irgun impegnata contro gli inglesi per la costituzione dello Stato di Israele. In piena notte esplodono tre colpi che freddano Piccoletti mentre in disparte sta arrotolandosi una sigaretta: due provengono dalla Browing calibro 9 di Acerbi, uno, che risulterà letale, dalla pistola a tamburo calibro 12 di Longoni. I due si liberano del cadavere gettandolo nel Po, da cui verrà recuperato fortunosamente da un pescatore di Stagno di Roccabianca il pomeriggio del 19 aprile, mentre è in corso lo spoglio dei voti. Nella tasca un biglietto con l'invito a partecipare ad una riunione del Circolo Garibaldi alle 18,30 di quel maledetto 3 aprile.
Si organizza la camera ardente nella sede dell'Anpi cercando di dirottare i sospetti verso i neofascisti, ma il 21 aprile i carabinieri sono già sulle piste di Acerbi, che viene arrestato. Lui si proclama innocente, ma i carabinieri sono convinti, attraverso Guido, di coinvolgere nell'omicidio tutta la classe dirigente del comunismo cremonese. Per questo, in assoluto isolamento, lo interrogano in modo serrato per nove giorni fino a quando il 30 aprile Acerbi confessa e dichiara: «nelle sue piene facoltà mentali e con piena coscienza di aver premeditatamente ed in unione col Longoni ucciso a colpi di pistola il Piccoletti, in quanto costui pretendeva dalle 30 alle 50 mila lire in compenso della custodia delle armi che aveva tenuto in casa sua per conto della formazione paramilitare di esso Acerbi e minacciava di denunciarlo». Il 1 maggio viene arrestato anche Longoni, che conferma punto per punto l'esistenza di una formazione paramilitare dotata di armi da guerra. Grazie alle sue rivelazioni i carabinieri ritrovano le armi «avvolte in sacchi e dentro bauli e cassette, ben lubrificate e ingrassate efficienti per lo più e pronte per l'uso, tutto un armamentario di mitragliatrici, mitra, fucili, moschetti e bombe a mano, con un'abbondante dotazione di munizioni, accessori e pezzi di ricambio, ritenuto sufficiente ad armare un intero reparto». Longoni, allettato dalla promessa di un trattamento di favore, indica in Arnaldo Bera, ex comandante della formazione garibaldina “Ferruccio Ghinaglia” e segretario della Federazione del Pci, l'organizzatore
di traffici d'armi, e Bera, fiutata l'aria, decide di sparire. Nell'ipotesi accusatoria della magistratura, scrive Franzinelli «lo studente sarebbe il paravento della mente politica, annodata nella Federazione comunista di Cremona. Il segretario organizzativo Guido Percudani e il responsabile provinciale del Circolo Garibaldi Ugo Bonali avrebbero 'diretto l'attività dell'Acerbi, pur essendo consapevoli che esso aveva strutture e caratteristica di associazione militare'. L'azione militare sarebbe scattata 'in caso di vittoria del Fronte Popolare, contro qualunque movimento reazionario specialmente di fascisti che avessero inteso mettersi contro la vittoria del Fronte».
Gli interrogatori si svolgevano di notte, con una lampada abbagliante puntata sugli occhi. Venne seviziato e percosso a sangue da un capitano e da due marescialli dei carabinieri fino allo svenimento anche il capo deposito locomotive della stazione Antonio Assumma che alla fine firmò la confessione predisposta dagli inquirenti. «Fummo tenuti per 16 giorni in una cella che si dormiva sopra di un tavolaccio senza pagliericcio con due sole coperte, lunghe e grosse come due fazzoletti da naso, senza mai un'ora d'aria», dichiararono gli imputati una volta riacquistata la libertà.
Il 'caso Acerbi' tenne banco anche il 16 giugno 1948 quando Alcide De Gasperi ne riferì alla Camera incendiando gli animi, ricollegando i fatti cremonesi alle trame del comunismo internazionale.
Guido Acerbi con Fabrizio Merisi
«Il tambureggiamento propagandistico - racconta Franzinelli - gonfia oltremodo il 'caso Cremona', ma i successivi accertamenti giudiziari ridimensionano l'organizzazione paramilitare della triade Acerbi-Longoni-Piccoletti. L'armamento rinvenuto sotto la baracca in riva al Po si confà più a una rottameria che a un gruppo paramilitare. Secondo la perizia, infatti 'le mitragliatrici per lo più non erano idonee allo scopo, e sovente neppure efficienti; le munizioni versavano in stato di cattiva conservazione e pertanto dichiarate di incerta efficienza e fuori uso dal punto di vista tecnico, praticamente atte all'uso ma con pericolo continuo di rottura delle canne per eccesso di pressione da aumentate densità di caricamento'. L'arsenale era dunque inservibile e addirittura pericoloso per chi avesse voluto utilizzarlo. Non ci fosse stato di mezzo l'omicidio di Piccoletti, la questione sarebbe liquidabile come una ragazzata, frutto di esaltazione politica».
La Corte d'Assise nel corso del processo respinge le accuse del pubblico ministero con una sentenza che smonta l'intero teorema dell'apparato armato al servizio della Federazione comunista, tuttavia i dirigenti della sinistra cremonese troncano qualsiasi rapporto con il giovane studente, ritenuto colpevole di tutti i loro guai giudiziari e viene modificata la sua scheda di riconoscimento partigiano redatta nel febbraio 1947, aggiornata dapprima con la dicitura “Sospeso” e poi “Espulso per indegnità morale”. Per lui si aprono le porte del carcere di Portologone e poi del manicomio di Aversa. Ma «immerso suo malgrado nell'inferno di Portolongone, il ventiduenne cremonese subisce una rapida maturazione e vivifica, nella dimensione collettiva della solidarietà e della lotta, le sue radici egualitarie. Nel triennio intercorso dal delitto in riva al Po, si è mutato da ragazzo perso in avventate congiure in un uomo consapevole del prezzo e della dignità della vita». Negli otto anni per cui si trascina la vicenda giudiziaria vengono via via ridimensionate tutte le accuse. Il 22 gennaio 1955 la Corte d'assise d'appello di Brescia nega che i circoli garibaldini «oltre ai professati scopi culturali, sportivi e di propaganda politica, avessero un programma delittuoso e sotto di essi si celassero delle formazioni di carattere militare». Viene poi assolto per non aver commesso il fatto il segretario federale del Pci Arnaldo Bera.
E su Guido nel settembre 1959 l'ufficiale sanitario della città di Cremona, da cui attinge informazioni il direttore della struttura di Aversa, scrive: «All'età di 18 anni ha mostrato molto interesse per la politica ed ha incominciato a frequentare amici iscritti a partiti estremisti. In casa però il suo contegno è rimasto sempre normale. Il Parroco afferma che il soggetto proviene da famiglia onesta ed onorata. Durante il periodo della liberazione si è lasciato trascinare dai compagni ed ha commesso il reato per cui subisce ancor ora la condanna. Detti compagni hanno avuto buona parte nel traviamento dell'Acerbi».

martedì 12 aprile 2016

Cremona val bene una Dieta

Il castello di Santa Croce a Cremona
“Comandò dunche el papa a’ viniziani che levassino le offese da Ferrara e restituissino le cose occupate a quello stato; e non ubbidendo loro, successivamente, benchè con qualche intervallo di tempo, gli dichiarò scomunicati ed interdetti, e per pigliare el modo della difesa, si fece una dieta a Cremona, dove oltra gli oratori di tutti gli altri stati di Italia, eccetto e’genovesi, vi intervenne personalmente el duca di Calavria, el signore Lodovico Sforza, Lorenzo de’ Medici, el marchese di Mantova, messer Giovanni Bentivogli, e credo el conte Girolamo, oltre a Francesco Gonzaga, cardinale mantovano legato del papa”.
E’ quanto scrive Francesco Guicciardini nelle “Storie fiorentine” su uno dei più importanti avvenimenti politici del Quattrocento che ebbe come scenario la Cremona sforzesca.
Per due giorni, il 26 e 27 febbraio 1483, la Capitale del Po fu al centro della diplomazia nazionale nel tentativo di risolvere la “Guerra del sale” che stava opponendo Ferrara a Venezia.
Nel castello di santa Croce convennero da ogni parte d’Italia i maggiori signori del tempo, preceduti dalle complesse trattative e dalle schermaglie politiche, non senza esclusione di colpi, condotte dagli ambasciatori nel preparare il terreno. Ludovico il Moro era già giunto in città il 3 febbraio. Il giorno precedente Eusebio Malatesti, scrivendo da Sabbioneta, aveva annunciato che il duca di Milano si sarebbe poi dovuto recare a Casalmaggiore con trecentocinquanta cavalli e che la cittadina si apprestava a preparare gli alloggiamenti, ma che sei giorni prima Pietro Marca e suo figlio Guido erano stati raffigurati poco elegantemente appesi per i piedi sulla fronte del palazzo comunale.
Ludovico il Moro
Ludovico arrivò entrando da porta San Luca: “Subito gli andai contra sin a la Porta de Sancto Lucha, - racconta Francesco Sicco, procuratore di Guido Torello signore di Guastalla, citato da Carlo Bonetti - dove, dimorando poco, gionse Sua Ecc. et il Reverendissimo Mons. Ascanio: a li quali volendo far il debito mio dismontai da cavallo per tocargli le mane et le Sue Signorie non volsero toccarmela, et facta assi reverentia me fecero montar a cavallo, et volse el prefato Signor Lodovicho ch’io andassi vanti a Sua Signoria cum el prefato Mons. Ascanio, qual ad ogni modo volse che gli andasse de sopra, et sa questo modo introrno ne la citade com tanto trionfo et solennitade del mondo et cum bellissima compagnia et grande: gionti a la Piaza el Sig. Lodovico accompagnò Mons. Canio in Vescovato dove è alozato; poi sua Eccellenza andoe a smontar a casa de Bartolomeo de Roncadello, dove allozò la ill.ma Madona Clara, quando andò in Franza. Dismontato che fui ritornai da sua Ecc.za, la quale me abrazoe”.
Ludovico il Moro si era recato prima di tutto a Casalmaggiore per sistemare una questione con i conti Torelli, signori di Guastalla, cui aveva sottratto il possesso di Montechiarugolo e che si era impegnato a restituire offrendo anche 5000 ducati ogni anno.
Nel frattempo tesseva la sua tela diplomatica, chiedendo agli Estensi di Ferrara di inviare alla dieta il conte Marsilio in sostituzione del protonotaro che avrebbe preferito la sede di Montecchio.
Aveva poi mostrato al procuratore dei Torelli alcune lettere che lo informavano del fatto che anche Lorenzo de’ Medici avrebbe partecipato alla dieta se ne avesse avuto il permesso dalla Signoria fiorentina.
Lo stesso Francesco Sicco fornisce altre informazioni al suo signore Guido Torello sulle mosse del Moro: prima di partire da Milano aveva dato ordine che si preparassero “mille homini d’arme, cinquecento lancie spezzate, trecento de suoi e venti de la famiglia, quarante per homo, et ventuo in panno, barde et penachini, che stano ducati sessanta per cadauno, et sii capi de quadra più secondo la coditione loro”. Aveva poi ricevuto lettere da Venezia in cui si diceva che la Serenissima avrebbe fatto di tutto per compiacersi il duca di Milano. Mentre fervevano i preparativi della dieta Ludovico il Moro il 10 febbraio aveva raggiunto in nave Casalmaggiore.

