martedì 27 marzo 2018

Quando le case erano chiuse

Casa di tolleranza negli anni Venti
Il 20 febbraio 1958, sessant'anni fa, il Parlamento approvò la legge n.75, più nota con il nome della sua creatrice, la senatrice socialista Lina Merlin. La legge aboliva la regolamentazione della prostituzione in Italia e, di conseguenza, portava alla chiusura delle “case chiuse”, che avvenne nel giro dei sei mesi successivi, il 20 settembre 1958. L’intento era quello di contrastare lo sfruttamento delle prostitute. L’iter della legge Merlin era stato molto lungo (la prima bozza risaliva al 1948) e contrastato: la proposta creava, infatti, una spaccatura trasversale nell’opinione pubblica italiana. Fra gli oppositori, Indro Montanelli pubblicò nel 1956 un pamphlet polemico intitolato “Addio, Wanda!”, che, in un certo senso, rispondeva al libro pubblicato l’anno precedente da Carla Voltolina, moglie del futuro Presidente Pertini, e dalla stessa Lina Merlin, intitolato “Lettere dalle case chiuse”, che raccoglieva 70 lettere ricevute dalle ragazze delle case di tolleranza e dal personale di servizio. Alcune favorevoli, altre contrarie alla chiusura. La senatrice Angelina Merlin, detta Lina, era stata maestra elementare della provincia di Padova, classe 1887, partigiana.
Durante il periodo fascista Angelina era stata spedita al confino in Sardegna perché aveva rifiutato di aderire al regime. Dopo la proclamazione della Repubblica, è stata l'unica donna nella prima legislatura repubblicana, eletta con il partito socialista. Si racconta che quando la sua discussa proposta di legge arrivò in Parlamento Lina invitò Pietro Nenni ad ordinare al partito di votare a favore. «Altrimenti – disse – farò i nomi dei compagni che sono proprietari di casini». E lui: «Dio mio, Lina, e come faccio ad avvertirli tutti?».
Dal 1958 ad oggi, il tema della prostituzione continua a rimanere al centro del dibattito politico e innumerevoli sono state le proposte, anche recentemente, di variazione e di revisione della legge n.75. Al momento dell'approvazione della legge le "case chiuse" erano 560 e ospitavano circa 2.700 prostitute.
Quando, con l'applicazione della legge Merlin, il 20 settembre 1958 vennero chiusi i bordelli, a Cremona erano presenti una settantina di prostituite distribuite in sette case di tolleranza. Bordelli esistevano però anche a Crema, in via Vico Sala 9 e a Casalmaggiore, in via Centauro 23. Le case chiuse cremonesi erano in via Bardellona, in via De Stauris, in via dei Dossi, in via Cavitelli, in via Fogarole e in via Castore Polluce. I peggiori lupanari si trovavano in via Bardellona, all’angolo con via Aselli, e in via Vacchina, una laterale di via Bissolati. Il “Vacchina” era uno dei noti casini che esistevano nella zona di porta Po, l’altro era in vicolo Dei Dossi. Il “Vacchina” era diretto dalla signora Maria, una corpulenta matrona sulla cinquantina dalle labbra rosso corallo. Anche l’altro bordello di via Dei Dossi era abbastanza declassato. Il tenutario era chiamato “el padròon de le vache” e disponeva di un nugolo di scugnizzi che durante la presenza delle truppe americane in città, andavano alla ricerca dei “boys” da portare al casino. Ed in cambio, quale ricompensa, ricevevano la possibilità di dare una sbirciatina a qualcuna delle signorine del casino, quando riuscivano a racimolare almeno quattro clienti. In via Bardellona i casini erano due: il primo era situato verso la curva di via Aselli, il secondo un po’ più all’interno. Quello verso via Aselli era squallidissimo e frequentato da nugoli di militari. Le prostitute vestivano sottovesti nere lerce, mentre i clienti aspettavano il loro turno su panche in legno in condizioni peggiori di quelle delle stazioni ferroviarie. Il secondo bordello di via Bardellona era invece un po’ più dignitoso: la tenutaria si chiamava Carlina, era un donnone con un grembiule nero che inforcava occhiali cerchiati in metallo che la facevano sembrare più un’oblata che una maitresse. Il personaggio più noto del mondo del piacere nostrano era però la Egle, tenutaria del casino di via Fogarole. Tarchiata, dai capelli giallo polenta, la voce rauca per le molte sigarette. Un giorno nei pressi del suo bordello avvenne un fatto di sangue: uno spazzino uccise l’amante a colpi di pistola. Quando fu celebrato il processo la Egle venne chiamata in qualità di testimone e i cremonesi che affollavano l’aula per il clamore suscitato dall’omicidio passionale, manifestarono un certo imbarazzo non sapendo se salutarla o meno. Un altro noto casino era il “Belfiore” di via Cavitelli, molto trascurato: la casa era buia, i divani su cui sedevano i clienti in attesa erano ormai sfondati con le molle che uscivano dal fondo, ma il bordello era frequentatissimo per la bellezza di alcune delle ragazze che periodicamente vi lavoravano. Il bordello più elegante era in ogni caso il Polluce di via Castore Polluce, una laterale di via Milazzo, nei pressi della chiesa protestante. Era il ritrovo più caro di Cremona, dove ogni consumazione superava di 150 lire le tariffe fissate per le altre case di tolleranza cremonesi. L’interno era grazioso e l’arredamento di buongusto. La tenutaria era una certa Mimma, milanese, esile, intelligente, di buona cultura, che contrastava con la portinaia, un donnone di 120 chili che incuteva terrore. Il Polluce era frequentato dalla Cremona “bene” e vi si usava il “libero”: in buona sostanza il cliente di rispetto aveva facoltà di scegliere la ragazza da solo. Per quanto riguarda l’origine, le ragazze che esercitavano a Cremona erano principalmente venete. Vi erano anche alcune milanesi, qualche meridionale e molte emiliane.
