martedì 5 novembre 2019

Gl ultimi giorni della marchesa Carla Medici del Vascello

La marchesa Carla Medici del Vascello
al matrimonio della figlia di Farinacci nel 1938
Tutti conosciamo la tragica fine della marchesa Maria Carolina Soranzo Medici del Vascello, ultima proprietaria della villa di San Giovanni in Croce, morta per le conseguenze di uno scontro a fuoco durante la fuga di Roberto Farinacci da Cremona. Carolina, più nota come Carla, morì all'ospedale di Merate l'11 maggio 1945, dopo una lunga agonia. Ma nuovi documenti ed il racconto di quei giorni riportato dal giornalista Mario Mori, permettono di ricostruire le ultime ore della marchesa ed il ritratto di una donna che andò incontro al suo destino per amore. In realtà Carla, che di cognome faceva Mocenigo Soranzo, era già sposata con Francesco Medici del Vascello. Da tempo, però aveva abbandonato la villa di Palvareto, come allora si chiamava San Giovanni in Croce, ed era andata ad abitare in un appartamento in affitto in piazza Cavour a Cremona. Nei giorni che precedono il 25 aprile è molto nervosa: dà ordini concitati che poi contraddice, telefona ora all'uno ora all'altro, fa e disfa le valigie. Inizia a dubitare anche lei, come stanno facendo d'altronde tutti quelli che non hanno ancora abbandonato il ras, che le fantomatiche armi segrete tedesche di cui le ha parlato Farinacci, esistano davvero. Anche la granitica fiducia che aveva avuto sino a poche settimane prima nell'invincibilità della Germania di Hitler, vacilla paurosamente. Si rende conto di essere rimasta paurosamente sola: è malvista da gran parte dei suoi familiari che non le hanno mai perdonato le sue sfrontate esibizioni di fede politica nel fascismo, ed è detestata dalla popolazione di Palvareto e di Cremona per il suo contegno altezzoso, anche se, a dimostrare la sua vocazione filantropica, una volta all’anno, nel giorno di San Carlo in occasione dei festeggiamenti per il suo onomastico, offre cioccolata ai bambini dell’asilo.  Sempre a causa dei suoi modi autoritari si è circondata di antipatie anche nel ruolo di dirigente della G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio) prima e del Fascio femminile poi, al punto che le malelingue mettono in giro la storiella che la marchesa sia in realtà una spia degli inglesi, lei, che nei 45 giorni tra il 25 luglio del 1943 e l'8 settembre, era finita addirittura in carcere per le sua incondizionata fede nazifascista. E poi c'è il suo chiacchierato rapporto con Roberto Farinacci, confermato dal fatto che il ras di Cremona avesse scelto il castello di San Giovanni in Croce per realizzarvi il suo rifugio antiaereo. Farinacci se ne vantava, e più di una volta aveva cullato la segreta speranza che gli aerei della Raf concentrassero i loro sforzi su Cremona, per poter poi dire che, ritenendolo un grande stratega, non potendo colpire lui avevano ferito almeno la sua città.
La situazione sta precipitando: gli alleati, dopo aver sfondato l'ultima difesa tedesca, stanno per varcare il confine del Po. La marchesa capisce che ormai non c'è più nulla da fare e decide di fuggire. Ha dato ordine al proprio autista di tenere in garage un'auto pronta per la fuga ma quando, qualche ora dopo, è giunto il momento di partire, la macchina è sparita. A sottrarla è stato lo stesso Farinacci che, avuto sentore della fuga, ha deciso che la marchesa parta invece insieme a lui, ed ha fatto nascondere l'auto in un luogo segreto che solo lui conosce. La marchesa apprende il fatto con filosofia e, con una certa tranquillità, fa buon viso a cattiva sorte. Il giorno dopo, però, è radio Londra ad annunciare che la fine del regime è ormai prossima. Carla non può più aspettare, la città è percorsa in lungo e in largo da motociclette e automezzi tedeschi e fascisti, spesso mascherati con fronde d'albero, e i resti del 51° Corpo d'armata tedesco hanno iniziato ad attraversare il Po in ritirata. Decide nuovamente di organizzare la fuga, da sola. Incarica l'autista di approntare una nuova macchina ma, quando questo si reca nell'autorimessa, trova ad attenderlo Mario Maestrelli, caposquadra della GNR, che verrà giustiziato pochi giorni dopo, il 1 maggio, alla Caserma del Diavolo. Imbraccia un mitra e glielo punta contro, intimandogli di recarsi alla propria abitazione, caricare in auto i suoi familiari e portarli immediatamente in salvo altrove. La marchesa incassa anche questo colpo. Ormai è rassegnata alla sua sorte e capisce che non può far nulla per evitarla. E ad una persona amica confida: “Va bene, partirò con Farinacci. Del resto sono tanto contenta di poter rimanere finalmente sola con lui”.