Lorenzo il Magnifico alla Dieta di Cremona
Ad informare dell’accordo è questa volta Eusebio Malatesta che, il 23 febbraio, fornisce un resoconto dettagliato di quanto accaduto al figlio del marchese Francesco Gonzaga. Sempre lo stesso informa il giorno successivo Francesco Gonzaga di quanto nel frattempo accade a Cremona: “Circa le diciotto hore se partì da Vescovato lo Ill.S.V. Patre et cussì cavalcando venne fin presso Cremona ad un miaro, dove trovò lo ill.mo sig. Lodovico et Revmo monsignor Ascanio cum li magnifici oratore Regio de Ferrara et uno Ambassadore del Ill. Marchese de Monferrato novamente mandato quale fratello del Marchese de Saluzzo, che tutti gli venevano incontro. In questo istante gionse anche el Mg.co Mes. Zohan Bentivolio et a sono de trombette cum grandissima festa acompagnorono qui al castello el prefato S.N. Patre e Mes. Zohan Bentivolio. Dismontati, incontinenti sopragionse el Mg.co Lorenzo de Medici al quale andarno incontra li prefati Ill.mo aig. Lodovico, Mons. Ascanio et tutti li oratori sopranominati et lo acompagnorono asonde trombette pur qui al castello. Domane se aspecta mò lo Rv.mo Monsignor Legato et li ill.mi sig.ri Duca di Calabria et Duca de Ferara, quali insieme cum el prefato S.N. Patre, Mons. Ascanio, et signor Lodovico, et Magn.co Lorenzo alogiano tutti cum le persone sue et qualche servitori qui in Castello; et lo N.S. Patre ha si no tre camere, dove convien stare tutti quelli de la camara et che sono soliti alloggiare in Castello lì a Mantova. Li altri oratori et lo resto de le compagnie allogiano in casa de li citadini. Fin qui altro nn me acade scrivere a la S.V. Se non avisarla che ‘l signor suo padre sta bene et che per continuare el debito et lo bon principio la tenerò informata de quello che tractarà a la zornata”. Puntualmente il giorno successivo Malatesta informa il giovane Gonzaga: “Adviso per che la S.V. Intenda particolarmente tutto quello che se fa a la zornata, l’adviso come hozi circa le ventuna hora montorono a cavallo li ill.i sig.ri S.N. Patre, sig. Lodovico, el Rev.mo Mons. Ascanio, il magnifico Lodovico de Medici, er Ms. Zohanne Bentivoglio cum tutti li altri ambassatori de la santissima Lega, e andorono incontra a lo Rev.mo Mons. Legato et a li Ill.i sig.ri Duchi di Calabria et de Ferrara et a Mes. Lorenzo da Castello oratore del papa. Et aspectorono questi quasi sine le ventiquattro hore suso la ripa del Po; poi gionti che furono et dismontati da nave, montorono a cavallo et cum grandissima festa a sono de trombette et de campane furono acompagnati dentro da la citade da i prefati signori. Et Rev.mo Mons. Legato nanti che ‘l venisse cui al castello, ando sotto al bandachino a la Chiesa Cathedrale insieme cum tutti li altri ill.i signori, excepto el Duca de Ferrara, quale per ascurtar la via venne ex directo qua al Castello: nanti che tutto fossero gionti al lozamento era una hora de nocte; hozi non c’è facto altro che questo. Domane se redurano in consilio. De che spero che le cose se ordinaranno bene, se ‘l no accade qualche difficultà tra l’una parte et l’altra, benchè ciascuno de persone sia benissimo disposto a quello se ha a tractar. De li progressi tenerò avisata V.Ill.S.”.

Francesco Gonzaga
Il 24 febbraio arriva anche Lorenzo de’ Medici, alloggiato nel castello di Santa Croce. “Il medesimo dì, et hanche ieri (25) tutti li prenominati signori ambassatori e signori se ne venero a star bon pezo cum lo ill.mo S.N padre al suo logiamento rasonando de cose varie et piacevole più presto che ponderose. Heri poi sule ventun hora tutti montorono a cavallo et si condussero fuora de la porta da la Mosa, fin sopra la ripa del Po, lontano da terra circa un miglio, dove stette ad aspettar fin ale ventitre hora ed meza el Rev.mo legato, li ill.i signori duchi di Calabria et de Ferrara. Gionti che furon et montati a cavallo, se aviorno per la cità, ma aparve a lo ill. sig. Duca de Ferrara venir per un’altra porta per essere la via più curta et anche in mancho strepito, et cussì fece pur a cavallo; el resto intrati ne la terra se ne venero a la ghiesa Cathedrale, et lo Rev.mo legato sotto il baldacchino, et dentro dal tempio dete la reverendissima sua beneditione, poi remontati a cavallo se redrisorno a la via del Castello cun numerosa quantità de torze, dove ad una hora de nocte se gionse et cadauno andò per le camere sue. Paulo post sopragiunse lo ill. sig. Duca de Ferrara, et tutti cum poca parte de li suoi sono disposti et alogiati in castello. Il resto de le sue famiglie alogiano chi qui, chi là dispersi per urbe”. Il 26 febbraio le trattative entrano nel vivo, senza il duca di Ferrara, sofferente di mal...di fiume “Questa mattina se redusseno a la camara del Rev.mo Mons. Cardinale tutti questi ill.i signori, et li fecero dir la messa del Spirito Sancto, excepto lo ill.sig. Duca de Ferrara che non se ne partì da la sua camara per essere stato la nocte passata un poco alterato per rispecto de la nave che heri el turbò. Audita che hebeno la messa se restrinseno in una altra camara lo prefato Rev.mo Mons. Legato, lo ill.Signor Duca de Calabria, lo ill.mo S.N. El sig. Lodovico, el Rev. Mons. Ascanio, li Mag.ci Mess. Lorenzo da Castello, oratore del papa, Lorenzo de Medici et Mes. Zohane Bentivoglio, et non volseno dentro niun altro; ma per quello che ho potuto comprendere si inanti che intrassino in consilio come doppo, rasonarono solamente de quello che se haveva a proporre per liberare Ferraram ad che me pareno tutti benissimo disposti. Questo è quanto s’é facto nanti disinare; poi la sera ale ventun hora quelli medesimi ritornorono in consilio dove steteno fin alle hore tre et meza di nocte. Quel che habiano deliberato non si sa, né si può dire, perchè ciascuno di loro hano in sacramento de non manifestarlo: se tien ben però certo che hano preso optimi partiti per liberare non solamente Ferrara ma tutta Italia da la obsesione de li comuni inimici”.
Anche la giornata del 27 febbraio fu spesa in trattative continue e, a detta dello scrivente “le cose vanno benissimo et macime a proposito dell’Ill. S.N. et de lo signor Duca de Ferrara, qual hozi ha comintiato andar inbconsilio perchè sua sig.a è stata meglio de l’usato et credo che la se sanarà presto del corpo et de la mente, vedendo le cose andar a suo proposito”. In realtà non si risolse nulla, e fu solo la Pace di Bagnolo due anni dopo a por fine alla questione.

<+S CAP6R>P<+S TONDO>assato alla storia con la duplice definizione di “Guerra di Ferrara” o “Guerra del sale”, il conflitto che si è combattuto fra il 1481 ed il 1484 con ferocia inaudita e continui capovolgimenti di fronte in tutta l’Italia, dato anche il vasto sistema di alleanze che era venuto a crearsi, ha vissuto sul territorio del Ducato estense alcuni degli episodi più eroici della contesa.
I motivi che hanno indotto la Repubblica Veneta a scatenare una guerra contro il Ducato di Ferrara sono stati molteplici.
In ambito nazionale, in uno stato italiano inesistente e suddiviso fra una miriade di signori e signorotti, quasi tutti imparentati fra di loro ma pronti in ogni momento a rinnegare il sangue e l’amico pur di allargare i loro domini ed il loro potere, si assisteva di continuo ad intrighi ed alleanze più o meno finte.
In tale fluttuante ed ondivago quadro politico la Repubblica Veneta era riuscita a fondare un autentico impero grazie al sistema di traffici commerciali sulle vie d’acqua e guardava con grande attenzione ad una sua espansione territoriale non solo sui possedimenti estensi del Polesine di Rovigo ma su tutto il Ducato di Ferrara, col quale intratteneva rapporti di ordinaria diplomazia e stipendiava un Visdomino in città e uno a Comacchio: questa figura, in quei tempi, ricopriva un ruolo importantissimo poiché si trattava di un magistrato che aveva l’altissimo compito di proteggere gli interessi dei sudditi veneziani che aveva la residenza nel Ducato estense. Vari sono i motivi che prepararono il terreno alla guerra del sale.
Nel 1480 venne stipulata la pace fra Lorenzo de’ Medici, signore di Firenze e Ferdinando, re di Napoli, alla quale aveva formalmente aderito anche Ercole I il quale, tra l’altro, aveva avuto il comando nella precedente divergenza militare fra Venezia e Firenze, in seguito a maggio del 1480 si addivenne ad un’alleanza fra papa Sisto IV e la potentissima Repubblica di Venezia ed a settembre del 1480 Girolamo Riario, nipote del Papa e signore di Imola, che ambiva al Ducato di Ferrara, dopo essersi impadronito di Forlì ed accordato con Sisto IV, convinse Venezia a muovere la guerra contro Ferrara. 
In ambito locale, invece, si sa di diverse questioni che hanno concorso in ugual misura a spingere Venezia verso la guerra.
Innanzi tutto Venezia non vedeva di buon occhio Ercole I d’Este, perché aveva sposato Eleonora d’Aragona, la figlia di Ferdinando, re di Napoli, il quale pensava che fosse giunto il momento di porre un freno alla potenza veneta; vi era una controversia con Ferrara sui confini, con chiari risvolti economici legati ai dazi da pagare sulle merci in transito; esisteva poi il fenomeno dell’emigrazione dei rodigini che, fin dal 1464 avevano iniziato ad oltrepassare i loro confini e a spingersi ben oltre le terre del padovano, fino ad occupare le terre di Cavarzere.
Venezia ebbe a lagnarsi di ciò col duca Borso ma decise, comunque, di soprassedere: in quel momento aveva altri interessi di cui occuparsi e le proteste rimasero in “ambito diplomatico”.
Infine il problema del monopolio del sale sul quale la Repubblica di Venezia, in virtù di tre antichi privilegi (aiuti a Matilde di Canossa, nel 1101, nel recupero di Ferrara, diverse convenzioni dal 1204 al 1366 e, infine, trattato del 1405 con gli Estensi nel quale si stabiliva, in via definitiva, che gli Estensi non avrebbero potuto commercializzare il sale di Comacchio) aveva conseguito monopolio del sale comacchiese.
Il trattato di pace del 25 marzo 1405 imponeva a Ferrara la rinuncia alle saline di Comacchio e l’obbligo di comperare il sale direttamente da Venezia.
Da ultimo una questione di soldi: quando Nicolò III decise di costruire il castello estense, chiese due prestiti, uno di 44.000 ducati (25.000 e 19.000) al marchese di Mantova, a cui diede in pegno la terra di Melara e uno di 50.000 ducati alla Repubblica di Venezia, che si tenne in pegno e a garanzia del debito pressoché tutto il Polesine di Rovigo.
Al tempo della guerra, il duca Ercole I non contravvenne mai a tali regole ma egli, tuttavia, sapeva bene che in diverse località del suo territorio (Ariano, Volano, Filo, Ostellato, Portomaggiore e Comacchio) risultava pressoché impossibile impedire la raccolta di un bene gratuito della Natura.
A gennaio del 1479 Ercole I venne informato ufficialmente dal suo console a Venezia della duplice lamentela del doge Giovanni Mocenigo: da una parte egli voleva fermare il contrabbando del sale da parte, principalmente, dei comacchiesi che lo prelevavano dalle saline e lo rivendevano ad un prezzo inferiore rispetto a quello monopolizzato da Venezia; dall’altra, voleva interrompere anche il fenomeno del brigantaggio operato, a suo dire, dagli stessi comacchiesi che poi, dopo le scorribande, risultavano pressoché imprendibili poiché andavano a cercare rifugio nelle paludose acque vallive.