Le case di tolleranza cremonesi furono anche spesso al centro di episodi di cronaca nera, a causa dei loro frequentatori. Non erano rari i sequestri di armi e di droga, soprattutto cocaina. Per questo motivo, ad esempio, fu chiusa nel novembre 1928 la casa di tolleranza di via Villa Glori 14 e la sua tenutaria Annita Bellotto condannata a sette mesi di carcere e 3500 lire di multa. Ad altri sei mesi di carcere e mille lire di ammenda fu condannato nell'aprile 1929 un certo Emilio Medica per aver mantenuto aperto un bordello non autorizzato. Altre volte le condanne riguardavano l'adescamento all'esterno della casa, come nel caso di due prostitute che sostavano davanti all'ingresso di vicolo Traverso 10 “richiamando in tal modo l'attenzione dei passanti”, e della tenutaria del bordello, che si presero un mese di carcere sempre nel giugno del 1929. Nel giugno del 1951 venne arrestato un giovane macellaio per aver colpito al volto una ragazza di una “casa chiusa” rompendole il setto nasale.

In epoca storica la presenza di case di tolleranza organizzate è documentata fin dal XIV secolo, come ha dimostrato la giovane studiosa Barbara Venturini nella sua tesi di laurea “La prostituzione a Cremona nella prima età moderna” presentata presso l'università degli studi di Pavia nell'anno accademico 2009/2010. La normativa del Trecento prevedeva l'allontanamento delle meretrici dalla Cattedrale, dove probabilmente si recavano per adescare clienti, dalle maggiori piazze e dalle vie, dove era loro proibito di transitare durante il giorno. Le prostitute erano, quindi, obbligate a risiedere all'interno del postribolo, dal quale non potevano allontanarsi per più di dodici metri.
Un'ulteriore norma prevedeva la presenza di un postribolo solo all'interno dei confini della piazza, forse spiegabile con il mutato atteggiamento dei governi che avevano intuito l'utilità sociale e soprattutto economica della prostituzione. Anche i documenti d'archivio confermano l'esistenza di un postribolo nella città negli anni precedenti al 1559. Nonostante questa attenzione alle meretrici erano imposti particolari vincoli: anche a Cremona erano costrette a portare un mantello di fustagno bianco di riconoscimento e non potevano circolare all'interno della città se non nei giorni e negli orari consentiti. Le meretrici, secondo gli “Ordini fatti sopra il vestire” del 1572, non potevano portare oro, argento, capi di seta, gioielli e perle, erano obbligate ad indossare una berretta senza alcun tipo di ornamento, e una “cintola” o banda rossa che pendesse per tutta la lunghezza del vestito. Non potevano abitare nelle vicinanze della città e dei sobborghi cremonesi, se non nei
luoghi destinati ai postriboli, in caso contrario avrebbero dovuto pagare una pena di venticinque lire imperiali. Le stesse meretrici, ma anche terzi, non potevano gestire un postribolo all'interno dell'area della Cittadella, compresa tra piazza del Duomo, piazza Stradivari e piazza della Pace, pena una multa e la cacciata dal luogo. A loro era consentito uscire dal postribolo solo il sabato per effettuare la spesa, mentre in tutti gli altri giorni della settimana non potevano muoversi in città, a meno che indossassero il mantello di riconoscimento lungo fino ai gomiti. Quelle che contravvenivano agli ordini potevano essere spogliate pubblicamente degli indumenti indossati
da parte delle milizie del Podestà.
