venerdì 10 luglio 2015

Stradivari il "Gesuita"


Elia Santoro aveva ragione: Antonio Stradivari fu protetto dalla potente Compagnia di Gesù, come altri liutai del suo tempo e precedenti a lui. Quella che poteva essere solo una felice intuizione è stata recentemente confermata dal ritrovamento, tra i reperti stradivariani non ancora esposti al Museo del Violino, di un biglietto datato 24 agosto 1727, da cui si apprende come Giuseppe Filiberto Barbieri, rettore della Compagnia di Gesù, s'impegni a far pervenire una cassetta per conto di Antonio Stradivari al Procuratore dei Padri Gesuiti del Collegio di Modena. “Ho ricevuto dal Barone Pietro Fedele una cassetta seugnata colle lettere R.P.M., e procurerò dispedirla con opportuna occasione a Modena al Padre Procuratore dei padri Gesuiti di quella città, come si debba dal sig. Antonio Stradivari. In fede”. Il fortunato ritrovamento è stato effettuato dal conservatore del Msueo del Violino Fausto Cacciatori e dal paleografo Marco d'Agostino nell'ambito di una ricerca paleografica sui reperti stradivariani delle collezione civiche liutarie in cui sono stati sottoposti tutti i reperti, esposti e non, ad una nuova serie di analisi e confronti, anche con il contributo del Laboratorio Giovanni Arvedi di diagnostica non invasiva dell’Università di Pavia che ha sede all’interno del Museo.
Dopo oltre un anno di lavoro i primi risultati sono sorprendenti, con nuove attribuzioni e la scoperta di elementi originali, mai esposti in epoca recente. Dagli studi, che saranno completati entro l’anno e saranno pubblicati nel nuovo catalogo della collezione, sono emersi reperti sicuramente provenienti dalla bottega di Antonio Stradivari, che presentano sue annotazioni e che furono utilizzati per la costruzione dei suoi strumenti.
Fra quanto esaminato sono stati ritrovati, fra l’altro, i disegni per la decorazione della tastiera e della cordiera della viola tenore conservati alla Galleria dell’Accademia di Firenze, unico strumento ancora nelle condizioni originarie. Disegni pubblicati, all’inizio del secolo scorso, dai fratelli Hill nel loro libro sulla vita e le opere di Antonio Stradivari, ma dei quali si era persa ogni traccia.
Oltre a questi modelli anche il disegno forato per lo spolvero delle decorazioni presenti sulla fasce del violino Rode del 1720 appartenuto al Marchese Carbonelli di Mantova.
Il biglietto scritto da Busseto
Ma è sicuramente questo piccolo biglietto spedito da Busseto ad attirare l'attenzione anche dei non esperti sulla personalità stradivariana.
Già Santoro aveva notato come le etichette stradivariane rivelassero con chiarezza la protezione dei Gesuiti fin dal 1672 e lo stesso liutaio avesse quasi certamente aderito alla Compagnia di San Giuseppe sin dai tempi in cui questa si trovava sotto la parrocchia di Sant'Agata. Con ogni probabilità la Compagnia di Gesù aveva appoggiato ed apprezzato, come già fatto precedente dai Carmelitani, gli studi di carattere scientifico che Stradivari aveva condotto negli ultimi anni del XVII secolo sulla costruzione del violino. I Gesuiti, nel complesso di San Marcellino, oltre alle scuole, facevano funzionare anche tre oratori destinati ai giovani, e due Congregazioni, una destinata ai gentiluomini, cioè coloro che potevano vantare quarti di nobiltà ma del frattempo si erano impoveriti fino a tornare allo stato borghese, ed un'altra destinata ai mercanti e agli artisti. Quest'ultima era intitolata a San Giuseppe e curava un altare nella chiesa di Sam Marcellino dove, non a caso, sono conservati anche lavori di Giacomo Bertesi. La protezionedei Gesuti si rivela, nel caso di Stradivari, da un piccolo sigillo che a partire dal 1672 si trova sulla parte bassa a destra del cartiglio. Se la dicitura “Sub titulo Sanctae Teresae” che ritroviamo nei cartigli dei Guarneri secenteschi rivelava il riferimento ai Carmelitani, così la croce racchiusa in doppio circolo con le iniziali A.S. alludeva nel caso di Stradivari alla croce con il monogramma JHS usata dai Gesuiti. Ed è facile comprendere come il grande liutaio potesse affidarsi proprio a quell'ordine che grazie ai suoi numerosi collegi, aveva conquistato tutta l'Europa ed anche i nuovi continenti, così da consentire la diffusione della fama dei suoi violini grazie al prestigio ed agli ampi consensi goduti dall'ordine presso tutti i ceti sociali.