Ercole I decise di indagare solo sul fenomeno del brigantaggio visto che conosceva assai bene l’altro problema della raccolta non autorizzata del sale che egli mai combatté dato l’evidente tornaconto personale. Così venne a sapere che ad esercitare il brigantaggio erano gli stessi miliziani di stanza a Comacchio i quali, non essendo pagati regolarmente, si dedicavano ad assaltare i mercanti che colà transitavano. Venne anche a sapere di numerose donne che vendevano il loro corpo agli stessi soldati in cambio del sale. Venezia decise così sia di compiere azioni dimostrative, operate da soldati mercenari ciprioti ed albanesi, i quali prima ingaggiarono scaramucce e misero a fuoco capanni e fortini, poi occuparono militarmente Magnavacca e Comacchio, sia di scortare militarmente i carichi di merci destinati al passaggio da quelle parti ma, nonostante tale sorveglianza, nell’estate del 1480 vennero attaccate alcune navi cariche di barili di aceto. La reazione comacchiese alla presa della città si tradusse nell’iniziativa di Riccardo Arveda che, dopo aver raccolto un grosso manipolo di volontari e disperati, riuscì a liberare Comacchio e ad uccidere pressoché tutti gli invasori. Sul fronte politico le cose iniziarono però a peggiorare per gli estensi poiché stava prendendo corpo il progetto di Girolamo Riario che concluse i patti con Venezia: dopo la sconfitta degli Estensi, il Ducato sarebbe andato a papa Sisto IV che l’avrebbe donato allo stesso Riario mentre Venezia sarebbe entrata in possesso di Reggio e Modena. Con Venezia si schierano: Sisto IV, Girolamo Riario, il marchese di Monferrato, il conte di San secondo (Pier Maria de’ Rossi) e la città di Genova. Le truppe vennero affidate al comando di Roberto da Sanseverino, conte di Caiazzo (Caserta). Con Ferrara scesero in campo, sotto il comando di Federico da Montefeltro, duca di Urbino Ferdinando, re di Napoli, il duca di Milano Ludovico il Moro, il marchese di Mantova Federico Gonzaga, i Bentivoglio di Bologna, i principi Colonna di Roma e la Repubblica di Firenze. Tuttavia, nonostante l’alto numero di alleati, l’esercito estense poté schierare al massimo diecimila armati contro un esercito nemico numerosissimo e privo di problemi economici.