La prostituzione veniva permessa, ma nessuna persona, però, poteva fermarsi nel postribolo dopo il terzo suono della campana serale, né abitare con le donne né cercare ricovero nelle taverne vicine, pena una multa di cinque libbre imperiali. Gli stessi proprietari delle locande, dove i lenoni erano soliti condurre le donne protette durante la notte, non potevano dare alloggio oltre il terzo suono
della campana né a una prostituta né a un protettore. Lo stesso valeva per le maitresse che erano obbligate inoltre a denunciare la presenza di eventuali lenoni che le prostitute tenevano in casa. La severità dei regolamenti, tuttavia, non impedì che in città sorgessero problemi di convivenza con
il vicinato. Dopo la chiusura del postribolo pubblico nel 1559 le donne venivano ospitate da un certo Tommaso Nuvolone e dalla moglie, detta la Barzotta, nella propria casa nella vicinia di San Sebastiano, fuori le mura della città. Lamentando il disagio causato dalla situazione, i vicini
decisero di chiedere al Senato di Milano di espellerle, ma Tommaso, appellandosi alla mancanza oggettiva di un postribolo, invitò il governo spagnolo a concedergli il permesso di ospitare legalmente le donne pubbliche nella propria abitazione. Con ogni probabilità il permesso non fu accordato, se nel 1576 alcune donne, probabilmente prostitute, vengono censite in una zona diversa della città, dove vivevano da sole in affitto in case situate nella vicina di San Paolo, nella contrada di Santa Tecla che, lontana da luoghi sacri e vicina alle mura, poteva costituire il luogo più adatto
per esercitare il mestiere più antico del mondo. Nel 1592 nella zona di San Bassano, a ridosso delle mura e limitrofa alla vicinia di S. Paolo, le donne che vi vivevano da sole o con figli a carico
erano 59 e, non essendovi l'indicazione della professione, erano quasi sicuramente prostitute.
Di fronte alla presenza del fenomeno della prostituzione dilagantele risposte della città di Cremona furono molteplici. Nel 1587 i membri della Compagnia della Carità istituirono la Casa del Soccorso, nota anche come conservatorio di San Raffaele, nella vicina di Santa Lucia, zona marginale abitata in prevalenza dai ceti popolari e dagli indigenti, per fronteggiare il fatto che “molte giovinette, per non haver parenti, ne altri che buona cura di loro tenessero, facilmente perdevano l'honestà, et la salute insieme, con offesa di Dio, et ruina dell'anime”. Per “rimediare a tali disordini col divino aiuto, et col favore, et auttorità dell'Illustrissimo, et Reverendissimo monsignor Nicolò Sfondrato Cardinale, et Vescovo di detta Città, fondarono, et eressero un luogo pio, comperato à proprie spese da essa Compagnia, chiamato il Soccorso...e dove sotto il reggimento di honeste, et prudenti
persone si riducessero le figlie senza recapito, et pericolose di cader in peccato, et ivi fossero provedute di vivere, et vestire, e amaestrate nella christiana disciplina, et esercitate nelle sante virtù, et honesti costumi. Et poi a suo tempo si procurasse di consegnarle à parenti loro, se pur n'havessero de' buoni, ò di dar loro altro onesto ricapito”. Le giovani che potevano essere ospitate nella casa dovevano avere un'età anagrafica compresa tra i dieci e i trent'anni e un'origine espressamente cremonese. Era assolutamente vietato l'ingresso a “quelle che haveranno perduta la verginità..., le stropiate, ò mal sane, et inferme; non le ispiritate...nè le pazze, purchè l'accesso avvenisse secondo le volontà delle giovani e non su costrizione del padre o della famiglia. Sempre grazie all'azione
della Compagnia della Carità venne fondato nel 1595 il conservatorio di S. Maria Maddalena, che accolse le malmaritate, cioè le donne sposate che si trovavano in difficili situazioni coniugali, le donne in pericolo di perdere la propria honestà e quelle che, dopo averla perduta, desideravano
la redenzione”.

L'altra pensilina di piazza Stradivari (1908)

Vi ricordate la pensilina di piazza Cavour, realizzata vent'anni fa, nel 1998, e smantellata dieci anni dopo? E le infinite polemiche che precedettero la sua definitiva eliminazione in vista di un concorso di idee che prevedesse l'intera riqualificazione della piazza, rimasto dal 2009 lettere morta? Nulla di nuovo. Dalle carte dell'Archivio storico comunale, depositato presso l'Archivio di Stato, spunta il progetto per coprire con una pensilina piazza Cavour ben cent'anni prima della giunta Bodini, finito nel nulla, ma sicuramente dalle linee architettoniche molto più eleganti, sensibili al gusto liberty del tempo.