Il violino Rode del 1720
D'altronde i liutai avevano sempre goduto di protezioni da parte dei grandi origini religiosi fin dai tempi di Andrea Amati e di suo fratello, soprattutto da parte delle due grandi organizzazionidei carmelitani Scalzi e dei Gesuiti che, pur contrapposte, godevano a Cremoandi un indiscusso primato culturale. I Carmelitani Scalzi avevano la loro base nel convento nei pressi della chiesa di Sant'Imerio e, in virtù della loro predilezione per le scienze, si erano interessati alla costruzione degli strumenti ad arco, dando disponibilità alle richieste degli Amati. Niccolò ad esempio fece rogare nel 1682 il proprio testamento nel convento carmelitano, facendosi poi seppellire, due anni dopo, nella vicina chiesa di S. Imerio. Secondo Santoro la protezione dovevs risalire fino ai tempi del padre Niccolò e continuare con i Guarneri, che avevano vissuto con gli Amati. Il convento era dedicato a San Giovanni della Croce e alla santa riformatrice delle istituzioni delle istituzioni carmelitane Teresa di Gesù. La famiglia Amati, però, al contrario di Sradivari, aveva ritenuta questa protezione del tutto privata, diversamente dai Gesuiti, che invece, rendevano nota la loro protezione per questo o quel liutaio. All'inizio del XVII secolo, però, il collegio gesuitico di San Niccolò non esercitava ancora la propria influenza in campo culturale, ma si era ramificato nel settore mercantile. Tra i suoi adepti vi erano Alessandro Capra, alcuni consoli mercantili tra cui Domenico Mainoldi, un sindaco dell'Università degli orafi come Giovanni Battista Ferrari. Ma dalla metà del secolo i Gesuiti non fecero più mistero della predilezione riservata ad artisti, mercanti, banchieri e nobili.
La protezione esercitata dai Gesuiti su Stradivari è ancora più evidente nel caso di Giuseppe Guarneri, che, diversamente da tutti gli altri liutai, nell'etichetta dei suoi strumenti poneva un sigillo identico a quello dell'ordine con la croce e il monogramma JHS. I Gesuiti scelserodi proteggere questi liutai perchè ritenuti i più importantie gli unici in grado di rappresenare l'elite della scuola cremonese, anche se non disdegnarono di dare il lor appoggio anche ad litri liutai non cremonesi, cone Giovanni Battista Guadagnini, che nei suoi strumenti appoese etichette con un sigillo che imita quello gesuitivo con una croce o una doppia croce.
La collezione del Museo stradivariano è costituita da 1305 oggetti, forme e disegni preparatori per la costruzione degli strumenti, modelli cartacei e lignei e attrezzi di lavoro.
La raccolta, unica al mondo, si è costituita nel corso del tempo partendo dalla donazione di Giovanni Battista Cerani nel 1893, formata da 408 oggetti proveniente dal laboratorio del liutaio cremonese Enrico Ceruti. Seguirono altre donazioni, fra le quali ricordiamo quella dei coniugi Piazza Soresini, consistente nel pozzo e nel frammento di arcibanco proveniente dalla casa di Antonio Stradivari.
Il contributo più consistente arrivò nel 1930, quando il liutaio bolognese Giuseppe Fiorini donò a Cremona la collezione da lui acquistata, nel 1920, dagli eredi del conte Cozio di Salabue, cui era stata ceduta nel 1774 da Paolo, figlio di Antonio Stradivari. Il sommario inventario redatto da Illemo Camelli, direttore del Museo Civico, all’atto dell’acquisizione conteggiò 1303 oggetti.
Il 6 dicembre del 1956 tutto il materiale fu trasferito dal Museo Civico alla Scuola di Liuteria, che all’epoca aveva la propria sede in Palazzo dell’Arte; in questa occasione fu redatto un nuovo inventario da cui risultano 1117 reperti.