venerdì 8 aprile 2016

Metti una sera al Filo con i fratelli Lumière


La locandina del Cinematografo Lumière
Si spengono le luci e, nel buio della sala, i cavalli sembrano uscire dallo schermo tra nuvole di polvere. Poi le prime automobili sbucano all’improvviso tra i passanti sbigottiti. E’ una serata ricca di emozioni, quella del 20 settembre 1896 al teatro Filodrammatici. Il Cinematografo Lumière approda a Cremona, a neppure un anno dall’esordio al Salon Indien, nel seminterrato del Gran Café di Parigi, al numero 14 di Boulevard des Capucines, il 28 dicembre del 1895. A portarvelo un certo Giuseppe Filippi: avrebbe voluto fare la prima proiezione in un teatro più degno, ma il Concordia era in crisi, ed a stento era riuscito a rabberciare in qualche modo la stagione lirica, ed il Ricci, che poi sarebbe andato a fuoco la notte di quel 10 dicembre, era chiuso. Non restava che il teatrino dei Filodrammatici, che il presidente Arrigo Camisasca, storcendo il naso di fronte a quella novità che “alterava la mente della gente”, aveva deciso di affittare per garantirsi qualche piccolo introito che lo salvasse dalla precaria condizione economica. Lo spettacolo dei Lumière veniva presentato come un esperimento, ma i cremonesi erano già rimasti incuriositi qualche mese prima al passaggio in città di Alexandre Promio, un agente dei fratelli francesi, con una strana macchina per riprendere la gente dal vero. Alla prima serata si presentò uno sparuto numero di curiosi, ma tanto bastò per suscitare una piccola rivoluzione.“Gli esperimenti di fotografia animata dati l’altra sera e ieri sera al Filodrammatici – scriveva il cronista il 22 settembre 1896 – riuscirono sorprendenti. Si ripeteranno per poche sere dalle 8 alle 11, di mezz’ora in mezz’ora. Ingresso cent. 50, ragazzi cent. 25. E’ uno spettacolo curioso e nuovo per i cremonesi e che ovunque ha ridestato la più grande meraviglia”. Quelle serate al Filo costituirono un avvenimento che, nelle parole entusiaste del cronista, avrebbero cambiato il mondo: “Domenica sera, al Filodrammatico, si riprodussero sei quadri: un mercato, il baluardo degli italiani a Parigi, le capre, il maneggio, una via a Pietroburgo, e un bagno non penale. Vi sono particolari nella riproduzione della realtà che colpiscono: dopo che i cavalli han fatto il salto dell’ostacolo, voi vedete la polvere alzarsi; nel via vai delle grandi città, istantaneamente colpito, voi notate le espressioni di chi passa, e movimenti, voi sentite quasi anche quello che dicono o almeno lo si sentirà in seguito, con probabile, felice connubio del microfono e del cinematografo, l’esordio è stato lusinghiero, si tratta di cosa assolutamente nuova e bella. Si fermerà quattro o cinque giorni e le rappresentazioni serali avranno luogo dalle ore 19 in avanti”.
Jean Alexandre Promio
Visto il successo le proiezioni vennero ripetute l’anno successivo. Si iniziò lunedì 20 settembre.
La sorpresa, tuttavia, non mancò neppure quella sera, anche se il Filippi, prudentemente, si era tutelato tenendo in serbo un’altra meraviglia da mostrare: il grafofono, uno strumento simile ad un grammofono, con voci registrare su un cilindro che veniva fatto udire, quanto possibile, in sincronia con le immagini proiettate sullo schermo. Il cronista riferì che le immagini non soltanto si muovevano, ma anche parlavano, segno che il “grafofono” aveva raggiunto il suo scopo meravigliando forse ancora di più delle Cinematografo Lumière. Una grandissima impressione aveva suscitato soprattutto la “sfilata del 2° Reggimento del genio prussiano” su cui il grafofono aveva registrato i secchi ordini del comandante, il rumore degli stivali dei soldati e la musica della fanfara. E la sera successiva il pubblico aveva stipato il piccolo teatro in ogni ordine di posti chiedendo al termine della serata la ripetizione della proiezione, un’abitudine squisitamente teatrale. Per ottenere il bis, però, ci volle oltre un’ora di attesa, per un inconveniente sfuggito allo stesso Filippi che, rimontando la pellicola, l’aveva collocata alla rovescia, cosicchè si era visto il reggimento marciare all’indietro, tra la grande ilarità degli spettatori, accentuata dall’ingresso sulla scena di un cagnolino che, tra le gambe dei soldati, aveva iniziato anch’esso a correre al contrario. E lo stesso accadde con la bobina successiva, contenente “Il bagno di Diana a Milano”, girato l’anno prima da Promio nel capoluogo lombardo, e già presentato al Filo nel primo ciclo di proiezioni. Il cronista osservava che il Cinematrografo Lumière presentava l’inconveniente dello sfarfallìo delle immagini e questo gli aveva procurato il mal di testa, tuttavia doveva ammettere “che lo spettacolo scientifico era interessante e in molta parte nuovo di zecca”. Al secondo spettacolo di giovedì 23 settembre dovettero intervenire i carabinieri per allontanare con la forza la folla che si assiepava nella piazzetta, attirata dal nuovo programma che prevedeva anche una registrazione al grafofono del flautista cremonese Cesare Sala. Per i successivi appuntamenti di sabato e domenica Filippi aveva preparato un programma speciale: si era recato con il suo Cinematografo sulle sponde del Po ed aveva ripreso la sfilata dei canottieri non dimenticando di riprendere con lunghe inquadrature anche il pubblico presente e la folla dei curiosi, decretando, con un processo di autoriconoscimento, l’infallibile successo degli spettacoli. Alla registrazione del flautista Sala si aggiunse quella del violinista Andrea Calamani che sul grafofono incise una sua romanza cantata da Giovanni Girelli. Filippi nella settimana di permanenza a Cremona fece affari d’oro, con offerte impensabili da parte del presidente del teatro Filodrammatici, che aveva vinto l’iniziale diffidenza ed era entusiasta del successo. Tuttavia, raccolti armi e bagagli, se ne andò senza lasciare spiegazioni, forse attirato da piazze più appetibili.
La macchina da presa dei fratelli Lumière
Sta di fatto che per un paio d’anni il cinema, dopo aver offerto un assaggio della sua grande popolarità, se ne stette lontano da Cremona un paio d’anni. Le cause sono forse da rintracciarsi nella mancanza di spazi adatti ad accogliere un pubblico via via più numeroso: il Concordia era ancora alle prese com la sua crisi interna, mentre il Politeama, inaugurato il 6 gennaio 1898, sfornava spettacoli e getto continuo, tra stagioni liriche di prosa, circhi equestri, cavallerizzi e acrobati, clowns, operette e varietà che determinavano un grande favore del pubblico. Bisognò dunque attendere il settembre 1899 per ritrovare i pionieri della settima arte ed il loro ritornò scatenò il finimondo. Per la prima volta non si trattò più di esperimenti ma di spettacoli veri e propri realizzati dai fratelli Lumière, che trovarono proprio nel Politeama la location ideale. In cinque giorni si assistette ad oltre trenta proiezioni al prezzo d’ingresso di 40 centesimi in platea e di 20 nel loggione, talmente alla portata di tutte le tasche che il pubblico non mancò di assistere a tutte le proiezioni, sancendo in modo definitivo il successo del cinema sotto il Torrazzo. I cremonesi in quell’occasione poterono vedere per almeno una decina di volte “Corrida de toros” e “Vita di Gesù Cristo”, una serie di tavole viventi realizzate dagli operatori Léar e Basile e film che oggi sono considerati pietre miliari nella storia del cinema, come “L’arrivée d’un train en gare de la Ciotat” di Auguste e Louis Lumière, proiettato la prima volta il 6 gennaio 1896, “Partie d’écarté”, con la partecipazione del padre stesso dei fratelli Lumière, “Una strada di Londra”, “Piccioni in San Marco” di Promio, “Demolizione di un vecchio muro”. Vennero proiettati anche film comici come “Lotta di quattro donne”, corrispondente a “Bataille de femme avec chien”, girato da Louis Lumière nel 1896, “La battaglia con le palle di neve” sempre del 1896, con un ciclista che viene colpito e cade davanti alla cinepresa, “Bologna ore 18, Brescia ore 14”.
Con l’inizio del secolo il Cinematografo Lumière non conobbe ostacoli anche se per qualche anno non vi fu destinato stabilmente un locale. Verso il 1905 il Reale Cinematografo Gigante, l’agenzia itinerante ideata da Salvatore Spina, portò alcuni film al Politeama, fra cui “La dannazione di Faust” realizzato nel 1903 da Georges Mèliès, il primo mago degli effetti speciali, e nel maggio 1908 fu la volta del “Royal Thaumatograph”, più noto come “Cinematografo Parlante” che mandò in visibilio il pubblico.
Bisogna attendere però l’anno successivo per avere la prima sala cinematografica in pianta stabile. A crearla è Cristoforo Nobili, un rappresentante di macchine da scrivere Remington, che fa cinema per proprio diletto a scopo sperimentale.
Con la complicità di Walter Sacchi, che possiede una rudimentale macchina da proiezione, inizia a proiettare i primi nastri di celluloide su un bianco telone nel salone posto sopra l’ingresso del Politeama. Le pellicole vengono noleggiate nel negozio di Giovanni Pettine, in via Panfilo Castaldi 17 a Milano. Purtroppo siamo ancora agli inizi e le copie dei film sono uniche, per cui le pellicole si rigano velocemente peri continui passaggi nei proiettori artigianali e gli spettatori escono dalla sala con gli occhi rossi ed affaticati.
Nello stesso Politeama tra il 1909 ed il 1915 operano altri due cinematografari della prima ora, Pettini e Marcenaro, che allestiscono spettacoli singolarmente per i bambini e gli adulti. Ma il primo gestore di spettacoli cinematografici itineranti è Ernesto Sereni, originario di Ancona, ed in origine giostraio.
Il padre, morendo, gli ha lasciato infatti in eredità una giostra acquistata dopo anni di sacrifici, con dieci cavalli bianchi di cartapesta, ognuno dei quali fissato ad una palo di ottone lucidissimo che lo attraversa in verticale. La giostra è molto particolare: coperta da un telone circolare di velluto rosso, nasconde al proprio interno uno speciale organi a canne che suona melodie e pezzi d’opera, alimentato da un moto diesel che fa funzionare un sistema elettrico.
Quasi subito Sereni baratta la giostra con un tendone militare, adibito a Ospedale da campo e camere operatoria di primo intervento. Sotto il tendone, fin dagli inizi del Novecento e fino allo scoppio della prima guerra mondiale, allestisce i suoi spettacoli cinematografici viaggianti alla Fiera di Porta Milano, per poi portarli in giro in tutta Italia. Dal 1900 al 1914 gira le città con il suo “Kinetoscope Edison”, una cassetta di legno dotata di oculari con lenti attraverso cui per pochi minuti si possono vedere immagini in movimento. “Ricordo perfettamente la figura di Ernesto Sereni – scrive di lui Gianfranco Cattagni – Me lo ricordo coi capelli candidi ed il volto rugoso, relegato in un vecchio tetro e buio negozio, in fondo a via Volturno, al numero civico 40. In quel negozietto scuro e ammuffito, ha un bella mostra giocattoli, bambole, pettini, spazzole, dentifrici ed altre mille cianfrusaglie, buttate in vetrina alla rinfusa. Sereni è piccolo di statura, tarchiato, la faccia tonda ed il volto dell’eterno ragazzo. E due occhi mobilissimi, neri e intelligenti. Con un vecchio proiettore e con l’organetto a canne, proietta le comiche di un arco che va da Ridolini a Charlie Chaplin. L’ingresso al Cine-viaggiante costa poco e la gente entra. Ora, nel suo negozietto, si gode la vecchiaia. Offre ninnoli e balocchi; non può più offrire a noi ragazzi una cosa preziosa: la fantasia”.
Il salto di qualità avviene però, prima della guerra, con il vero antesignano del cinema cittadino, Dino Calza, gestore con il fratello Pino, del Teatro Milanese, una delle prime sale cinematografiche meneghine, in corso Vittorio Emanuele.
Dino Calza
Per dissapori con l’altro socio, il commendatore Papa, proprietari di una catena di teatri milanesi, i due decidono di trasferirsi a Cremona: trovano una magazzino per carta da macero in una vecchia casa del centro storico, lo svuotano, ripuliscono e lo riempiono di sedie e panche. Diventa il cinema di “Via Curzia”, subito dopo ribattezzato “Cinema Calza”, il primo ambiente cittadino destinato esclusivamente alla settima arte, con duecento posti, disadorno ma pulito.
Verso il 1910 Dino Calza stipula un contratto con la Società Filodrammatica Cremonese, prendendo in gestione anche il teatro Filo ad uso di cinema. Ma è passato troppo tempo dall’ultima volta che i cremonesi hanno assistito ad una proiezione, ed i cinema non sono molto frequentati.
Quando il pioniere sembra sul punto di mollare tutto, arriva il soccorso insperato della guerra di Libia: è la prima in cui alcuni bravi operatori al seguito del truppe girano lungometraggi sugli avvenimenti bellici in terre lontane. E’ proprio grazie ai primi “cinegiornali” che il cinema torna ad essere affollato. E Calza abbina alle proiezioni tutto ciò che può far spettacolo.
Nel 1911 deve chiudere per mancanza di risorse il teatro Eden, in via Zara nella zona di piazza Castello, dove si organizzano vari spettacoli, dal cinema, ai piccoli circhi, alle marionette. Calza decide quindi nel 1913 di allestire il primo cinema estivo all’aperto nel cortile di un vecchio palazzo in via Gaetano Tibaldi: fili di ferro tesi da un muro a all’altro con un sistema di teli mobili da chiudere sulle teste degli spettatori in caso di maltempo. E’ il cinema all’aperto “Giardino Esperia”.
E quando nel 1915 l’Italia entra in guerra reagisce con un atto di coraggio che gli fa costruire un nuovo fabbricato in via Anguissola: il più grande edificio di quei tempi destinato al cinema. Il progetto viene affidato ad Attilio Gamba, il fabbricato e le coperture murarie vengono eseguite sotto la direzione di Enrico Guindani, la decorazione degli ambienti è opera dello scultore Guido Persico, membro della Reale Accademia di Brera, coadiuvato dal milanese Mario Ceresa e dal cremonese Ferruccio Rossi. I piloni in cemento armato ed i soffitti sono forniti dalla Soc. an. Cementi di Cremona mentre i pavimenti e le decorazioni interne ed esterne sono eseguiti dalla ditta Gamba Persico e Giuseppe Farina di Cremona e da Francesco Ballanti di Crema. I serramenti sono opera dei cremonesi fratelli Poli, i mobili ed i rivestimenti in legno del cremonese Luigi Guastalli, l’impianto elettrico dell’Unione Elettrotecnica Cremonese e quello di ventilazione e riscaldamento della società Gaetani di Cremona. Mobili in ferro della ditta Bossi di Gallarate e lavori in ferro battuto. E’ costruito in puro stile liberty, con un grande atrio spazioso ed un imponente scalone che porta alla galleria. Tutti i soffitti e le colonne che reggono gli ingressi sono decorati a stucco, con grappoli d’uva, pampini e vitigni. Nel complesso è un locale molto elegante, con decorazioni sfarzose, mobili di pregio e lampadari elettrici. E’ dotato di 700 posti, 380 in platea e 120 poltrone in galleria. L’inaugurazione ufficiale è il 30 ottobre 1915 con il film “Il fucile di legno”, a cui segue una comica brillante. Il prezzo di ingresso è di una lira per la galleria e 60 centesimi per la platea. Biglietti scontati per militari e ragazzi. Per Cremona si tratta di un’opera colossale, vista ed ammirata da tutti gli esercenti di cinema italiani. Nel 1928 la gestione passerà nelle mani di Luigi Rizzoli, che, oltre al cinema “Italia” gestirà anche la sala “Olimpia” ed il Filodrammatici.

martedì 5 aprile 2016

L'ultimo degli Stradivari


Joseph Wechsberg musicista cecoslovacco, avvocato, gastronomo, scrittore ma soprattutto giornalista del prestigioso “New Yorker”, dopo aver ottenuto la cittadinanza americana nel 1944, nel settembre del 1950 fu inviato dal settimanale “Epoca” a Cremona sulle tracce degli ultimi eredi di Stradivari. Ne uscì un reportage di straordinaria efficacia e l’umanissimo ritratto di due grandi appassionati di musica e liuteria, l’avvocato Mario Stradivari e lo studioso Renzo Bacchetta, sue guide in uno straordinario visita notturna al teatro Ponchielli e nelle vie deserte della città, fino alla lapide del grande liutaio. Ma anche la critica disincantata ad una città inconsapevole ed ingrata, il racconto malinconico ed appassionato di un grande giornalista che si confronta con quanto è rimasto del mito.