Il disegno per la centina della pensilina
Il progetto fu realizzato dall'Ufficio tecnico del Comune su incarico della giunta guidata da Giuliano Sacchi, sollecitata dalla Camera di Commercio di Cremona. Era da tempo che si dibatteva sulla necessità di dotare il centro storico della città di un mercato coperto, destinato soprattutto ad ospitare il mercato dei bozzoli, ma anche altre necessità mercantili. Si era pensato anche di coprire con una tettoia in vetro il cortiletto Federico II del palazzo municipale, ma l'idea venne scartata a favore di piazza Cavour, trovando unanimi consensi. A provocarne il definitivo abbandono fu con ogni probabilità il continuo valzer di sindaci che caratterizzò quello scorcio di secolo con l'alternarsi di Giuliano Sacchi, Giuseppe Puerari, Luciano Ferragni, Andrea Armanni, Osvaldo Archinti, Giuseppe Lava, Pietro Rizzi, Ferdinando Bolza ed ancora Luciano Ferragni nel giro di dieci anni tra il 1888 ed il 1898. Di certo se ne parlava ancora, come vedremo, nel 1908, anche se, abbastanza caustico, nel 1918 Giuseppe Garibotti, che aveva presentato un progetto di riordino generale dei mercati in un unico edificio coperto, osservava: “I mercati coperti da crearsi in piazza Cavour, a porta Po, od a Porta Romana, entravano nei programmi elettorali, oppure venivano soltanto esaltati in qualche adunanza di nuovi eletti, senza raggiungere mai un qualsiasi concretamento”. E ribadiva il severo giudizio sulle precedenti amministrazioni: “Se non fossero stati illuminati e lodevolissimi interventi della Banca popolare e del Comizio Agrario, il Mercato bestiami in Cremona sarebbe ancora – con tutta probabilità – una vasta area con poche tettoie. Avessero almeno i nostri predecessori dimostrato di voler, prima o dopo curare la creazione di moderni mercati pel grano, verdure frutta, polleria, pesce, dove ogni giorno devono raggrupparsi numerosi venditori ed acquirenti! Ma pur troppo, mai venne concretato ed attuato ciò che ripetutamente era invocato dagli interessati” (Il nuovo ordinamento dei Mercati per generi di alimentazione. Relazione al Consiglio comunale dell'assessore G. Garibotti, Cremona, Interessi Cremonesi, 1918). Parole profetiche quelle di Garibotti, talmente profetiche che anche il suo ambizioso progetto di demolire palazzo Galizioli per realizzare sull'area il mercato coperto in un nuovo edificio, rimase lettera morta.
Ma vediamo invece la storia della nostra pensilina di fine Ottocento. A proporla fu il sindaco Giuliano Sacchi nella riunione di giunta del 31 agosto 1888, che diede incarico all'Ufficio tecnico di progettare “una tettoia stabile per coprire l'intera piazza Cavour lasciando libere le strade che la fiancheggiano e che l'attraversano tenendo tale tettoja distante non meno di 4 metri dalle linee dei colonnati dei portici e metri 5 dalla fronte della casa Rossi”. La necessità nasceva dal fatto di dover trovare una nuova sistemazione del mercato dei bozzoli, che allora si teneva in piazza del Duomo sotto un tendone: “Il padiglione – informava il sindaco - che per la sua estensione è insufficiente di spazio, di rilevante spesa per le sua conservazione, non presenta quella sicurezza dal riparo delle acque di pioggia che un tale edificio deve nel modo il più assoluto accertare. Questo padiglione che venne attivato ora sono sei anni si è già ridotto allo stato da richiedere una radicale riforma. Essendosi ripetuto anche quest'anno il fatto in misura molto maggiore di quanto sia sucesso nei passati anni 1886 e 1887, che durante un acquazzone, sotto il padiglione pioveva come se non vi fosse stata la copertura in loco. Fortunatamente il mercato in quel giorno era poco popolato e i mercanti colla loro merce ripararono sotto i portici del municipio, ma se la pioggia fosse caduta in una giornata di popolato mercato, la merce si sarebbe sciupata d'acqua”. Dai dati statistici che lo stesso sindaco aveva portato in giunta, si ricavava che nel 1888 si erano prodotti 81.920 chilogrammi di bozzoli, non molto in verità, rispetto a quanto prodotto nel 1882, ad esempio, quando i chili furono 113.848, ma comunque una discreta quantità tale da far dire al sindaco: “Avete l'esempio del mercato dei bestiami. Prima che in forze quel bellissimo piazzale fuori di porte Venezia sul quale vien tenuto, avrà una mostra di mercato. Ora per la comodità del luogo ha centuplicato di frequenza, ed ha acquistato la fama di uno dei migliori mercati della Lombardia, Veneto, Emilia, Piemonte e da qualche anno è frequentato da negozianti napoletani. Se l'amministrazione comunale, per lesineria di denaro, non avesse avuto il coraggio di apprestare le comodità che presenta il luogo destinato al mercato, Cremona non avrebbe acquistato quel grado di movimento commerciale che la fa continuamente prosperare e notare anche che il solo ponteggio della piazza rende l'interesse del capitale occorso per la sua costruzione.
Egual sorte avrà il mercato dei bozzoli se sapremo predisporre un piazzale sufficientemente ampio e con copertura sicura della piazza. Non è a discutersi se convenga al Comune abbandonare o tenere con cura il mercato bozzoli. E' un cespite di somma pertiene al commercio cittadino e tornerà di non lieve ristoro alle finanze del Comune. Nessuna amministrazione cittadina potrebbe ideare la sopresione del mercato bozzoli, anzi il suo obbiettivo sarà sempre quello di sostenere, protegge, fare fiorire nel miglior modo questo mercato”. 
