lunedì 20 luglio 2020

Fulvia, la cameriera di D'Annunzio

Gabriele D'Annunzio
Un'emorragia cerebrale porta via Gabriele d'Annunzio la sera del 1° marzo 1938. Indossa un pigiama marrone e sta aspettando l'ora di cena nella sua "officina" al Vittoriale, fra carte e vocabolari. Sono da poco passate le 8, è chino davanti al suo scrittoio, dove è aperto il Lunario Barbanera, il più famoso almanacco italiano, con una frase da lui sottolineata di rosso, che annuncia la morte di una personalità. Nell'altra stanza le donne, al servizio della piccola corte nella villa di Gardone Riviera, hanno appena finito di cenare quando vedono uscire dall'appartamento del “Comandante” Giuditta Franzoni, l'infermiera personale che da qualche tempo non abbandona più di notte il poeta. La sua salute aveva ormai iniziato a declinare, ma quella sera Giuditta non è particolarmente preoccupata. Dice semplicemente alle altre che D'Annunzio aveva appena avuto una crisi e che doveva, di conseguenza, praticargli un'iniezione. Tutti conoscono ormai le sue condizioni di salute, anche le sue numerose amanti che pure lui continua a ricevere, grazie ad un carisma rimasto intatto ed al fascino che esercita il suo mito, anche se le attende in camicia da notte o nella penombra, per nascondere il fisico invecchiato. Poco dopo Giuditta entra nuovamente nell'appartamento per uscirne subito dopo annunciando, laconicamente a testa basta: “Il Comandante è morto”. A raccontare la straordinarietà di quella sera è la cremonese Fulvia Tenchini, la domestica del Vittoriale, una delle sue preferite, originaria di Volongo. Fulvia sa esattamente cosa fare: si reca nella stanza della Zambracca, dove D'annunzio ha reclinato la testa sulla scrivania, e, aiutata da due altre cameriere, lo riveste. Poi, con l'aiuto dell'autista Guido, depone il corpo del poeta nella camera ardente che lui stesso aveva già predisposto. Giuditta Franzoni, come abbiamo visto l'unica presente negli ultimi istanti, racconta il momento del decesso: “Mi stringe forte la destra, me la fa sbattere sul tavolo come per dirmi resta qui”. Giuditta è l'infermiera adibita alla somministrazione dei farmaci. L'altra è Emy Heufler, cameriera tuttofare ma, secondo altri, un agente segreto al servizio dei nazisti incaricata di ucciderlo somministrandogli veleno anziché medicine. D'Annunzio, affetto da una serie di malanni, come piorrea, emorroidi, emicranie, gastriti, spasmi intestinali ma anche impotenza, faceva un uso smodato di stimolanti (come la cocaina), medicinali vari e antidolorifici, visibili tuttora negli armadietti del Vittoriale. Il ricercatore Attilio Mazza ha sostenuto che il poeta possa essere morto per overdose di farmaci, accidentale o volontaria, dopo un periodo di depressione; all’amica Ines Pradella aveva scritto pochi mesi prima:“Fiammetta, oggi patisco uno di quegli accessi di malinconia mortali, che mi fanno temere di me; poiché è predestinato che io mi uccida. Se puoi, vieni a sorvegliarmi”. Il certificato medico di morte, scritto dal dottor Alberto Cesari, primario dell’ospedale di Salò, e dal dottor Antonio Duse, medico curante del poeta, ufficializzò comunque la morte per cause naturali.
Giordano Bruno Guerri sostiene che D'Annunzio fosse circondato da donne che lo accudivano, lo spiavano e se lo contendevano. Erano almeno quattro. Una di queste era Amélie Mazoyer, conosciuta in Francia quando lei aveva 24 anni e lui il doppio e che era divenuta di fatto, nonostante fosse solo una dipendente, una delle sue amanti, anche se non bellissima. Un'altra era Luisa Baccara, la “Signora del Vittoriale” che, dopo essere stata sua amante, è rimasta nella villa suonando il piano per il vate. C'era poi la cameriera Emilia, detta il Caporale, la fornitrice di cocaina, e la moglie Maria Hardouin dei duchi di Gallese. Le donne sono state il suo ultimo tentativo di ingannare la morte, come negli anni belli erano state oggetto di desiderio, vezzo, vizio, giocattolo, piacere.