di Joseph Wechsberg
Mario Stradivari e Renzo Bacchetta
Era alto e massiccio, aveva un volto scavato con un gran naso aquilino e la fronte altissima: camminava lievemente curvo in avanti, a passi lunghi e lenti. Portava un abito troppo largo e un cappello dalle falde amplissime.
«Au revoir, au revoir!» mi gridò improvvisamente, con voce profonda di basso, togliendosi il cappello con spagnolesca grandezza. «Mi scusi» disse poi, «ma io mi confondo sempre quando parlo francese. A ogni modo bienvenu, bienvenu! Ho incontrato Maddalena e mi ha detto di lei. Quella sciocca avrebbe anche potuto farla attendere nel mio studio. Venga, si accomodi e sia benvenuto nella casa di Stradivari». Spiegai con una certa esitazione lo scopo puramente sentimentale della mia visita. Stradivari mi guardò sbalordito e poi, alzatosi, m’afferrò la mano con estremo calore. «Accidenti a Maddalena! Ma perchè non mi ha detto che lei non era un cliente? Non mi entusiasma ricevere clienti dopo le sei di sera. Ecco perchè le lancette del mio orologio segnano sempre le sei: per ricordare a tutti che rappresentano la fine della mia giornata di lavoro. Ma non accade spesso che venga a trovarmi un ammiratore di Antonio Stradivari. Prima della guerra, sì, qualcuno c’era sempre, ma ormai nessuno più se ne cura.
Stradivari aprì un cassetto enorme, frugò tra un mucchio di carabattole, e alla fine portò alla luce una statuetta in bronzo, che raffigurava un uomo seduto su una sedia con un violino tra le mani. Sulla base era scritto: Antonio Stradivari. «Eccolo qua», disse Mario Stradivari, dando un colpetto sulla spalla della statua. «La gente dice che ho ereditato il suo nasone, la fronte, la bocca piegata all’ingiù e le dita molto lunghe. Ridicolo!». E gettò la statua sulla scrivania, dove essa giunse con un gran tonfo. «Un tipico caso illusorio», riprese agitando le braccia. «Quella stupida statuetta fu fatta da Miccheri, uno scultore cremonese, che si regolò, per modellare la figura, sul celebre quadro di Hamman, quadro che, come lei saprà, è opera di pura fantasia. Non esiste nessun quadro di Antonio Stradivari e quindi nessuno può veramente dire che faccia avesse il nostro amico.
Stradivari si alzò e indicò la fotografia ovale, in cornice, di un vecchio signore dignitosissimo, dagli stessi occhi ridenti e dallo stesso sorriso comprensivo del mio ospite. «Mio padre» disse. «Si chiamava Libero ed era il miglior avvocato di Cremona. Il suo studio era questo stesso studio. Lui pure era un grande oratore. Lo chiamavano la Sirena del Foro di Cremona per la sua voce, che sembrava quella di un vapore che ululi nella nebbia. Papà faceva parte della Giunta Municipale e quando pronunciò un discorso al Palazzo del Comune i giornalisti non si presero il disturbo di salire le scale del palazzo per andarlo a sentire. Si erano solo accertati che le finestre del salone fossero aperte e così poterono sentire comodamente il discorso dal caffè sottostante, prendendo appunti tra un bicchiere di vino e l’altro».
Stradivari mi mostrò un’altra fotografia del padre in età più giovanile, in compagnia di tre signori. Dedussi dagli abiti che i quattro portavano che la foto risaliva agli inizi del secolo. La dedica sotto la foto diceva: «Al mio sempre grande amico Libero Stradivari il suo Giacomo Puccini».
«Papà e Puccini erano intimi amici»; spiegò Mario Stradivari. «Gli altri due sono Giacosa e Illica, Illica volta la faccia dall’altra parte. E sa perchè? Gli mancava un orecchio e non voleva che si vedesse. L’aveva perduto in un duello. Era un tipo formidabile, Illica. Credo che abbia avuto trentadue duelli nella sua vita, il che è qualcosa anche per il librettista della Tosca. Lui, con Giacosa e Puccini avevano l’abitudine di venire qui ogni tanto, a bere, a fare della musica e cantare con papà, e con papà trascorrevano quasi tutta la notte girando per Cremona e facendo un tale baccano da svegliare la città».
Stradivari sospirò. «A quei tempi», disse, la gente spendeva tempo e ingegno per divertirsi. Su ora, venga nel mio appartamento a bere un bicchiere di vino. Aspetto un amico questa sera. Le parlerà di Antonio Stradivari, molto di più e molto meglio di quanto possa fare io».
Stradivariri con i ritratti di Rossini
L’appartamento di Stradivari è al secondo piano. La sua governante, una contadina dal viso aperto e un grembiule bianco, ci venne incontro in anticamera. Stradivari le disse di portarci qualcosa da bere e da mangiare, e presto. La donna assunse di colpo un’espressione infelice e protestò che l’avvocato le aveva per ben due volte assicurato che quella sera non sarebbe venuto a casa per cena. Stradivari, a questo, sollevò un baccano tremendo, e la governante corse via facendosi il segno della croce e mormorando che forse in casa si trovava un po’ di formaggio e di vino. L’avvocato mi condusse in un salotto spazioso e accogliente. Il ritratto di una donna, dipinto nello stile di Monna Lisa del Leonardo, dominava una parete. «Mia nonna, Lavinia Maini», disse Stradivari, indicando il quadro. «Doveva essere stata una gran bella donna. E questa», continuò volgendosi verso una fotografia, «è mia moglie. Era molto bella. Noi Stradivari sposiamo sempre delle belle donne». Stradivari sedette davanti a un grande piano a coda presso una finestra. Disseminati sopra, sotto e tutto intorno al piano, c’erano spartiti di opere e operette e montagne di canzonette, insieme con fogli da musica, alcuni bianchi, altri ricoperti di note scribacchiate a matita. Sulla parete presso il pianoforte, una fotografia con firma autografa di Verdi. Sull’altro lato della sala si vedevano due foto, entrambe, a quanto sembrava, di Rossini. Stradivari mi disse che una sola, in realtà, era di Rossini e m’invitò a capire quale fosse. Tentai, ma lui si mise a ridere, dicendo che m’ero sbagliato, come capitava a tutti. «Ecco, ora le mostro chi è l’altro», concluse. Si trasse un pettine di tasca e si acconciò i capelli in avanti fino a farli ricadere quasi sugli occhi, si allargò il nodo della cravatta e rialzato il bavero della giacca e assunta la stessa posa della foto, divenne l’immagine perfetta dell’autore del barbiere. Stradivari era chiaro, si divertiva un mondo.
Picchiarono alla porta e un ometto dallo sguardo intenso e penetrante, gli occhiali cerchiati d’osso e l’aria affannata, entrò col fiato grosso e una gran borsa rigonfia. Stradivari lo accolse con esuberante cordialità, e me lo presentò come il suo amico Renzo Bacchetta, professore alla Scuola Internazionale di Liuteria, oltre che giornalista noto e specialista cittadino di Stradivari. Quest’ultima prerogativa ebbe il potere di rattristare profondamente Bacchetta. «Oh, non creda che questo m’abbia reso popolare presso i Cremonesi!», disse. «Non sanno niente di niente, quanto a violini, e gliene importa ancora meno, tutto quello che conta, qui, è che il prezzo del formaggio resti alto..». Stradivari lo scosse energicamente per le spalle. «Niente piagnistei questa sera, Bacchetta», urlò. «Questo mio amico è venuto fin dall’America per sentire qualche gustoso scandalo sulla famiglia Stradivari».
L’ometto annuì. «Gli hai detto quello che è il vero scandalo?», domandò con voce amareggiata. «Che nessuno a Cremona possiede un solo violino creato da Stradivari, Amati o Guarneri? Sì, caro signore»; continuò in tono drammatico, «Cremona ha tradito la sua tradizione migliore. Formaggiai, setaioli, locandieri sembra che si vergognino di Antonio Stradivari. Hanno la coscienza sporca. Dicono di non poter spendere qualche milione di lire per erigere un monumento a Stradivari. Hanno dato il suo nome a una strada, come se fosse stato un membro della Giunta municipale, ma non saprebbero ricomperare uno dei suoi violini. Se un cremonese vuole vedere uno Stradivari deve prendere il treno e spingersi fino a Parigi, o Amsterdam, o New York». La voce di Bacchetta si spense, e l’uomo si lasciò andare malinconicamente su una sedia. La governante entrò con un vassoio su cui aveva disposto parecchie bottiglie di vino, piatti e bicchieri e alcuni grossi pezzi di gorgonzola. Stradivari la redarguì dolcemente per essersi fatta tanto aspettare. «Su, prendiamo un po’ di vino e formaggio»; disse Stradivari. Bacchetta inghiottì la saliva e lo guardò di sbieco. «Formaggio, ancora e sempre formaggio», disse. Ovunque io vada, non faccio altro che vedere, non faccio che sentire formaggio. Anche in casa di Stradivari!». Mario riempì i bicchieri con un liquido color ambra. «Provi questo», mi disse. «E’ fatto con le arance della mia tenuta. E’ molto forte. Su, allegro, Bacchetta. Le cose potrebbero andare molto peggio. Dopo tutto, c’è un autentico Stradivari in questa casa». Indicò se stesso e noi tutti alzammo i bicchieri.
Due ore e tre bottiglie più tardi, Stradivari tornò davanti al pianoforte e si chinò a pescare alcuni fogli di musica dal mucchio che aveva accanto a sé sul pavimento. Era lo spartito di un’opera intitolata “Le Nozze in Turenna”.
Le carte di Mario Stradivari
Fui sorpreso di vedere che il nome del compositore era Mario Stradivari. Bacchetta mi disse che Mario è noto e apprezzato compositore, «in tutta Italia, meno che che nella sua città».
Ha scritto due opere, tra cui “La Leggenda del Gatto con gli Stivali” e un gran numero di composizioni minori e molte canzoni popolari, che spesso anche la radio trasmette.
«La Leggenda», mi disse Mario, «fu presentata nel 1935 e “Le Nozze in Turenna” ebbero la loro prima due anni dopo...e anche la loro ultima, si potrebbe dire. Il libretto è tolto da un testo di Balzac. Ora vi canto il duetto d’amore».
Stradivari, dopo aver sonato il preludio, cominciò a cantare. La sua voce, sebbene non educata, indicava tutto il genio italiano per il canto: ritmo e intonazione erano perfetti.
Stradivari stava per ricominciare, quando qualcuno si mise a picchiare dall’altra parte del muro.
Mario non se ne dette per inteso e riprese a sonare, senza più badare ai colpi, che continuavano a intervalli. Era il direttore del museo locale, che abitava alla porta accanto, un uomo non molto amante né della musica né dei violini.
«Il museo ha tre grandi sale piene di monete medievali», disse Bacchetta rabbiosamente, «ma non c’è che una saletta per i ricordi di Stradivari e degli altri liutai. Pensare che quelli del museo non hanno nemmeno voluto imprestarmi il diario di Cozio di Salabue, che sono stato io a pubblicare». Commisi l’errore di chiedere chi fosse Cozio di Salabue.