La planimetria del mercato dei bozzoli
Ragion per cui diventava indispensabile recuperare nuovi spazi attrezzati. “Dall'esperienza è risultato che la superficie necessaria al mercato non deve essere minore di metri 1261. La piazza del Comune devesi a priori escludere perchè è una piazza da tenersi sgombra per non deturpare la sua bellezza monumentale. La piazza Pescheria e del Lino è troppo piccola perchè non ha di spazio utile che metri quadrati 800. Scegliendo, o non si può altrimenti, la piazza Cavour, bisogna provvedere per il trasporto in altra località della statua di Vittorio Emanuele, e la nuova località la troverei opportuna nel luogo dove ora trovasi la colonna della Pace, destinandosi questa a altro spazio. Il monumento di Vittorio Emanuele si troverebbe meglio colocato in questo muovo posto perchè acquisterebbe un punto prospettico di molto effetto, ciò che le manca del tutto dove ora trovasi. Il trasporto dei due monumenti importerà la spesa di L. 3500. L'edificio proprio a coprire il piazzale del mercato non può essere che una tettoia stabile a colonne di ghisa con davanti una copertura in ferro a parfetta tenuta d'acqua con pavimentazione di granito, di stile ed altezza e non di lusso soddisfacente al decoro cittadino. Il costo di quest'opera ammonterà a L. 65.000 alle quali aggiunte le L. 3500 per il trasporto dei monumenti si ha un totale di L.68.500”.
Lo stesso sindaco Sacchi non si nascondeva le difficoltà che il progetto avrebbe potuto incontrare e concludeva la sua presentazione dicendo: “Questo progetto potrà incontrare degli ostacoli, specialmente per la occupazione della piazza e forse anche nelle spese per chi non volesse riflettere alle spese che abbiamo attualmente col padiglione mobile. Forse potrà essere respinto per la prima volta dal Consiglio comunale, ma non per ciò dobbiamo arrenderci dallo studio e presentare le nostre proposte. Avremo scaricato il peso delle responsabilità, avremo fatto il debito nostro chiamando l'attenzione pubblica sopra tanto grave oggetto, e non dubitate che il tempo e non a lungo ci darà ragione. Ciò che sarà stato a noi negato verrà imposto ad altra amministrazione comunale”.
Passò qualche settimana e fu la stessa Camera di Commercio con una lettera del 5 novembre a sollecitare la Giunta a prendere in considerazione l'idea di realizzare il mercato coperto in piazza Cavour, destinandolo non solo ai bozzoli, ma anche alla frutta ed al pollame, tanto che la giunta, guidata da Giuseppe Puerari, facente funzioni di sindaco, il 4 gennaio 1889 discusse ed approvò la .proposta camerale. Ma passarono altri due anni e solo il 26 aprile 1891, quando era sindaco ancora per pochi giorni Luciano Ferragni, il progetto predisposto dall'Ufficio Tecnico venne esaminato ed approvato prima di una nuova crisi con la successiva nomina del regio commissario straordinario Andrea Armanni. Il verbale della giunta recita: “La giunta avuta contezza del progetto di mercato coperto allestito dall'Ufficio Tecnico secondo le dategli istruzioni, e trovatolo soddisfacente così del riguardo della scelta della località, come per quanto alla ideata struttura ed al disegno della tettoia, ne prende atto, augurandosi che la giunta che sarà chiamata a succederle nell'amministrazione del Comune lo prenda nella dovuta considerazione e ne spinga la esecuzione avuto riguardo in particolar modo al bisogno urgente di provvedere al mercato pei bozzoli, essendo divenuto inservibile il padiglione mobile destinato a quello scopo”. A questo punto, però, del progetto si perdono le tracce ed è ancora la Camera di Commercio a rispolverare la questione molti anni dopo, nel 1905, confidando nel nuovo sindaco Francesco Piazza, a cui il presidente Meneghini scrive il 29 settembre: “Nell'adunanza 25 u.m. Il signor consigliere Robbiani proponeva (ed il consiglio camerale ammetteva) di rinnovare pratiche col Comune di Cremona per una migliore sistemazione del mercato civico locale usufruendo all'uopo del cortile del palazzo municipale opportunamente coperto. Ora, ricordando da nota municipale 8 gennaio 1889 n. 11100, questa camera confida che codest'onorevole Amministrazione possa raggiungere lo scopo desiderato dal commercio – o con l'accenata copertura del cortile del Municipio o con altri più pratici e migliori progetti. Gradirà il sottoscritto di avere un cenno di riscontro in argomento, e di conoscere le vedute di codest'onorevole Giunta in proposito per darne analoga comunicazione a questo consiglio camerale”.
Il progetto di Giuseppe Garibotti
Ma, ahimè, anche Piazza non ebbe migliore fortuna dei suoi predecessori e si dimise il 2 luglio 1906. Probabilmente la questione del mercato coperto venne finalmente ripresa dal nuovo sindaco Dario Ferrari, dal momento che tra le carte della pratica si trova, unica traccia della fantomatica copertura, la proposta della ditta Pasqualin e Vienna per installare una tettoia a Cremona al prezzo di 31.100 lire. Alla lettera, datata 16 aprile 1908, sono allegati due disegni dell'installazione, che riprendono il progetto presentato a suo tempo dall'Ufficio tecnico comunale, di cui esistono, allegati alla prima pratica del 1891, i disegni delle centine metalliche di un piacevole gusto liberty.