Tutto fu infine trasferito al Museo Civico e nel 1976 si inaugurò il Museo Stradivariano con ingresso da via Palestro. Nel 2001 l’ultimo spostamento nella sala Manfredini del Museo Civico, fino al 2013, anno dell’apertura del Museo del Violino. Il trasferimento nella nuova sede non ha introdotto variazioni nel percorso espositivo.
Particolari della viola tenore dell'Accademia
Nel 1972 Simone Fernando Sacconi pubblicò nel suo libro I Segreti di Stradivari il catalogo dei 709 reperti esposti nella sede di via Palestro; i reperti tuttora esposti a cui si sono aggiunti il frammento di arcibanco e la lettera autografa di Stradivari acquistata dalla fondazione Stauffer.
Una parte significativa della collezione, costituita da 509 oggetti, non fu mai fruibile dai visitatori, poiché tali reperti furono considerati di interesse inferiore rispetto a quelli esposti.
Un primo lavoro paleografico sui reperti esposti è stato svolto da Marco D’Agostino, professore del Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali dell’Università degli Studi di Pavia, e pubblicato nel 2009. Sono stati classificati i reperti, cartacei e lignei, con annotazioni autografe del liutaio cremonese, e sono state individuate le note eseguite da altre mani fra le quali il Conte Cozio di Salabue.
Con il trasferimento al Museo del Violino di tutto il materiale è stato avviato uno studio approfondito – a cura del conservatore Fausto Cacciatori in collaborazione con il paleografo Marco D’Agostino - sui 593 reperti che non erano mai stati esposti. Nello stesso tempo, in collaborazione con il professor Marco Malagodi, coordinatore scientifico del Laboratorio Giovanni Arvedi di diagnostica non invasiva dell’Università di Pavia che ha sede all’interno del Museo, sono in corso analisi chimiche sulla caratterizzazione elementale degli inchiostri utilizzati per le diverse annotazioni presenti sui reperti.
Per quanto rigaurda la scrittura l'esame paleografico ha permesso di enucleare tra i repetti mai esposti al pubblico un gruppo di manoscritti sicuramente autografi di Antonio Stradivari, tra cui, di notevole importanza, l'annotazione delle armi con intarsi in madreperla della viola tenore realizzate per il principe di Toscana. E' stato poi possibile riportare alla mano del grande liutaio altre annotazooni grazie al confronto con le lettre guida, individuate nella q, composta come fosse una g, la p e la d, e le aste ascendenti, molto elevate e sinuose che nella parte alta si piegano verso destra. Dallo studio effettuato è stato possibile ricondurre a Stradivari il 30% dei reperti non esposti.
Nonostante il principe dei liutai sia stato ampiamente studiato, non è mai stato individuato in modo inequivocabile il corpus direttamente riconducibile a lui e le caratteristiche del modo in cui lavorava la sua bottega, con la partecipazione dei figli Omobono e Francesco, prima che il figlio Paolo
cedesse tutto quanto in blocco al conte Cozio di Salabue. E' proprio questa figura di commerciante e collezionista a complicare un po' tutto quanto: le sue annotazione compaiono spesso accanto a quelle del maestro, spesso ne ripetono le frasi e il tono. Dopo la morte di Antonio gli eredi vendettero a Cozio di Salabue oltre ad un certo numero di violini trovato in bottega, anche forme, disegni e vari attrezzi. La collezione del conte, passata poi in eredità alla famiglia Dalla Valle nel 1840, fu poi venduta nel 1920 al liutaio Giuseppe Fiorini che a sua volta la donò al Comune di Cremona nel 1930. Un grande numero dei reperti stradivariani conservato al museo è provvisto di scrittura vergata non di rado anche da due o più mani: si tratta di 125 pezzi su 710. Le annotazioni erano state tutte attribuite a Antonio, ma già verso la fine degli anni Ottanta il conservatore Andrea
Mosconi era convinto che ci fosse anche dell'altro. Ed aveva ragione: solo il 30% di quelle scritte sono autografe, mentre la parte restante non lo era ed è forte il dubbio che, in realtà, sia stato proprio il conte Cozio a metterci del suo. E forse anche qualcuno dei due figli. Ci sono pervenute
tre preziose testimonianze manoscritte di Antonio Stradivari sicuramente di sua mano: una lettera datata 12 agosto 1708, una seconda lettera non datata, e il testamento del 24 gennaio 1729. I tre autografi sono conservati a Cremona, il primo al Museo stradivariano, il secondo all'Archivio di
Stato e il terzo presso la famiglia Sacchi. 