Bacchetta si eccitò tutto, aprì la sua borsa e ne trasse un grosso manoscritto. «Duemila pagine»; disse. «Mi ci sono voluti nove mesi, sedici ore al giorno, due lenti d’ingrandimento e tre segretari per pubblicare questo diario, dato che esso contiene gli elementi più sensazionali che mai si abbiano avuti su Antonio Stradivari».
Chiuse un occhio, strinse le labbra e alzò solennemente la mano destra. «Nessuno può intimidire o corrompere Bacchetta», disse. «Il diario verrà pubblicato l’anno prossimo, e desterà una impressione enorme, le assicuro. Innanzi tutto, proverà che Antonio Stradivari non nacque nel 1644, come sostengono alcuni, ma nel 1684. Il Conte Alessandro Cozio di Salabue, sul cui diario Bacchetta basa le sue convinzioni, era un nobile piemontese che viveva a Casale Monferrato agli inizi del diciannovesimo secolo e possedeva una grande collezione di cimeli di Stradivari: strumenti, lettere, disegni, utensili, e formule per fare la sua famosa vernice. Aveva comperato tutto ciò dal figlio più giovane di Antonio Stradivari, Paolo, mercante di stoffe che non sembrava avere il minimo interesse per la liuteria. Le biblioteche musicali hanno il pedigree scritto di quasi ogni stradivarius accreditato, coi nomi di tutti i suoi successivi proprietari e il periodo in cui fu in loro possesso, onde la storia d’ogni volino può, o così generalmente si crede, essere ricostruita fino a quando esso lasciò il laboratorio del suo creatore.
Ma Bacchetta non la pensa così. «Cozio non era soltanto un collezionista, ma anche un abile uomo d’affari», mi disse. «Alcuni fra i più notevoli stradivari sono quelli che portano la data degli ultimi anni del Maestro: il 1736 e il 1737. Cozio ammette nel suo diario di avere alterato l’anno sulle etichette di parecchi stradivari trasformando il 1727 in 1737, e il 1730 in 1736. E’ abbastanza facile cambiare il 2 in 3 e lo 0 in 6, e Cozio probabilmente accumulò un bel patrimonio col suo piccolo falso. Sarà un gran brutto giorno per i possessori di qualche stradivario di tarda fattura quando verrà pubblicato il diario». Mario era chiaramente stanco delle chiacchiere di Bacchetta e tornato allo strumento si mise a sonare, cantando, alcune arie della Traviata. I picchi sulla parte ricominciarono e Bacchetta dovette alzare la voce per essere udito.
«Nei suoi ultimi anni Stradivari soleva talvolta scrivere la sua età sull’etichetta d’un violino che aveva appena terminato», disse. «Su un ben noto Stradivari si legge Stradivarius faciebat anno 1736 d’anni 92».
La musica e il canto di Mario aumentarono e i pugni sul muro divennero ancora più frenetici. Bacchetta dovette mettersi letteralmente a urlare.
«Ciò porrebbe l’anno della nascita di Stradivari nel 1644», annunciò venendomi accanto a afferrandomi per il bavero della giacca. «Ma e se si trattasse d’uno dei violini a cui Cozio cambiò data?».
Squillò il campanello e la governante entrò per urlare non so cosa a Stradivari, che ora stava cantando Wagner. Egli non le badò minimamente. La donna uscì dalla stanza per tornare dopo qualche istante annunciando che i vicini intendevano chiamare la polizia se il fracasso non avesse avuto fine.
Stradivari le ordinò di andarsene ma smise di sonare e ci propose di andare al Ponchielli, dove avremmo potuto sonare e cantar a piacimento.
«Sono le undici passate», disse Bacchetta, «e il teatro sarà chiuso». Stradivari disse ch’era quello che ci voleva: almeno nessuno ci avrebbe disturbato. Si mise in tasca una bottiglia di vino, ne porse un’altra a me e una terza a Bacchetta. Questi ripose con la massima cura il manoscritto nella borsa, con l’aria di un uomo che ha la responsabilità di un segreto atomico.
«Forza, amici, cantiamo!», s’interruppe per urlare. «Sempre si canta in casa Stradivari!».
Fuori tutto era tranquillo e avvolto nella nebbia. L’aria fredda parve avere un effetto calmante su Stradivari. Cessò di cantare e, mentre camminavano, si mise a parlare delle reazioni dei suoi compatrioti sul suo nome. Il teatro era buio e deserto. Girammo dietro l’edificio fino alla porta del palcoscenico, dove Stradivari, attaccatosi al campanello, cominciò a urlare. Dopo un po’ il custode, un vecchio decrepito, fece la sua comparsa, portando una giubba macchiata su tutto un assortimento di biancheria intima. Cominciò a maledire noi e i nostri avi, ma il volto gli si illuminò tutto quando riconobbe Stradivari e i due cominciarono a darsi delle gran manate sulle spalle. Ciabattando davanti a noi e accendendo le luci a mano a mano che si procedeva, il custode ci portò nel suo sgabuzzino dove tutti bevemmo vino dalla bottiglia di Stradivari. Il sipario era alzato e la scena quella del quarto atto del Rigoletto, ch’era stato dato quella sera. Mario Stradivari si spinse fin presso le luci della ribalta, con gli occhi spazianti sulla vasta e buia platea, e cominciò a cantare. Cantò quasi tutte le arie celebri del Rigoletto, e, infine si dichiarò assetato e il custode corse a prendere dei bicchieri. Giunti alla terza bottiglia, Stradivari, il custode, Bacchetta e io stavamo cantando il bel quartetto del quarto atto dell’opera, con Bacchetta e il sottoscritto che facevano le parti da donna. Dopo ogni numero, il custode accendeva tutte le luci della platea, Bacchetta faceva scendere il sipario, e tutti e quattro avanzavamo fino alla ribalta, inchinandoci ai frenetici applausi di un invisibile pubblico in delirio. «Che straordinario cantante sarebbe stato l’avvocato!», disse Bacchetta con profonda ammirazione. «Che forza! Che personalità! E invece perde il suo tempo a salvare la vita alla gente. E una vergogna!».
Stradivari, Bacchetta e io lasciammo il teatro alle due. «Ora è il momento giusto di fare una visita ufficiale alla casa di Antonio Stradivari», disse Mario, guidandoci verso piazza Roma, ch’era nel centro della città. Anche a quell’ora la piazza era ben illuminata. Su di un lato c’erano i giardini pubblici e sull’altro uno di quei palazzoni per uffici in stile neoclassico, con facciata marmorea e ingressi grandiosi che Mussolini aveva fatto erigere in tutta Italia per dar lavoro ai seguaci del fascismo. Stradivari indicò un piccolo pannello di marmo proprio sopra una delle vetrate. «Ecco!», disse. Guardai e lessi: “Qui sorgeva la casa dove Antonio Stradivari recando a mirabile perfezione il liuto levava alla sua Cremona nome imperituro di artefice sommo”. «Ecco tutto quello ch’è rimasto a ricordare ai cremonesi che la casa di Stradivari un tempo sorgeva qui» , disse Mario. «Il Governo l’abbatté nel 1928, perchè aveva bisogno di questo terreno per il nuovo palazzo. Mio fratello e io abbiamo cercato invano d’impedire al Governo di farlo». Bacchetta sospirò. «Immagini!», fece. «Proprio qui davanti a noi si trovava una volta il laboratorio di Antonio Stradivari. Era una casa di tre piani. Mi ricordo che c’era una sartoria e una sala da biliardo a pianterreno. Fu probabilmente in quella casa che Antonio Stradivari costruì la maggior parte dei suoi violini. La casa aveva il tetto piatto e Antonio poneva i suoi strumenti verniciati di fresco ad asciugare su quel tetto».
Tornammo sui nostri passi e attraversammo i giardini pubblici. Eravamo quasi giunti all’altra estremità quando Mario si fermò di colpo e indicò dietro una panchina un blocco di pietra alto cira un metro, che sembrava essere stato lasciato là per errore.
La lapide di Stradivari in piazza Roma
«Si chini», mi disse, accedendo il suo accendisigari per aiutarmi a vedere meglio. Proprio sopra il terreno, sulla parte più bassa del blocco, lessi il nome di Stradivari. Mario si tolse il cappello. «Signore», mi disse solennemente, ma con gli occhi che ridevano. «Lei si trova di fronte a tutto ciò che resta della tomba di Antonio Stradivari. Su, Bacchetta», soggiunse, «raccontaci quello che è successo». «Non c’è molto da dire. Ma è la pagina più triste della storia di Cremona. Nessuno sa esattamente cosa sia accaduto. Dicono oggi che il terreno servisse per farne non so che campo sportivo, ma la verità è che nel 1869 un impresario edile di Milano pagò ai maggioraschi di Cremona, un gruppetto di politicanti corrotti, quarantaduemila lire per il privilegio di demolire la chiesa di San Domenico, che si levava là, presso la piazza. Trasportò via i materiali e li vendette. La tomba di famiglia di Stradivari era proprio qui, nella Cappella del Rosario della Chiesa. Antonio morì il 18 dicembre 1737...questa è una data certa, a ogni modo...e fu sepolto il giorno successivo, e in seguito quasi tutti i suoi figli vennero sepolti accanto a lui. Durante la demolizione della chiesa la tomba venne aperta e le ossa ne furono rimosse. Che ne fu poi? Forse gli operai le portarono al cimitero e le gettarono nella fossa comune. O forse, stanchi, si limitarono a gettarle nel Po, che scorre a pochi minuti di distanza di qua. Comunque sia, questa è la definitiva e crudele ironia del fato di un uomo di cui non sappiamo quasi nulla e che ci ha dato tanto.
Due carabinieri, che facevano il giro lentamente della Piazza Roma, si fermarono sul lato opposto dei giardini per osservarci con sospetto.
«Scommetterei i miei manoscritti del diario di Cozio che non sanno neppure che cosa rappresenta questa pietra», disse Bacchetta, guardando con occhi di fuoco in direzione dei tutori dell’ordine. «Ben poche persone lo sanno a Cremona. E’ qui che vorremmo erigere un monumento come si deve ad Antonio, ma come le ho detto, i formaggiai continuano a dire che non possono spendere tanti quattrini». Stradivari cominciò a canticchiare un’aria. «Ho scritto le parole e la musica di una canzone chiamata “Addio mia vecchia Cremona”», disse. Prese a cantare, strimpellando una chitarra immaginaria. «E’ in dialetto cremonese », spiegò poi, dopo aver cantato alcune strofe dal suono strano. «E significa: “Si dice che la notte il vecchio Stradivari venga nei giardini a vedere il suo monumento. Ma, purtroppo, tutto quello che trova sono due mascalzoni che usano la pietra funeraria per i loro bisogni». Si mise a ridere e ripetè il ritornello. Bacchetta gli si accompagnò, cantando a gran voce in tono di sfida, gli sguardi fissi sui carabinieri, che seguitavano a osservarci esattamente dal punto dove un tempo doveva essersi trovato il laboratorio di Stradivari. Mario e Bacchetta continuarono così per un bel pezzo, le voci alte e beffarde, finchè i due carabinieri si voltarono e scomparvero lentamente tra le vecchie case di Cremona.