Dieci anni dopo concludeva, dunque, amaramente Garibotti: “Le amministrazioni passate del nostro Comune, per quanto sollecitate ripetutamente, non si sono mai curate seriamente di riorganizzare con criteri moderni, i pubblici Mercati, dotandolo di speciali edifici. Trascurando di rilevare le vicissitudini del Mercato coperto dei bozzoli, possiamo notare che prima ancora di provvedere al mercato coperto dove si concretano operazioni immense di riprodotti del suolo e di generi di alimentazione, si cercò dimettere al coperto e bem riparati i bovini e gli equini”. Purtroppo, però a rendere testimonianza del grandioso progetto di Garibotti sono rimasti solo i disegni dei prospetti delle facciate di quello che sarebbe dovuto diventare il grande mercato coperto di Cremona, mai realizzato: vent'anni dopo, sulle macerie di palazzo Galizioli sorse invece la grandiosa sede della Ras.

domenica 4 marzo 2018

La terribile spagnola

Compie un secolo la più terribile delle pandemie di influenza, la Spagnola, che all’inizio del 1918 fece la sua comparsa provocando milioni di morti nel mondo: tra il 1918 e il 1920 sterminò tra 25 e 50 milioni di persone, dopo averne contagiate circa un miliardo. Recenti stime parlano addirittura di 100 milioni di morti, cinque volte di più di quanti ne uccise la famigerata peste nera del 1348. Il nome “spagnola” deriva dal fatto che quando iniziò a diffondersi ne parlarono principalmente i giornali del paese iberico, questo perché la Spagna non era coinvolta nel primo conflitto mondiale e dunque la libertà di stampa non era soggetta ai limiti della censura di guerra. Del resto, annunciare che una misteriosa epidemia stava falcidiando popolazione e soldati non poteva avere un impatto positivo sul morale delle truppe, già logore da anni di durissima guerra di trincea. Per questo i giornali del tempo enfatizzavano i fatti della guerra, soprattutto in Italia dove si stava combattendo la battaglia del Piave, definendo l'epidemia “influenza dei tre giorni” e indicandola semplicemente come uno strano morbo. Fino a quando nell'estate del 1918 l'influenza esplose in tutta la sua virulenza, accompagnandosi con gravissime complicazioni a livello polmonare che furono responsabili della maggior parte dei decessi. Si ritiene che in Europa fu introdotta dai soldati americani, sbarcati in Francia nell'aprile del 1917 per partecipare al conflitto, perchè il primo focolaio fu un forte in Kansas o un altro in Texas, dove vennero colpiti 1.100 soldati.
Il nostro paese fu uno di quelli più colpiti dall'influenza spagnola; il tasso di mortalità è stato secondo solo a quello russo, dove le condizioni climatiche estreme aggravarono ulteriormente la situazione. Si stima che in Italia il morbo colpì oltre 4 milioni e mezzo di persone, uccidendone tra le 375mila e le 650mila. Un numero impressionante, se si considera che all'epoca la popolazione italiana era composta da 36 milioni di cittadini. A Cremona, secondo Mario Levi, sarebbero morte 1621 persone ma, per il silenzio che per mesi circondò la misteriosa malattia, potrebbero essere state molte di più.
Un primo accenno indiretto del morbo si ha, però, solo in un'inserzione pubblicitaria dal titolo “Tifo e 'grippe' spagnola” su “La Provincia” del 25 settembre dove si consiglia l'acquisto di un “Assorbi polvere” sulla scorta di un articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 19 firmato dal medico capo municipale di Milano sulle norme igieniche da adottarsi per evitare le malattie: “Tutte le nostre Signore ne faranno certamente tesoro e si provvederanno, senza indugio, di un Assorbi Polvere Ideale, perchè questo è l'unico apparecchio che nella sua semplicità e praticità riunisce tutti i requisiti necessari allo scopo. Difatti esso disinfetta gli ambienti, assorbendo istantaneamente polvere e microbi senza diffonderli nell'aria, e non solo pulisce rapidamente ed in modo perfetto pavimenti, mobili plafoni e pareti lucide ecc. ecc. ma, in virtù del preparato speciale di cui è imbevuto, conserva e rende più brillanti tutte le superfici lucide; è quindi non solo igienico, ma anche pratico, utile ed economico”. Il prezzo di un tale portento? 15,50 lire con bastone e 14,75 per l'apparecchio a forma di spazzola per i mobili. Il 1 ottobre, mentre si registravano già i primi morti, usciva un trafiletto dove si diceva semplicemente che, date le “eccezionali condizioni del momento” era stato varato un decreto legge che concedeva ai prefetti la facoltà di fissare i prezzi massimi “dei medicinali di maggior uso”, “allo scopo di ovviare ai gravi danni derivati alla pubblica salute dai prezzi eccessivamente elevati dei medicinali”.
Ma la spagnola uccideva. Lo sapeva bene un povero prete di campagna, don Gioachino Bonvicini, parroco del piccolo borgo di Ognissanti, trecento anime, quasi tutti contadini, che in questo lembo di pianura assiste attonito alla repentina scomparsa dei suoi parrocchiani. A tal punto spaventato da scriverlo nel suo “Diario”. Le poche notizie che si hanno dell'influenza sono frutto in un passaparola e, stante il silenzio degli organi competenti, acquistano quasi la dimensione di un misterioso flagello biblico che si accompagna alla guerra ed all'annata agricola compromessa dalla pioggia, che continua a cadere copiosa.