Arriva la prima automobile


La versione più economica costava 3400 lire, quella più accessoriata, una sorta di monovolume, arrivava a 9000; aveva una velocità media di 20 chilometri orari e una spesa di mantenimento che poteva arrivare ai quattro centesimi al chilometro, con un'autonomia di circa 120 chilometri. E' la descrizione della prima automobile moderna che fece la propria comparsa a Cremona 120 anni fa, quando sul finire del settembre del 1895, un veicolo Benz proveniente da Milano, transitò sulle strade della nostra provincia impegnato in un raid dimostrativo che lo avrebbe portato lungo tutta la Penisola. La validità del nuovo mezzo di locomozione fu subito compresa da Ettore Sacchi, direttore del quotidiano “La Provincia” che vi vide un mezzo tecnico in grado di modificare la vita dell'uomo in modo più rapido che in tutti i secoli precedenti. Lo stesso Sacchi non si limitò solo a dar notizia dell'evolversi del fenomeno, ma sul finire dell'Ottocento fu autore di una serie di articoli didattici e informativi che sicuramente contribuirono a diffondere in città e in provincia l'interesse verso il nuovo mezzo.
Giorgio Mina a bordo della sua Benz nel 1896
Prova ne sia che già l'anno successivo Giorgio Mina si fece ritrarre a bordo della sua fiammante Benz nella tenuta di Castel Rozzone, nel comune di Pieve Delmona. Il 28 e 29 settembre, dunque, così Ettore Sacchi descrisse il transito di questa strana carrozza senza cavalli: “I giornali di Milano tengono dietro al viaggio che il signor Brena ha intrapreso sopra una carrozza automobile lungo tutta la penisola. I risultati del viaggio per or sono splendidi. Partito da Milano lunedì mattina il signor Brena è già arrivato a Firenze. Il veicolo, stando alle notizie, ha ruzzolato velocemente e senza scosse meglio che su rotaie percorrendo fino a 25 km/h. E' a quattro posti e da Milano a Firenze non ha ancora consumato 5 lire di benzina. Si vera sunt exposita, e noi cremonesi lo abbiamo potuto constatare quando il veicolo dell'avvenire è passato nella nostra città, questa carrozza ha innanzi a sé vastissimi orizzonti, essa ucciderà la bicicletta non solo, ma i trams, e le ferrovie. Chi è quel misero mortale che non vorrà mettere su carrozza, specie se la industria di tali veicoli si diffonderà e se i negozianti e i rappresentanti li venderanno a respiro e talvolta a...sospiro? Mettere su carrozza finora era stato un problema insolubile per la grande maggioranza della misera comunità. Ma le difficoltà del problema non erano state per le carrozze: erano quei benedetti cavalli che costituivano lo scoglio maggiore. Come potrebbe fare difatti un uomo che doveva risolvere la sciarada del desinare per se stesso e definire anche quella dei cavalli? La bicicletta ebbe un grade successo perchè si disse: è un cavallo che non mangia. E in parte è vero. Ma non tutti si sentono in vena di andare a lezione di velocipedi, vi sono uomini grevi con tanto di barba che non arrischiano di mettersi in berlina sulla pubblica via. Le signore, poi, meno poche eccentriche che sfidano il misoneismo del pubblico, non hanno il coraggio di infilare i pantaloni alla turca necessari per pedalare comodamente senza dovere badare allo svolazzamento delle gonnelle. Ma la carrozza automobile taglia tutti i nodi della questione. Uomini, vecchi, signore, bambini potranno imbarcarsi senza dare nell'occhio e percorrere miglia a loro bell'agio, senza dover mettersi in pensiero se i cavalli si stancheranno, o tremare perchè sono di natura ombrosi, o quel che più conta, senza dover loro provvedere la biada». Ma ancora più interessante è la descrizione tecnica della nuova macchina che chiude il servizio, ricca di dettagli sino ad allora sconosciuti. «Le vetture automotrici brevetto Benz, in seguito ai numerosi perfezionamenti subiti, oggi si presentano pratiche, razionali e di una sicurezza assoluta. Si costruiscono in diversi tipi e sono mosse da un motore ad accensione elettrica utilizzante il petrolio leggero, hanno una velocità media in piano di 20 km/h. La costruzione della vettura è in acciaio e legno per quanto riguarda lo scheletro e le ruote, di forma elegantissima e solidissima possono correre su strade anche brecciate, come pure su ghiaccio, neve, ecc.