lunedì 4 aprile 2016

La grande nevicata dell'85

E' stata la “grande nevicata del 1985, ricordata anche in una famosa canzone dei “Bluevertigo”, il gruppo di Morgan, ed immortalata nelle splendide immagini di Giuseppe Muchetti. La mattina del 16 gennaio era già caduta una quarantina di centimetri di neve e la situazione iniziava a farsi critica. Era mercoledì, giorno di mercato, e le condizioni atmosferiche non promettevano nulla di buono. Sarebbe stata un’altra giornata di nevicate. I commercianti di via Mercatello avevano realizzato un pupazzo per protestare contro l’isola pedonale che impediva l’accesso dei mezzi spazzaneve. Gelava l’acqua nelle canne ed il gasolio nei serbatoi delle auto. A ruba pale, badili, stufe elettriche.
Davanti ai cancelli dei magazzini comunali in via Del Macello la fila degli aspiranti spalatori: ne erano già stati assunti 160 suddivisi in undici squadre che sarebbero diventati 250 entro sera. Bastava entrare nei magazzini, fornire le proprie generalità e poi si veniva fatti uscire dalla finestra per l’impossibilità di fendere la folla che si era accalcata alle spalle. Il Centro di coordinamento della Protezione civile aveva d’altronde già avvertito che le basse temperature e le forti nevicate previste fra domenica 13 e mercoledì 16 gennaio avrebbero richiesto grande attenzione, soprattutto nell’approvvigionamento di sale, che iniziò ben presto a scarseggiare. Dal 10 gennaio, all’arrivo della prima gelata notturna, per lo scoppio di due radiatori dei gruppi elettronici diesel che alimentavano la rete di sicurezza, era stata fermata la centrale nucleare di Caorso. Il consumo eccezionale di metano costringeva l’Aem ad aumentare i prelievi dalla rete Snam, superando il fondo scala contrattuale con il risultato di dover spendere qualche centinaio di milioni di lire di sovrapprezzo. La municipalizzata era stata costretta a richiamare in servizio il personale in ferie per far fronte alle prime rotture di condotte dell’acqua potabile a Picenengo, in corso XX Settembre e in via Bissolati, con turni di lavoro di 12-13 ore consecutive. Anche gli autobus e i filobus in servizio in città avevano registrato le prime rotture ai sistemi frenanti e ai meccanismi di apertura e chiusura delle porte. Ritardi di due o tre ore anche sulle linee ferroviarie, a causa della neve che si accumulava sui binari senza il tempo di poter essere rimossa. 
La mattina di giovedì la neve aveva già raggiunto i 60 centimetri ed erano iniziati i primi crolli. I vigili del fuoco intervenivano ripetutamente in una cascina di via Giuseppina, in via Ceccopieri, via Aselli, corso Garbaldi e via XI Febbraio, per mettere in sicurezza gli alberi in via San Bernardo: «La situazione già oggi è stata caotica – spiegava il comandante ingegner Denaro – abbiamo richiamato tutti i vigili, anche quelli che dovevano godere dei turni di riposo, per far fronte alle decine e decine di chiamate. Lo strato di neve ha provocato crolli dappertutto e se dovesse piovere temiamo che possa succedere qualcosa di ancor più grave. Speriamo di no. La gente ha paura, ora ha davvero paura anche se bisogna calcolare che i tetti, per essere collaudati, dovrebbero essere in grado di sopportare anche due metri e mezzo di neve!»
La circolazione è paralizzata, un paio di tir restano bloccati in via Zaist, le linee telefoniche sovraccariche vanno in tilt. A Crema l’Olivetti decide di mettere in ferie per una settimana i 750 dipendenti ed anche la Feraboli, a Cremona, sta pensando ad una riduzione dell’orario di lavoro, mentre la Harden di Sospiro annuncia la chiusura a seguito del crollo dell’intera copertura.
Chiudono gli istituti scolastici superiori, mentre continuano a funzionare regolarmente medie ed elementari. “La città è nel completo caos” titola il quotidiano “La Provincia”: parcheggi bloccati, marciapiedi impraticabili. La Guardia di Finanza prende vanghe e badili e libera provvisoriamente dalla neve piazza Castello e via Zara, mentre una cinquantina di militari intervengono a liberare i binari e gli scambi della stazione di Cavatigozzi. Sale a 320 il numero degli spalatori impegnati a cui si aggiungono 130 militari della Col di Lana che il Prefetto Beatrice ha ottenuto dal Comiliter di Torino perchè si presentino ai magazzini comunali per essere inviati nelle zone cittadine di particolare interesse pubblico, ospedali e cliniche private. Vengono impegnati anche i mezzi dello Snum, che interrompono il normale servizio di raccolta dei rifiuti. Camion e camion scaricano la neve nel Morbasco, dal piazzale di via Boscone all’angolo con via Del Sale, si ripulisce piazza Marconi ma gli ambulanti non arrivano. Resta bloccato lo stadio Zini, stracolmo di neve, ma si decide di affrontare prima l’emergenza sulle strade, visto che l’intervento si presenta particolarmente lungo e complesso.
“Caos nel traffico, paura per i crolli – scrive il cronista il 18 gennaio – Ormai siamo allo stato di emergenza completa anche se ancora si cerca di non riconoscere la gravità della situazione. E’ anche questo un motivo per tentare di fronteggiare lo stato di calamità senza allarmismi. Ma non si possono dimenticare i numerosi crolli; capannoni che hanno provocato danni alle industrie, stalle e silos danneggiati in modo anche grave, numerosi capi di bestiame morti sotto le macerie”. “L’auto sobbalza sui crostoni di ghiaccio: si circola peggio di mercoledì, però sono arrivati trecento quintali di sale e la macchina è uscita di prima mattina a spargerlo. «Il sale serve a sciogliere i crostoni, poi interverremo con le lame spartineve», dice un funzionario comunale...Ma c’è anche chi spala la neve e non è in divisa: continua infatti a crescere il numero di coloro che si presentano ai magazzini comunali. Ieri erano circa quattrocento e tra di essi c’era pure qualche donna. La paga è poco più di diecimila lire all’ora e i conti sono presto fatti, se si pensa che l lavoro li impegna per una decina di ore al giorno. Ma hanno sgobbato anche quei volontari, circa una trentina, che hanno cominciato a spalare la neve allo stadio Zini. L’operazione continuerà anche oggi e nella notte con i riflettori accesi”. Quattro giorni di nevicata ininterrotta, 105 centimetri di manto sulle strade. Quasi come nel 1911. Per un attimo, giovedì 17 gennaio, la neve cessa di cadere, e si può iniziare una prima stima dei danni. In provincia la situazione è drammatica: crolli in cascine a Corte de’ Cortesi e Cella Dati, Vicomoscano, Persico Dosimo, Isola Dovarese, Pieve San Gacomo e all’Aipm di Cà d’Andrea, dove la neve ha sfondato i coperchi di sette silos. Il cremasco è in ginocchio: la Galbani non riesce a raccogliere il latte munto, che resta nelle stalle.
Si arriva a sabato, 19 gennaio, ma la situazione non migliora: “Siamo ormai al limite della sopportazione; la circolazione stradale è impossibile e l’intera città è quasi paralizzata. Sembra incredibile, la gente non riesce a capacitarsi come mai in cinque giorni non sia stato possibile rimuovere la neve dalle strade. D’accordo, l’evento è di portata eccezionale, non poteva essere preventivato. E tanto meno Cremona e provincia possono sopportare spese annuali per garantire un servizio di efficienza, proprio in considerazione del fatto che mezzi ed anche uomini si renderebbero utili soltanto ogni decennio. Tuttavia abbiamo avuto l’impressione che non fosse pronto alcun piano di coordinamento, che ci si sia affidati un po’ troppo all’arte italiana di arrangiarsi, Oppure si è sperato in un mutamento delle condizioni atmosferiche? Sta di fatto che in città e provincia sono ferme ed inutilizzate un centinaio di lame, quindi anche trattori e ruspe; inoltre i dipendenti delle imprese edili sarebbero disponibili perchè in questo periodo sono senza lavoro”. Ma a soffrire sono anche le attività produttive: “Disastroso l’attuale momento delle industrie; non arrivano i materiali da lavorare sempre a causa delle strade impraticabili. Industriali, piccoli industriali, artigiani e commercianti sono ormai senza lavoro o quasi; il 50 per cento delle industrie hanno chiuso sino a lunedì; fra questi anche l’Acciaieria Arvedi. I piccoli industriali hanno fatto pervenire una lettera di protesta ai parlamentari cremonesi. La stessa cosa si deve dire delle aziende agricole; alcune sono senza rifornimenti di mangime. Eppure la nostra è una provincia piatta...”. Vengono richiesti dalla Prefettura altri 60 soldati per lo sgombero della neve alla stazione ferroviaria e nelle principali vie di comunicazione. Un camion si blocca sul passaggio a livello di via Rosario, mentre dalla stazione di Cremona sta arrivando un treno, i due autisti si buttano nella neve pochi istanti prima che il convoglio investa l’automezzo ad una velocità di circa 80 chilometri all’ora. Solo per un miracolo nessuno resta ferito. Solo con domenica la situazione migliora, il lunedì successivo riaprono tutte le scuole ed i ritardi dei treni si mantengono accettabili. Tocca al prefetto Giulio Beatrice, una volta cessata l’emergenza, stilare il bilancio dei danni: “Per quanto riguarda la zone maggiormente colpite e la valutazione dei danni devo dire che nel periodo interessato dalle precipitazioni era già possibile valutare in alcune decine di miliardi i danni subiti. Le numerose e ripetute constatazioni eseguite consentivano di valutare le categorie di danno: 1) scoperchiamento e crollo di un centinaio di edifici privati o pubblici; 2) gravi lesioni e danneggiamenti a tettoie o coperture di fabbricati industriali, ad aziende agricole, a imprese artigiane e commerciali. In particolare per le aziende agricole i crolli ed in danneggiamenti sono risultati quasi sempre accompagnati dalla perdita di ragguardevoli scorte; 3) grave danneggiamento di intere coltivazioni, distruzione per congelamento di vaste colture, distruzione e grave danneggiamento di impianti e strutture zootecniche; 4) lesioni e danneggiamenti a strade statali, provinciali e comunali, nonché alle reti di acquedotto e di fogne; 5) notevoli danneggiamenti ad impianti elettrici e telefonici. Durante il periodo delle nevicate e nei giorni seguenti le autorità centrali venivano costantemente ragguagliate sulle rilevazioni dei danni, facendo presente l’urgenza della declaratoria di pubblica calamità, previo il parere della Regione Lombardia, nell’intento di assicurare per l’intera area coinvolta dalle precipitazioni nevose la concessione delle provvidenze previste dalle leggi”.