Fulvia Tenchini servì fedelmente d'Annunzio dal 1933 al 1938 e quella tragica sera del 1° marzo vestì il corpo ormai inanimato del Poeta. Nel 1963 raccontò quegli anni trascorsi al Vittoriale e gli ultimi istanti della vita del vate al giornalista Antonio Leoni, che ne trasse un ritratto vivo tale da costituire una testimonianza unica da parte di uno degli ultimi protagonisti ancora viventi di quell'epoca straordinaria. 
La stanza della Zambracca al Vittoriale

"Nel 1933 – racconta Fulvia - da quando fui assunta passarono quindici giorni prima che riuscissi a vedere il Comandante. Egli riceveva la posta, dava gli ordini agli autisti, regolava la sua vita senza uscire dal proprio appartamento, servendosi della cameriera privata e non avrebbe mai tollerato una qualsiasi intrusione di altre persone. Durante la giornata mangiava raramente e soltanto frutta. Il suo pasto lo compiva verso mezzanotte. Chiamava allora la cameriera privata che provvedeva... ma non tutte le notti il Comandante pranzava. A volte passavano persino 48 ore prima che toccasse cibo.
Certo, noi avvertivamo continuamente la sua presenza. Non tanto perchè egli la rivelasse con una luce accesa e con uno squillio di campanella, quanto perchè la si sentiva nell'aria. Ancora oggi non so spiegarmi come riuscisse a riempire così interamente la villa della sua presenza... O meglio, ancor oggi non riesco a capire da dove promanasse una sensazione così violenta di genio e di personalità... Vede, io sono una donna che ha conosciuto molti ambienti e persone importanti, ma una sensazione di eroico quale ebbi di fronte a d'Annunzio non l'ho mai più provata”.
Vivere al Vittoriale, accanto ad un personaggio così unico ed eccentrico non è stato semplice e Fulvia così lo ricordava: “Non fu facile, lo confesso. Si usciva raramente dal Vittoriale e soltanto per ragioni di servizio. Nella villa eravamo tutti soggiogati dalla sua presenza. Ricordo che, nei primi giorni, io fui tremendamente colpita da un fatto. Mi accompagnarono in visita alla Villa e mi condussero nella Camera Ardente del poeta. Il comandante aveva fatto predisporre una vasta sala a lutto. Al centro era situato un cofano mortuario molto semplice, scoperchiato. Nel cofano una maschera del Comandante. Drappi neri coprivano interamente le pareti, candelieri erano posti ovunque. Di fronte al sarcofago, il Comandante aveva fatto sistemare una statua di S. Sebastiano che aveva acquistato a Lisbona. Perchè era giovane ed eroico. Confesso che per molto tempo, quando dovevo effettuare le pulizie nella Camera ardente del poeta, mi sentii tremendamente a disagio...”.
La Prioria è l’ultima dimora di Gabriele d’Annunzio arredata e decorata seguendo il suo gusto di “tappezziere incomparabile”: “Tutto qui mostra le impronte del mio stile nel senso che io voglio dare al mio stile”. Da una semplice villa colonica, già appartenuta al critico d’arte tedesco Henry Thode, d’Annunzio creò una casa museo simbolo del suo “vivere inimitabile”. Nelle stanze della Prioria sono conservati circa 10.000 oggetti e 33.000 libri, che si abbinano a frasi enigmatiche e motti, leggibili su architravi e camini, in un gioco continuo di rimandi simbolici. L’atmosfera di sacralità che si respira all’interno è ampliata dalla scarsa illuminazione. Vetrate dipinte, finestre con pesanti tendaggi, luci soffuse nelle stanze, fanno della Prioria un luogo misterioso e suggestivo in cui il Poeta fotofobico poteva ben vivere. D’Annunzio pensò e realizzò la villa con grande minuzia di particolari creando stanze atte a vari momenti di vita: dalla stanza della Musica in cui amava ascoltare dietro pesanti tendaggi Luisa Bàccara, sua ultima amante, alla stanza del Lebbroso realizzata come sua ultima dimora, con il letto simbolico delle due età, alla sua Officina, lo studio dell’operaio della parola, come era solito definirsi.
Il Vittoriale
L'incontro di Fulvia con Gabriele d'Annunzio fu estremamente semplice. Un giorno il Comandante uscì dal suo appartamento in compagnia del fido architetto Carlo Moroni. Le si avvicinò e le disse semplicemente: “Certo tu non sai quante belle cose ci sono nel Duomo di Cremona.... Non aggiunse altro, sorrise. Ed io rimasi senza parole e senza fiato”.