La spesa va dai tre ai quattro centesimi al chilometro. L'apparecchio gazificatore e quello di riserva bastano per un viaggio di 100-120 km. La velocità si regola semplicemente operando o l'uno o l'altro dei due manubri opportunamente posti sul davanti della vettura in guisa di poter ottenere una velocità minima. Si arresta a velocità e immediatamente, sferza colla massima facilità ed è sensibilissima a qualsiasi movimento anche in strettissima curva. Basta poche ore per conoscere ogni movimento ed anche il più inesperto o profano in materia può approfittare di tali perfezionati veicoli, premiati ai principali concorsi europei».

Il quotidiano locale per qualche tempo non si occupa più di automobilismo, anche se è certo che già verso la fine del 1895 circolava sulle strade della provincia almeno un autoveicolo, secondo quanto riportava la “Gazzetta di Mantova” di quel tempo, dando notizia del transito del primo autoveicolo nella città virgiliana il 20 febbraio 1896: “Martedì, quasi a supplire la deficienza degli equipaggi signorili, girava sul nostro Corso una di quelle carrozze automobile che fecero tanto parlare di sé in questi ultimi tempi e che non s'erano ancora fatte vedere a Mantova. Ne è proprietario, e la guidava martedì, l'ingegnere Ippolito Pinardi di Rivarolo del Re (Casalmaggiore) venuto qui a passare gli ultimi di carnevale presso l'egregio dottor Cipriano Manfredini. Vi erano montati la signora Pinardi, figlia dell'ingegnere, la signora Manfredini e i suoi due figli. Il veicolo correva in mezzo alla folla sena pericolo di alcuno: rallentava la corsa, la accelerava, girava con la massima facilità ed eleganza. Esso fu acquistato dall'ingegnere Pinardi in persona due mesi fa a Parigi. Di là, con un amico, l'ingegnere venne a Rivarolo a tappe di 150-200 chilometri al giorno. Solo per ragioni di prudenza lo mise in ferrovia lungo il tratto del Cenisio. Con questa carrozza si possono percorrere a strada libera persino 30 chilometri all'ora; ma calcolate una media continua e sicura di 24. Il consumo di benzina è di centesimi 7 per chilometro. Peccato che sia ancora un po'...carina. Costò a Parigi non meno di lire 5.500!”.
Dieci anni dopo i motoveicoli circolanti in provincia erano 64, di cui 22 automobili. Ci aveva visto giusto il solito Ettore Sacchi che il 1 luglio del 1898 aveva scritto un nuovo articolo sui vantaggi del nuovo mezzo a motore e sui difetti dei trasporti pubblici: «Quanto ai vantaggi dell'automobilismo non sono pochi. Esso può rendere più facili ed economiche le comunicazioni, liberandole da quel legame delle rotaie cui sono soggette le ferrovie ed i trams, sostituendosi ai vieti e cattivi mezzi di trasporto. Fino ad oggi esso è quasi ancora allo stato di sport, ma i concorsi banditi nel 1894 e 1895 da un giornale francese per la cosa Parigi-Rouen e per quella Parigi-Bordeaux, il concorso dell'Automobil Club del 1897, hanno provato come un grande avvenire aspetti questi ingegnoso mezzo di trasporto. E già le amministrazioni militari, in alcuni paesi, si occupano alacremente del nuovo mezzo di trazione pel trasporto dei bagagli. Nelle esigenze della moderna attività l'automobile rappresenta un vero progresso dei mezzi di comunicazione e coll'andar del tempo esso si perfezionerà, sostituendosi a poco a poco alle odierne trazioni a cavalli; conseguirà lo scopo fondamentale richiesto a ogni nuovo ritrovato moderno: economia di tempo e di danaro”.