Sono passati 30 anni, ma è uno di quegli eventi che chi ha vissuto si ricorderà sempre. Erano i primi giorni di gennaio del 1985. Tutto il nord Italia venne investito da quella che ancora oggi è ricordata come la grande nevicata dell’85. Tre giorni di neve caduta incessantemente anche in città, preceduti da un’ondata di freddo gelido e nelle campagne della bassa pianura padana, si toccarono anche i 22 gradi sottozero.  
A partire dal 4 gennaio, una massiccia ondata di gelo proveniente dall’artico russo (più precisamente dal mare di Kara) raggiunse il mar Mediterraneo, avanzando con estrema velocità. Non si trattò quindi di aria polare continentale di origine siberiana, come ancora pensano molti.
L’ondata di gelo, in un primo momento, provocò estese nevicate su Toscana, Umbria, Marche, Lazio (Roma compresa), Campania e anche, in misura minore, in Pianura Padana (sebbene non si trattasse di fenomeni eccezionali per il clima dell’Italia Settentrionale). A causa dell’inversione termica e dell’effetto albedo, le temperature minime in Toscana ed Emilia-Romagna scesero anche al di sotto di -20 °C.
Successivamente, tra il 13 ed il 17 gennaio 1985, una depressione centrata sul mar di Corsica provocò quella che (assieme alle altre che seguirono nei giorni successivi) è ancor oggi ricordata a Milano e in tutta la Lombardia come la nevicata del secolo o la nevicata dell’85, costituendo la nevicata più forte registrata nella regione nel XX secolo.
In una sola nevicata, che durò oltre 72 ore, caddero tra i 70 ed i 90 cm di neve. Il totale dei centimetri di neve caduti raggiunse livelli record: 20 centimetri a Genova, 30 a Venezia, 40 a Padova e Treviso, 50 a Udine e Vicenza, 60 a Biella, 80 a Bologna, 110 a Como, 122 a Varese, da 130 a 150 cm a Trento. A Milano, dopo 4 giorni e 3 notti di nevicata, il manto nevoso arrivava fino a 90 cm. Nevicò addirittura a Cagliari e in tutta la Sardegna.
L’inizio fu il 13 gennaio. Un giorno freddo, in cui il termometro scese oltre 10 gradi sotto lo zero. La sera dovettero chiudere per il maltempo gli aeroporti di Malpensa e Linate. Il giorno dopo tutta la Lombardia si risvegliò con oltre 30 centimetri già caduti e dal cielo i fiocchi continuavano incessantemente a cadere. Strade completamente coperte da un manto bianco. Un silenzio surreale. Mezzi spalaneve insufficienti. Il tutto durò per tre lunghissimi giorni. Tre giorni in cui sembrava di essere stati catapultati in un altra realtà. Scuole chiuse, uffici con metà dei dipendenti e l’altra metà bloccata in viaggio. Non mancarono i danni provocati dalla perturbazione: tetti sfondati, incidenti, cadute. A Milano crollarono i tetti del Palazzetto dello sport e del Vigorelli. L’eccezionalità del fenomeno provocò caos e problemi in tutto il Nord Italia, impreparato ad una simile situazione. Inoltre, parte delle attrezzature antineve della metropoli lombarda erano state precedentemente inviate a Roma, dal momento che la Capitale era già stata bloccata, il 6 gennaio, da una nevicata di dimensioni anomale per il luogo.

Così scrisse Stradivari


Un genio, certamente, ma anche un grande imprenditore di se stesso: preciso fin nelle minime cose, con grandi capacità tecniche unite ad un'unica sensibilità artistica. Come d'altronde, denotano alcune caratteristiche della sua scrittura. Un'impresa in cui si è cimentato il paleografo Marco D'Agostino, coadiuvato negli aspetti più scientifici della ricerca, dal laboratorio di analisi dei materiali del Museo del Violino, diretto da Marco Malagodi. Un lavoro difficile ed unico nel suo genere, dove alla chimica è riservato il compito di analizzare gli inchiostri utilizzati nelle varie annotazioni che Antonio Stradivari lasciava sia sugli strumenti, che sui disegni preparatori che accompagnavano le varie fasi della lavorazione, e alla paleografia il compito di individuarne l'autenticità. Perchè questo? Nonostante il principe dei liutai sia stato ampiamente studiato, non è mai stato individuato in modo inequivocabile il corpus direttamente riconducibile a lui e le caratteristiche del modo in cui lavorava la sua bottega, con la partecipazione dei figli Omobono e Francesco, prima che il figlio Paolo cedesse tutto quanto in blocco al conte Cozio di Salabue. E' proprio questa figura di commerciante e collezionista a complicare un po' tutto quanto: le sue annotazione compaiono spesso accanto a quelle del maestro, spesso ne ripetono le frasi e il tono. Dopo la morte di Antonio gli eredi vendettero a Cozio di Salabue oltre ad un certo numero di violini trovato in bottega, anche forme, disegni e vari attrezzi. La collezione del conte, passata poi in eredità alla famiglia Dalla Valle nel 1840, fu poi venduta nel 1920 al liutaio Giuseppe Fiorini che a sua volta la donò al Comune di Cremona nel 1930. Un grande numero dei reperti stradivariani conservato al museo è provvisto di scrittura vergata non di rado anche da due o più mani: si tratta di 125 pezzi su 710. Le annotazioni erano state tutte attribuite a Antonio, ma già verso la fine degli anni Ottanta il conservatore Andrea Mosconi era convinto che ci fosse anche dell'altro. Ed aveva ragione: solo il 30% di quelle scritte sono autografe, mentre la parte restante non lo era ed è forte il dubbio che, in realtà, sia stato proprio il conte Cozio a metterci del suo. E forse anche qualcuno dei due figli. Ci sono pervenute tre preziose testimonianze manoscritte di Antonio Stradivari sicuramente di sua mano: una lettera datata 12 agosto 1708, una seconda lettera non datata, e il testamento del 24 gennaio 1729. I tre autografi sono conservati a Cremona, il primo al Museo stradivariano, il secondo all'Archivio di Stato e il terzo presso la famiglia Sacchi. Il progetto, ora alla fase iniziali, prevede di esaminare la scrittura dei tre documenti sia nel suo aspetto generale che in modo analitico, prendendo in considerazione le singole lettere e i legamenti più significativi. Sulla base di questa dettagliata descrizione paleografica verranno analizzati, attraverso il confronto delle grafie, tutti i reperti stradivariani provvisti di scrittura, con lo scopo di individuare i reperti le cui scritte possano essere attribuite con certezza alla mano di Antonio Stradivari. Quella di Stradivari è una scrittura del suo tempo: una corsiva cancelleresca della seconda metà del Seicento molto inclinata a destra, di forme poco regolari, con un ductus rapido e fluido e le lettere caratterizzate da uno sviluppo pronunciato delle aste in alto e in basso. La grafia con cui viene vergato invece il testamento, pur presentando il medesimo tratteggio delle lettere, si presenta più inclinata, con un andamento meno regolare e uniforme e complessivamente di un aspetto più disordinato rispetto alla lettera del 1708. Ma bisogna ricordare che Antonio a quell'epoca era già novantenne! 
Per analizzare le caratteristiche di ogni scrittura esistono delle “lettere guida” particolari: nel caso di Antonio Stradivari questa è la “q”, che risulta tale e quale una “g”. Un tratto di notevole eleganza che non trova riscontro in altre scritture contemporanee: la lettera è costituita da un tratto curvo che forma un occhiello con l'asta, la quale si prolunga incurvandosi al di sotto del rigo e ripiegandosi indietro a formale un occhiello schiacciato. L'altra lettera è la “l”, molto sinuosa e particolare: è caratterizzata da una peculiare asta, sottile e lunga che si piega a metà verso destra incurvandosi alla fine per formare un occhiello stretto ed oblungo, l'estremità inferiore è munita in fondo di un trattino orizzontale più o meno lungo. Nella maiuscole sono invece caratteristiche le lettere D e G Tra i reperti lignei, lo strumento più completo in tutte le sue fasi di lavorazione è la viola tenore, conservata oggi al museo dell'Accademia di Firenze. Si tratta del materiale utilizzato per la realizzazione, richiesta dal marchese Ariberti il 19 settembre 1690. Scrive il marchese: «Ho fatto
pochi giorni sono il presente de' due violini e violoncello al Serenissimo Principe diToscana ed assicurare alla S.V. Che gli ha graditi...Cominciar subito due viole cioè il tenore, e il contralto che mancano per compimento del concerto intiero».. Antonio si mise subito al lavoro, dato che il materiale utilizzato per la costruzione dello strumento è datato 4 ottobre 1690.
Come per la viola contralto, ogni singolo reperto che costituisce il corredo è contraddistinto da due lettere maiuscole, la T e la V (cioè tenore viola) ed è stato ritenuto sicuramente della mano di Stradivari. Il primo elemento su cui si è soffermata la ricerca è la forma in legno in legno di noce,
usata appunto per costruire la famosa viola medicea, nella cui parte superiore si legge la scritta apposta dal liutaio: “1690/ Forma nova per il contralto Fatta Ha posta/per il ser.mo Gran Principe di Fiorenza”. Il tratteggio dell'H e della D maiuscole e delle lettere minuscole l e p, dimostra secondo
D'Agostino, l'autografia stradivariana dell'annotazione. Di mano di Antonio sono anche le lettere minuscole TV, vergate verso il centro il centro della forma, come conferma anche l'utilizzo dello stesso inchiostro usato per la scritta precedente e per le medesime lettere poste sui modelli per il
taglio dei blocchi di testa, di fondo, delle punte superiori e inferiori della forma. Al contrario è sicuramente una mano più tarda di oltre due secoli quella che ricopia e corregge la scritta di Stradivari nella parte inferiore della forma e che riscrive inoltre maiuscole le lettere TV. Il
discorso, poi, si addentra in altre analisi da esperti in un minuzioso lavoro di ricerca. Perchè tutto questo affannarsi sulla scrittura di Stradivari?
«I reperti sono passati di mano in mano nel corso del tempo - spiega il professor Marco Malagodi - uno dei lavori fondamentali del laboratorio è capire quali siano quelli originali attribuibili direttamente a Stradivari, quelli dei figli e dei collezionisti successivi. Lo studio che abbiamo
messo a punto è di tipo multidisciplinare. Il professor D'Agostino, esperto di paleografia e di tecniche calligrafiche, con le strumentazioni scientifiche del laboratorio ha avuto la possibilità di studiare le comparazioni tra inchiostro e materiali per stabilirne la datazione. Il confronto tra le
scritte dubbie e quelle certe consente di ottenere una certa attendibilità degli elementi presenti nell'inchiostro e cercare di sostenere maggiormente l'ipotesi calligrafica: l'unione di tecniche e competenze con capacità diverse consente dunque di fare attribuzioni che siano le più certe possibili. Adesso vogliamo selezionare una serie di reperti stradivariani caratterizzati da interventi regolari nel tempo, dalla nascita alla morte, che dovrebbero costituire una sorta di griglia con la composizione chimica utilizzata per gli inchiostri. La stessa cosa vale per quanto scritto da Cozio di
Salabue, in modo da creare un riferimento che permetta di capire quale composizione chimica dell'inchiostro sia attribuibile al 1690 piuttosto che ad un latro secolo». Questo lavoro, in buona sostanza, a cosa è finalizzato?
«Serve per classificare le forme utilizzate per gli strumenti che utilizzino delle lettere, per capire se queste siano di Stradivari piuttosto che successive, ma anche per capire quale fosse l'organizzazione del lavoro all'interno della bottega: Antonio sapeva disegnare, utilizzare il compasso, aveva una formazione da umanista e questo apre una prospettiva del tutto differenze rispetto alla sua personalità». Uno Stradivari, insomma, forse un po' meno romantico, ma decisamente più manageriale. «In Stradivari c'era una tecnica ed una conoscenza assoluta dell'arte, come si può rilevare dalle annotazioni tecniche utilizzate per costruire strumenti perfetti - spiega il professor
Marco D'Agostino - i documenti dimostrano un grande intuito unito ad una profonda conoscenza ed una grande genialità, ormai del tutto individuata».