Dopo questo primo incontro iniziò un periodo in cui i contatti tra il Comandante e la servitù si intensificarono. Oltre i pranzi ufficiali le occasioni per incontrare il poeta non mancavano da quando in una sala della villa venne installata una piccola sala cinematografica. Due o tre volte alla settimana venivano proiettate le pellicole che D'Annunzio mandava a noleggiare a Milano e dopo aver visto un film il vate diventava più affabile e sorridente cosicchè se qualcuno voleva essere ricevuto, lo doveva chiedere in quel momento, anche se l'ora magari era tarda.
Non era facile parlare con il Comandante- ricorda Fulvia - a volte se ne stava rinserrato nella sua stanza e non riceveva nessuno. Nessuno poteva parlagli o disturbarlo. Ricordo che un giorno venne un frate. Chiese d'esser ricevuto perchè desiderava "convertire d'Annunzio". Fui io stessa ad annunciarlo al Comandante. D'Annunzio sorrise: poi mi consegnò un libro sul quale aveva posto una dedica non proprio adatta alla meditazione mistica... e mi pregò di congedarlo. Il frate sorrise quando gli consegnai il libro e promise che sarebbe ritornato. Si fece vedere altre volte, infatti, al Vittoriale, ma non fu mai ricevuto”.
Alle numerose donne era riservato lo stesso trattamento: “A volte dovevano attendere a Gardone intere giornate prima di essere ricevute dal Comandante, a volte mesi. Ed erano donne bellissime, del gran mondo” e “non mi accenni a quelle storie del Comandante vestito da frate...non me ne parli che non ci credo. In cinque anni che io sono rimasta al Vittoriale, le assicuro che non ho neppure raccolto l'eco di una simile storia...” L'equivoco deriva forse dal fatto che il poeta amava farsi chiamare Frate Gabriel priore” e di conseguenza Prioria la sua dimora, anche se il biografo Giuseppe Grieco sostiene che così agghindato avrebbe ricevuto le sue amanti. “Ed a quale uomo non piacerebbero le donne che si videro in quegli anni alla villa di Cargnacco? Erano belle, splendide dame che gli si offrivano. Caro, credo si siano scritte e udite troppe fantasie su quest'argomento. Indubbiamente era un gentiluomo squisito quando si decideva a ricevere. Ordinava che salisse in villa il quartetto Poltronieri...ma quante volte il quartetto ha suonato soltanto per una donna e non per il Comandante. Egli si ritirava spesso nel suo studio, in uno di quei cambiamenti d'umore terribili e rimaneva a lungo chiuso, per intere giornate. Era un uomo solo, D'Annunzio. Ho letto su un giornale, in questi giorni, che le molte donne della sua vita esprimono forse una tendenziale incapacità di affetto e d'amore. D'Annunzio sapeva amare...ma quale donna riusci a portarsi ai suoi vertici? Forse soltanto Eleonora Duse. Ricordo che un giorno portai alla duchessa sua moglie un barboncino. Era la risposta di D'Annunzio ad una richiesta di colloquio. Vede duchessa, mi permisi di dire, il Comandante pensa spesso a lei...e la ricorda. Significa che le vuole bene... Già, mi vuol bene..., mi rispose la duchessa Maria Harduin e sentii un tono amaro nella sua voce. Eppure D'Annunzio conservò sempre un ricordo alto ed incontaminato soltanto per tre donne: Maria Harduin sua moglie, Eleonora Duse e sua madre. D'Annunzio adorava sua madre. Conservava un affetto indicibile ed ogni anno, nell'anniversario della sua morte, il 27 gennaio, egli si chiudeva nelle sue stanze e non voleva più vedere né ricevere nessuno, neppure la cameriera privata. Osservava un rigoroso digiuno che durava 48 ore”.
Durava a lungo, spesso, questo isolamento di D'Annunzio – prosegue il suo racconto Fulvia – a volte sino a metà febbraio non usciva dalla villa. E l'architetto Moroni suo intimo amico, spesso chiedeva di essere ricevuto, per sollecitarlo a compiere una passeggiata in automobile lungo la Gardesana, ma vanamente. Negli ultimi anni usciva pochissimo. Quando doveva recarsi a Verona per effettuare un'ultima revisione delle bozze e per acquistare il prosciutto di San Daniele, di cui era ghiotto. In quelle occasioni, si fermava a lungo nella chiesa di S. Zeno. Usciva dalla villa, poi, nelle notti di luna. Gli piaceva ammirare la Gardesana ed allora invitava l'autista a proseguire lentamente; non rimaneva mai fuori troppo, però. Usciva verso le undici, spesso in compagnia dell'inseparabile Moroni e rientrava verso l'una per cenare. Diceva che questo viaggio sotto la luna, in riva al lago, lo riempiva di gioia...”