Carlo Carulli, primo patentato nel 1905
Passò qualche anno ed il 12 agosto 1899 fecero la loro comparsa alle porte di Cremona le prime corse automobilistiche con i i primi temerari piloti alla guida degli improvvisati bolidi. Ne dà notizia il quotidiano cremonese che scrive: “Lunedì prossimo avrà luogo l'importante corsa di automobili che fa parte delle feste agostiane di Piacenza. Percorso: Piacenza, Caorso, Monticelli, Castelvetro, San Giuliano, Busseto, Piacenza per lo stradone emiliano. A Castelvetro di fronte alla fornace dell'ing. Cav. Repellini ci sarà l'ufficio di controllo sorvegliato dal sig. Montaldi Aurelio. Inutile dire che il concorso di ciclisti cremonesi a Castelvetro sarà numeroso”. In una splendida giornata di sole, la mattina del 14 agosto, avvenne la partenza. I primi a lanciarsi sulla strada polverosa furono i cinque concorrenti nella categoria motocicli e tricicli ad un posto. Al via si presentarono il conte Alfonso Lecchi e Giuseppe Nescrini, bresciani, su due Prinetti & Stucchi, fabbrica milanese che poteva disporre di motori progettati da Ettore Bugatti; Luigi Storero e Velox di Torino montavano due Phoenix Hp I ¾, mentre il costruttore piacentino Attilio Orio cavalcava ua delle sue Orio & Marchand. Altri tre veicoli dell'officina piacentina si presentarono nella seconda categoria, riservata alla vetturette a due posti di peso non superiore ai 400 chilogrammi, guidate da Bartolomeo Orio, da Penice II e dal milanese Giuseppe Ruini. Una vettura Prinetti & Stucchi guidava il bolognese Guido Sanguinetti, mentre sempre all'officina piacentina aveva fatto ricorso il ragioniere amministratore Emilio Leporte, che utilizzava una potente, almeno per i tempi, 7 HP, un prototipo ancora in fase di collaudo che cercava una definitiva conferma in gara. Al traguardo di porta San Lazzaro si presentò per primo “con una volata vertiginosa” Luigi Storero in mezzo a due ali di folla che applaudiva entusiasta. Velox rimase senza benzina ma, anziché abbandonare la competizione, spinse a piedi il veicolo fino al traguardo. Due ore e 17 minuti il tempo impiegato dal vincitore a percorrere i cento chilometri del percorso, mentre nella seconda categoria giusne al traguardo solo Guido Sanguinetti in tre ore e diciotto minuti. Buona la performance della vettura ufficiale della Orio & Marchand guidata da Leporte, che concluse la gara in tre ore ed un minuto, ma che giunse a tagliare il traguardo quando il pubblico se ne era ormai andato, un po' deluso, come osservava il cronista piacentino: “Ma il pubblico che è rimasto è stanco e pensa, non a torto, che se le corse di automobili sono tutte come queste, divertono ben poco”. Corsi e ricorsi storici, come ben sanno gli appassionati di Formula 1.
Una Darracq del 1901
Pochi giorni dopo i temerari delle quattro ruote fecero la loro comparsa anche a Cremona nella tappa della grande corsa di resistenza disputata l'11 settembre sul percorso Brescia-Cremona-Mantova-Verona-Brescia di 223 chilometri. Sono gli anni in cui si affaccia anche la prima ditta cremonese che commercializza autoveicoli: si tratta della Bonezzi e Bonvicini con negozio in via Giudecca, l'attuale via Verdi ed officina in via Biblioteca, oggi via Boldori, che rappresentava in esclusiva per la provincia le automobili Darracq, fabbricate in Francia, la prima produzione in serie di 1200 esemplari prima che arrivassero le prime Fiat. Nel frattempo, in soli cinque anni, la tecnonologia ha fatto passi da gigante: le automobili non sono più semplici carrozze a motore, ma presentano ruote di uguale diametro, anche se i cerchioni con le razze in legno sono ancora simili a quelli dei carri pur se le gomme piene sono state sostituite da pneumatici. Il motore, ormai quasi sempre bicilindrico affiancato, piatto o a cilindri contrapposti, è quasi sempre piazzato in posizione anteriore, dietro le serpentine dei radiatori. Per la messa in moto si ricorre alla manovella che ha ormai quasi definitivamente soppiantato il sistema a strappo che utilizzava una cinghia montata sull'albero motore. Mancano ancora le corrozzerie ed il guidatore è esposto alle intemperie e al vento per cui è costretto a ricorrere a pastrani, occhialoni e berretto. Ha però la soddisfazione di disporre di un volante vero e non più delle vecchie code di bue. E' in questo clima