30 settembre 1918 - annota don Bonvicini - Alcuni giorni or sono Priori Caterina maritata Genevini Liderico è andata ad assistere l'ammalata sua sorella Luigina a Vighizzolo che era in casa della maestra Amalia Priori altra sua sorella, tutte e tre native d'Ognissanti, ma mentre assisteva la sorella, si ammalò essa pure, e così si ammalò anche la maestra Amalia, tre sorelle in casa ammalate, le quali sono ora assistite alla parente Giuseppina maritata Farina, pure di Ognissanti. La notte di venerdì 28 del mese. Mentre si faceva la santa comunione per viatico alla Luigina, l'hanno fatto anche le altre due sorelle. Ieri sera circa alle 11 di notte la Luigina è morta da polmonia secca e tifo, e anche del male che si dice la febbre spagnola, malattia della quale non ho mai sentito il nome e che ora è diffusa in tante città d'Italia e altri luoghi. La morte Luigina arrivata a casa da Milano circa otto giorni fa si è subito ammalata, e nella notte passata è morta. A Milano la malattia è assai diffusa, e mi diceva il parroco di Gazzo alla Pieve, dove stamattina si è tenuta la congregazione foranea, che egli ha parlato con uno che veniva da Milano che là in uno stabilimento di quattro mila operai circa ve ne erano di più di mille ottocento ammalati, e ve ne sono molti, tanto nei borghesi, quanto nei militari. A Parma si dice che il male diminuisce. Qui ad Ognissanti vi sono varie donne e giovani con tifo e condotte all'ospitale, e anche a casa a moglie del maestro Pederneschi Vittorio alla quale in questa mattina ho fatto la santa comunione. Di Dramagni vi sono all'ospitale per tifo tre donne, e a casa alcuni uomini. Non basta adunque il grande flagello della guerra, vi è anche quello di malattie contagiose. L'ospitale di Cremona ha proibito l'entrata agli estranei. Quindi non si può più visitare gli ammalati se non in caso estremo dal padre e dalla madre, ma anche in questi casi si esigono tante prescrizioni. Ha detto poi ancora il parroco di Gazzo che i medici per preventivo della malattia prescrivono di bere vino e fumare”.

In presenza di una tale confusione, mentre l'epidemia infuria, la giunta comunale il 4 ottobre
si decide ad emanare un comunicato ufficiale in cui minimizza la portata dell'epidemia che “ha avuto e mantiene sinora tra la popolazione civile di Cremona, in complesso, un carattere assai mite. Infatti nella maggior parte dei casi si presentano fenomeni morbosi tali per cui gli ammalati vengono obbligati al letto soltanto per tre o quattro giorni”. E mentre altrove la mortalità si presentava con una percentuale del 4-5%, stando alla giunta, “in base alle chiamate ai medici condotti” la mortalità sarebbe stata inferiore all'%. Tuttavia “a profitto di tali ammalati riferibili alla popolazione povera, l'amministrazione comunale avrebbe preferito poter tornare a usufruire dell'Ospedale Ugolani Dati, ma siccome detto istituto nelle attuali contingenze non può essere ceduto, si sta altrimenti provvedendo a cura dell'Ospedale Maggiore occupando, se sarà il caso, locali di pertinenza del Comune. Frattanto, a profitto di tutti, in genere, gli ammalati, la Giunta sta dando ultime disposizioni per attuare un venditorio-permanente di latte ad uso esclusivo degli infermi”. L'amministrazione comunale non volle chiudere le scuole che “non fanno viceversa che arrecare inutili cospicui danni ad altri vitali interessi della collettività”. “Se poi si tien conto che certe misure di carattere sensazionale, ma destituite di qualsiasi fondamento scientifico, contribuiscono più che altro a diffondere il panico che agisce come un debilitante fisico e quindi come una causa di predisposizione a contrarre il morbo, la Giunta confida che, da parte della stampa, dei medici e di tutti i cittadini di buonsenso si vorrà, anziché invocare provvedimenti draconiani, fare piuttosto opera per mantenere la calma fra la popolazione, e per diffondere quei precetti di ben intesa profilassi individuale che già sono apparsi su quasi tutti i giornali dei grandi e piccoli centri”.
Di quale fosse, in realtà, la situazione, ci informa sempre, dalle pagine del suo diario, don Gioachino Bonvicini: “21 ottobre 1918. In questi giorni in questi paesi molti sono ammalati specialmente donne giovani ed anche uomini; vi sono giovani ammalate da tifo ed altre da febbri dette spagnole, che è influenza come è avvenuto in altri anni, morti fino a quest'ora non ve ne sono. Alla Pieve S. Giacomo moltissimi sono gli ammalati tra i quali il medico Tedoldi Amilcare il quale ha la condotta di Sospiro e del ricovero, e lo stesso speziale, si dice che il medico è ammalato gravemente. Andati alcuni in Comune per domandare un medico pei suoi malati hanno risposto che non ne trovano, hanno scritto anche a Mantova e non fu data risposta. Mi diceva uno di Cremona ieri che là moltissimi sono i malati, e vi sono colpite intere famiglie; nei giorni passati all'ospitale ne morivano dai 60 ai 70 al giorno, ora sembra alquanto diminuito il numero dai 25 ai 30. Mancano anche le medicine, e quelle che si danno sono carissime, basti il dire che per un'oncia di olio d'origine (ricino) ci vuole una lira, e a trovarne.