giovedì 16 luglio 2020

I cremonesi dell'Arandora Star





L'annuncio dell'affondamento
Lo scorso 2 luglio il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ricordato, ottant'anni dopo, la tragedia dell'Arandora Star, una nave britannica carica di immigrati, la maggior parte italiani, “sgraditi” al governo inglese dopo l'entrata in guerra dell'Italia il 10 giugno 1940, affondata da un sottomarino tedesco al largo delle coste irlandesi. "Il 2 luglio del 1940 – ha ricordato Mattarella- affondava l'Arandora Star, la nave britannica carica di internati da deportare in Canada, silurata al largo delle coste irlandesi da un sommergibile tedesco, che l'aveva scambiata per una nave da guerra. Un episodio atroce, non sempre adeguatamente ricordato, nella tragedia immane della guerra, che provocò la morte per affogamento di 865 persone, di cui 446 immigrati italiani, presenti in Inghilterra anche da tempo, ma definiti indesiderati dopo l'entrata in guerra dell'Italia. A ottant'anni da quel tristissimo avvenimento, desidero commemorare quelle vittime innocenti, esprimendo sentimenti di vicinanza e solidarietà ai loro discendenti. Il ricordo della loro sofferenza costituisce un monito perenne contro le guerre e a favore dell'amicizia e della collaborazione tra i popoli", ha concluso Mattarella.
Trasformata da nave da crociera in nave da guerra, l’Arandora era partita dal porto di Liverpool diretta a un campo di detenzione in Canada e trasportava oltre 1500 persone di nazionalità italiana, tedesca e austriaca, colpevoli solo di trovarsi sul suolo inglese nel momento della dichiarazione di guerra nazifascista alla Gran Bretagna. Intercettata due giorni dopo la partenza, procedeva a luci spente e senza insegne umanitarie a bordo. Fu identificata come nave nemica e affondata. Il 16 agosto 1940 un pastore di Colonsay, un’isola delle Ebridi trovò sulla spiaggia di Eilean nan Ron un corpo restituito dal mare. Era quello di Giuseppe Delgrosso, identificato grazie alla sigla stampata sull’abito: “14700 G. Delgrosso”. Nato a Borgotaro nel 1889, come tanti italiani era partito anni prima dal suo borgo sull’Appennino parmense per stabilirsi a Hamilton, una piccola città nel sud della Scozia, insieme con la moglie e i tre figli. E al pari dei suoi compagni di sventura, Delgrosso non era affatto diventato un potenziale nemico per la Gran Bretagna. Anzi, si sentiva parte di quella terra che lo aveva accolto, prima che i venti di guerra incattivissero gli animi falsando la realtà.
Tra gli innocenti che persero la vita quel giorno vi furono anche cinque cremonesi, che il mare non ha mai restituito. Si chiamavano Carlo Bissolotti, di Soresina; Ettore Feraboli di Pessina cremonese; Gaetano Fracassi di Pescarolo; Battista Piloni di Crema e Patrocco Ribaldi di Cremona. Di Bissolotti e Rivaldi si hanno poche notizie, si conosce solo la loro provenienza e la loro età, rispettivamente 40 e 61 anni al momento del loro arresto a Londra. Ettore Feraboli era nato nel 1885 a Pessina Cremonese ed era emigrato a Londra da giovane, dove era diventato uno stimato insegnante di violino, si era sposato con una giovane fiorentina, Tina Morini, anche lei musicista, ed avevano un figlia, Graziella, che nel 1940 era adolescente. Maria Serena Balestracci in “Arandora Star-Una tragedia dimenticata” (ed. Il Corriere Apuano, Pontremoli, 2002) racconta come le due donne furono informate della fine del loro congiunto: «A Londra, presso gli uffici del War Office, ubicati nei pressi di Victoria Station, nell'imponente edificio in mattoni rossi di nome Hobart House. Lì si recarono più volte Tina e Graziella Feraboli in cerca di notizie. Al terzo tentativo, le due donne si trovarono in fila con tante altre italiane, di varia estrazione, tutte in ansia. Durante l'attesa, piuttosto lunga, le donne si scambiarono notizie, supposizioni, speranze. Poi finalmente, famiglia dopo famiglia, vennero ammesse in un ufficio. Un funzionario, seduto ad una scrivania, consultava un elenco e chiedeva il nome o il numero del prigioniero. Racconta Graziella: “Ci chiese il nome e il numero dell'internato, consultò l'elenco e freddamente disse: 'Ettore Feraboli, n. 58123: missing, presumed drowned'”. Il funzionario non ebbe altro da aggiungere, ma la giovane Graziella, dopo un attimo di disorientamento, perse il controllo: “In quel momento mi sono sentita ribellare. Con tutta la rabbia che un'adolescente può provare alla notizia che il padre era scomparso, mi scagliai contro il funzionario. ‘Che cosa vuol dire questo? Che mio padre è annegato?’ gridai. ‘Lo avete ucciso voi! Perché lo avete fatto?’ Mia madre mi trascinò per un braccio. Fuori si assisteva a scene di disperazione: qualcuno inveiva, una sveniva, altre piangevano”. A settembre avrebbe avuto inizio il bombardamento a tappeto di Londra, e le due donne Feraboli, rimaste sole, avrebbero affrontato l’e- mergenza con l’aggravante di essere ‘straniere’: la polizia locale aveva imposto loro un coprifuoco, negando così l’accesso ai rifugi pubblici durante i bombardamenti notturni».
L'Arandora Star
Gaetano Fracassi, invece, era un sacerdote, nato a Pescarolo il 18 aprile 1876 ed esercitava il suo ministero presso la comunità italiana di Manchester. Non aveva mai partecipato alla vita politica, però si era espresso criticamente nei confronti di Mussolini e dell'entrata in guerra dell'Italia. Viveva in ristrettezze e per questo aveva affittato un locale della parrocchia ad un gruppo di tesserati fascisti e tanto bastò perchè fosse fosse arrestato ed internato in un campo di concentramento nonostante l'età avanzata, tra le proteste della comunità italiana e dello stesso vescovo cattolico di Machester. Secondo le testimonianze raccolte tra alcuni sopravvissuti, mentre la nave stava per colare a picco, fu visto, in piedi sui piani più alti che qualcuno aveva aiutato a salire, impartire l'assoluzione e la benedizione ad uno ad uno agli uomini in preda alla disperazione. Chiuso il libro di preghiere, rimase da solo ad attendere sul ponte.
Battista Piloni era nato ad Ombriano il 24 maggio 1897, ultimo di sei fratelli. Nel 1936, con la moglie Francesca Carioni e i suoi quattro figli, insieme ai suoi vicini di casa, la famiglia Cattaneo, era emigrato a Croydon, un sobborgo a sud-est di Londra, trovando lavoro in una fabbrica di bottoni. All'approssimarsi della guerra i Cattaneo, temendo il peggio, nel 1939 erano rientrati in Italia, mentre Battista aveva preferito restare in Inghilterra. Fu rastrellato dopo il 10 giugno 1940 ed imbarcato successivamente sull'Arandona Star. I parenti di Ombriano non ricevettero altre notizie, se non che era morto annegato. Nonostante tutto Francesca e i figli, che nel frattempo erano divenuti cinque, decisero di restare in Inghilterra, dove ormai si erano inseriti, al punto che due figlie, Paolina e Gilda, ebbero persino un momento di celebrità alla TV inglese come cantanti facenti parte di un trio femminile di musica leggera.
L'Arandora Star colpita dal sottomarino tedesco
A venti giorni di distanza dall'affondamento della nave, la notte del 22 luglio 1940, un pescatore che stava issando le reti intorno all'isola di Owey sul peschereggio comandato da Mickey O’Donnel, vide qualcosa galleggiare sulla quieta superficie del mare. Appena fu possibile, sul far del giorno l'equipaggio si avvicinò al misterioso oggetto, per scoprire che si trattava di una scialuppa di salvataggio che appena affiorava dall'acqua. Gli uomini cercarono di svuotare la lancia dall’acqua, senza riuscirci; decisero quindi di trainarla a riva e O’Donnel e i suoi uomini tirarono in secca la scialuppa, e scoprirono che lo scafo era bucato da fori di proiettili, mentre alcuni bossoli giacevano sul fondo. Ispezionando bene il relitto, i marinai si accorsero che qualcuno aveva disperatamente cercato di evitare l’affondamento, chiudendo i buchi con pezzi di stoffa, sui quali furono trovate anche tracce di sangue. Sullo scafo recuperato era scritto il nome Arandora Star, la più lussuosa nave da crociera britannica, che dal 1927 per una dozzina d’anni aveva trasportato l’upper class del Regno Unito in viaggi di piacere tra le colonie esotiche di Sua Maestà: Sud Africa, Giava, Malesia, Ceylon, India, Egitto. Poi nel 1939 la Marina britannica l'aveva ridipinta ed attrezzata per il trasporto prigionieri collocando filo spinato nei punti cruciali e armandola con cannoni.