che si svolge la seconda edizione della Brescia-Cremona-Mantova-Verona-Brescia il 10 settembre1900, dopo la disputa del record di velocità sui 5 chilometri sul tratto dello stradone tra Bagnolo Mella e San Zeno. Con la corsa arrivò anche il primo incidente grave in cui perse la vita il giovane Attilio Caffarati di Pinerolo, uscito di strada su una curva ad un paio di chilometri da Brescia. La gara è minuziosamente descritta in un articolo sulla “Provincia” del 12 settembre: “Il nostro secolo è invaso da una strana ossessione: quella della corsa. Dopo la bicicletta è venuto l'automobile il quale va sempre più perfezionandosi pel grande scopo di divorare la via: e quel bipede implume che si chiama uomo, o almeno uomo sportivo, non ha che un miraggio, vale a dire quello di correre sfrenatamente, pazzamente, non potendo, almeno fino ad oggi volare. Ciò premesso e stabilito come necessaria constatazione di una mania affatto moderna ed affatto caratteristica, veniamo alla cronaca del passaggio degli automobili che ebbe luogo ieri mattina a Porta Venezia. Prima delle otto c'era già molta gente, la quale andava man mano prendendo posizione, parte dov'era il controllo cioè al passaggio a livello della ferrovia, parte innanzi cioè sul gran stradone di Mantova. Per una delle tante contraddizioni delle quali è lastricato il mondo in genere, compreso il mondo dei cicli e degli automobili, alla zucchereria ieri non è approdato nessun carro di barbabietole, e nessuna barbabietola, cosicchè se gli automobilisti fossero passati anche dal piazzale cone l'anno scorso, era tolto il pericolo di uno scontro o d'un barbabietolicidio. Ma le disposizioni erano già prese e fu scrupolosamente seguita la variante, o rotta che dir si voglia, Il cielo si mantenne coperto di nubi, però non piovve e se qua e là c'era qualche pozzanghera, ci fu anche il gran vantaggio della mancanza assoluta di polvere, anzi oserei dire che sotto questo rapporto la corsa riuscì fortunatissima. Gli iscritti erano 48: da Brescia ne partirono 34, da Cremona ne transitarono 37. Il primo arrivato, alle 8,40, fu un triciclo, poi a distanza di pochi minuti vennero altri due tricicli. Io mi ero portato sulla strada di Brescia innanzi qualche chilometro per osservare l'arrivo di un punto di massima corsa, e vi assicuro che fu uno spettacolo impressionantissimo.
Il triciclo fila con una velocità da treno lampo, e quella massa nera che si avanza vertiginosa e su cui sta un uomo che sembra un palombaro cò grandi occhi di vetro, preceduto dal rumore caratteristico dello scoppio, vi fa quasi trattenere il fiato. Per fortuna lo stradone è bello, largo, libero, perchè ognuno pensa subito che se il triciclo trova un ostacolo, la macchina e chi lo monta vanno in frantumi. Pur troppo più tardi ho saputo che ci fu un urto fatale ed un morto, la qual cosa mi ha fatto subito presagire che finiranno per abolire anche da noi queste corse pazze ,come hanno fatto in Francia. Io capisco che si possa indire una corsa di resistenza: ciò è bello ed è pratico; quello che non capisco è fare, con l'automobilismo, la concorrenza alla ferrovia, ai treni lampo, agli express su strada comune. La quinta arrivata fu una vettura, così pure la sesta, la settima. Le vetture presentano meno pericoli, almeno apparentemente, del triciclo, e per lo più sono montate da due: uno che guida, l'altro in una posizione più o meno impacciata e gotica, forse per tagliare l'aria con minore resistenza. Tra le vetture, ne passò una tutta gialla che mi dissero essere del maestro barone Fanchetti. Ho visto anche passare assai bene, e con ammirevole velocità, due biciclette con motore a benzina. Chi montava la prima bicicletta a benzina aveva le braccia al sen conserte: come potete giudicare è una bella prova di fiducia in se stesso e nelle leggi dell'equilibrio, verso le undici tutto era finito. In complesso la corsa se ha segnato ai miei occhi un evidente progresso in velocità e un evidente perfezionamento, fu meno varia di quella dell'anno scorso. Ad un certo punto direi quasi che ogni cosa fu strozzata, perchè evidentemente molti tornarono indietro, al qual fatto contribuì senza dubbio la disgrazia accaduta. Nei nostri pressi tutto andò benissimo, il controllo funzionò egregiamente, e in ordine, alla firma obbligatoria apposta al controllo.”