Oltre la malattia i giorni passati sono stati con grandi piogge, il melicotto sulle aie marcisce, ne hanno ancora nei campi da raccogliere e le pannocchie che sono in terra, che sono ancora molte ancora, queste vanno a male. I poveri vedono tutta la loro speranza che consiste nella raccolta del melicotto andar fallita. Sono stati fortunati quelli che l'hanno raccolto in tempo. La semina del frumento non è ancora cominciata, ed è passato San Luca che il proverbio dice: chi non ha seminato balucca. Anche questa semina la si teme infelice, perchè mi hanno detto che la semina fatta sul tardo non dà quella rendita che dovrebbe dare”.

“La calma è il segreto di ogni successo”, ammoniva ancora il giornale il 5 ottobre, assicurando l'andamento benigno dell'epidemia, che però, contrastava di fatto con le precauzioni adottate in tutta la provincia per evitare il contagio, “data la natura dell'infezione, la quale, rapida nel diffondersi, si trasmette anche a mezzo di individui apparentemente sani”. A complicare il quadro l'impossibilità di utilizzare al massimo l'ospedale Ugolani Dati, già impegnato nel soccorso dei soldati ammalati, e la mancanza di medicinali e disinfettanti, di cui si inizia a parlare dopo una decina di giorni dall'insorgenza dell'epidemia, quando la farmacia dell'Ospedale si trova sprovvista del chinino necessario a fronteggiare l'emergenza. E' proprio verso la metà del mese che iniziano ad affiorare i primi dubbi in merito alle dichiarazioni rassicuranti fornite dal medico provinciale Alessandro Prati, secondo cui in alcuni comuni colpi per primi la spagnola “è già in via di decrescenza, mostrando tendenza a presentare, abbastanza breve, il periodo di massimo sviluppo”. La polemica infuria e l'Ospedale Maggiore è costretto ad ammettere di avere quasi esaurito i 7,155 chili di chinino a disposizione il 1 ottobre, e di avere scorte di “sali di chinina” fino al 31 dicembre, residuo degli acquisti fatti nell'anno precedente, ma di aver già dato avvìo alle pratiche per le nuove forniture. Ed un anonimo funzionario di un ufficio pubblico denunciava: “E' bene si sappia che se non fosse stato per l'opera intelligente e soccorritrice dei sanitari che tutto hanno sacrificato e sacrificano per combattere l'influenza, l'ufficio locale d'igiene ben poco o nulla ha fatto e fa per evitare la diffusione dell'epidemia specialmente nelle case popolari. Nientemeno detto ufficio ha anche negato al disinfezione di alcuni uffici governativi dove, per l'affollamento di persone che lavorano in locali ristretti, giornalmente si registrano casi di malattie epidemiche con decessi. E che cosa vogliono aspettare questi signori che ne muoiano degli altri prima di provvedere ad una curata disinfezione dei locali medesimi?”. Il 17 ottobre l'ennesima pubblicazione di “precetti igienici contro l'epidemia influenzale” suona quasi una resa: “La diffusione generale di questa malattia dominante, e la impotenza della autorità sanitarie ad isolarne i focolai oramai troppo numerosi, debbono convincere la cittadinanza che solo la osservanza spontanea, diligentissima dei singoli cittadini e delle singole famiglie a precetti igienici ed alle disposizioni profilattiche possa affrettare la fine dell'epidemia conciliando nel modo più efficace l'interesse privato e quello della pubblica salute”, Ma ormai l'interesse di tutti è concentrato altrove, alla battaglia di Vittorio Veneto iniziata il 24 ottobre con l'avanzata delle truppe italiane che porterà alla vittoria. Anche don Bonvicini dal suo piccolo osservatorio non parla più della moderna pestilenza. Ne fa solo un accenno qualche giorno dopo, in occasione della festa di Sant'Omobono, quando si accorge di non avere a disposizione cantori ed organista. Ma ormai il peggio è alle spalle.

“13 novembre. Già aveva fatto conoscere la mia intenzione, ma in questo giorno è venuto il sole dopo tanti giorni piovosi. Tutti avevano il melicotto sull'aia già guasto per le lunghe piogge e tutti sono corsi per far asciugare il frutto delle loro fatiche di tutta l'estate, ma conoscevano che era andato alla malora. In paese quattro canterine erano ammalate della così detta spagnola ed obbligate al letto; il maestro Paderneschi Vittorio è stato colto da questo male e quindi non poteva venire a suonare l'organo. Venute le 10 vado fuori con la messa, 7 o 8 donne soltanto. Cosa doveva fare? Ho dovuto dir messa bassa”.