Churchill aveva ordinato di catturate tutti i maschi italiani tra i 16 e i 70 anni. Sulla base di liste compilate dai servizi segreti britannici, già dall’11 giugno si incominciò ad arrestare i poveri italiani, tra lo stupore degli stessi, la costernazione dei familiari e l’imbarazzo dei gendarmi, che ben conoscevano quelle persone e sapevano che era gente onesta e pacifica. Si procedette in modo affrettato e approssimativo, portando via gli iscritti al partito fascista, ma anche tantissimi senza appartenenza politica o addirittura antifascisti e altri individui scappati in Inghilterra per sottrarsi alle persecuzioni razziali e ai campi di concentramento. L’obiettivo di Churchill era la deportazione dei prigionieri stranieri nelle colonie britanniche, in Canada e Australia, in previsione della scarsità di cibo che avrebbe provocato la guerra, lontano dal Regno Unito, per renderli ancora più inoffensivi. Gli arrestati furono dapprima internati in campi di detenzione provvisori. Tristemente noto per le disastrose condizioni in cui versava fu Camp Bury, nel Lancashire.
Una delle cabine della Arandora Star
Alle 4 del mattino del 1° luglio 1940, l’Arandora Star salpò da Liverpool, diretta in Canada, con a bordo 712 italiani e 478 tedeschi, oltre a 374 inglesi, tra militari di scorta ed equipaggio. Solo 86 dei deportati erano prigionieri di guerra, gli altri erano tutti civili tra i 16 e i 75 anni d’età. La nave, sulla quale fu stipato un numero di persone tre volte superiore alla sua capienza, era stata inspiegabilmente ridipinta di grigio, e non portava alcun segnale di riconoscimento sulla natura non bellica della propria missione. Rotoli di filo spinato impedivano l’accesso alle scialuppe di salvataggio, peraltro ampiamente insufficienti ad ospitare tutti i passeggeri in caso di naufragio.
Alle sette del mattino del 2 luglio, quando l’Arandora Star navigava ben visibile sulle acque a nord-ovest dell’Irlanda, un U-Boat tedesco lanciò il suo ultimo siluro, e la affondò.
La richiesta di soccorso da parte della nave fu raccolta dal cacciatorpediniere canadese St. Laurent, che riuscì a raccogliere 850 naufraghi, all’incirca la metà delle persone presenti a bordo. Su un totale di circa 800 vittime, 470 erano italiani. Fu una tragedia della guerra, ma anche la più grande tragedia della nostra emigrazione. Il paese di Bardi nell’Appennino Parmense pagò il prezzo più caro, con le sue 48 vittime.

La storia della scialuppa recuperata dai pescatori di Owey è drammatica, perché sarebbe, secondo alcune fonti, la testimonianza che i militari britannici spararono contro quei prigionieri che erano riusciti a mettersi in salvo, per evitare una possibile fuga. I superstiti, riportati a Liverpool, furono imbarcati sulla nave Dunera e, una settimana dopo il naufragio, spediti in Australia dove furono detenuti sino alla fine del conflitto. Non tutti i morti ebbero sepoltura. Molti furono inghiottiti dall’oceano, altri furono ributtati sui litorali dell’Irlanda e della Scozia e riposano nei cimiteri di quei paesi. In particolare gli abitanti di Colonsay, nelle Ebridi, ancor oggi custodiscono con amore i corpi di coloro che il mare restituì alle spiagge di sabbia della loro piccola isola. Come se non bastasse la rimozione della tragedia dalla memoria delle nazioni coinvolte ed il silenzio colpevole delle istituzioni inglesi, tedesche e italiane che non vollero mai ammettere di aver mandato inutilmente a morte centinaia di persone innocenti, ai parenti delle vittime dell’Arandora Star non è mai stata riconosciuta alcuna forma di risarcimento.