Arriva il giorno della partenza. E' il 26 aprile, fa freddo e c'è nebbia. E' quasi mezzogiorno. Farinacci ha appena lasciato la sede del “Regime fascista” dove, in tipografia, ha incontrato tutti gli operai: “Io parto – ha detto – Vi affido uno stabilimento in piena efficienza. Sappiatelo conservare perchè è da questa azienda che voi traete il vostro pane. Arrivederci fra due mesi!”. Nel corridoio ha salutato i redattori chiedendo chi volesse seguirlo. Solo in tre hanno risposto all'appello: il capo redattore Mario Mangani, il suo segretario personale Emanuele Tornaghi e, di malavoglia e solo perchè costretto, Angelo Ferdinando Sampietro. Sceso in piazza, in quel momento abbastanza affollata, Farinacci incontra Vittorio Dotti, segretario del partito repubblicano che, dopo l'8 settembre, era stato l'unico a scrivergli una lettera piena di sdegno, pubblicata sul quotidiano, e poi ripresa da giornali svizzeri, inglesi ed americani. Gli fa con la mano un gesto di saluto, “Auguri, io rimango”, risponde Dotti.
Davanti all'hotel Impero sono pronte tre auto berline nere. Sulla prima prendono posto i tre giornalisti Mangani, Sampietro, Tornaghi e l'autista della Questura Antonio Danielis. Sulla seconda, una grossa Bianchi, il maresciallo della Questura Campoccia, il milite della GNR Luigi Soldi, l'ex partigiano Rino Puerari e la GNR Nello Ceolin con il figlio sedicenne. Sulla terza, infine, una Lancia Aprilia, salgono Farinacci, che si mette al volante, la marchesa Medici al suo fianco, e una donna dai capelli neri, di cui non si è mai saputa l'identità e di cui si sono perse le tracce, forse perchè scesa in qualche sosta intermedia effettuata durante il viaggio. Il mesto corteo, preceduto da una motocicletta con sidecar guidata dal maresciallo della GNR Martinenghi, con a bordo i militi Bergamaschi e Sartori, si avvìa lungo corso Campi e Garibaldi, arriva a piazza Risorgimento e imbocca la statale per Bergamo. A Soncino viene raggiunto da altri cremonesi, da alcuni militi della brigata nera “Gentile” e della GNR di Reggio Emilia e da una colonna tedesca. Il viaggio prosegue tranquillo sino a Seriate, dove il convoglio viene intercettato da una trentina di partigiani della Brigata 56ª Garibaldi che ingaggia un combattimento, ma ha la peggio e lascia sul campo sette uomini, altri quattro sono feriti ed il resto vengono fatti prigionieri ed utilizzati come ostaggi, posti in piedi sulle auto per impedire altri attacchi. La colonna arriva a Bergamo dove il comandante tedesco raggiunge un accordo con i partigiani che presidiano le porte della città, gli ostaggi vengono rilasciati ed il gruppo ottiene in cambio un lasciapassare per l'intera provincia di Bergamo. I partigiani, però, riconoscono Farinacci, ma non possono venire meno agli accordi appena sottoscritti per tutti i componenti del gruppo in fuga. Si limitano, dunque, a lanciare un avvertimento: “Siano attenti, perchè al di là dell'Adda c'è una intera divisione partigiana armata di tutto punto e munita di autoblinde. Il nostro lasciapassare, ha valore sino all'Adda, dopo non più...”. Si tratta, evidentemente, di un tranello, ma Farinacci non se ne avvede e decide di proseguire la strada con la colonna tedesca. Con questa pernotta in una località vicino all'Adda e la mattina del 27 aprile, quando i tedeschi decidono di passare l'Adda a Brivio e puntare verso Lecco, Farinacci decide di abbandonare la colonna tedesca dirigendosi verso il milanese, a Oreno. Ma è in corso una battaglia tra i partigiani della 104ª Brigata Garibaldi Citterio ed una colonna fascista proveniente da Bergamo composta da circa una sessantina di mezzi, e presso Rovagnate la prima macchina del convoglio viene intercettata e fermata. Farinacci con la sua segue qualche centinaio di metri più indietro, si accorge di quanto sta accadendo e capisce che, se verrà fermato, sarà facilmente riconosciuto, per cui ordina all'autista, un agente di Ps che da tempo lavora per lui, di fare immediatamente inversione di marcia, prendendo la strada per Lecco che conduce al passo dello Stelvio. Ma la sua manovra non passa inosservata, perchè i partigiani erano stati avvertiti telefonicamente da quelli del primo posto di blocco chi trasportava quell'auto. Mentre gli occupanti della Bianchi vengono catturati, l'Aprilia nera forza un posto di blocco, subito inseguita da un gruppo di cinque partigiani del distaccamento di Merate che sparano alcuni colpi in aria, prima di mirare risolutamente all'auto che, crivellata di colpi, sbanda paurosamente prima di arrestarsi davanti allo stabilimento Rovetti di Beverate. L'autista resta ucciso sul colpo, mentre Farinacci, protetto dalla selva di bagagli e valigie che aveva fatto caricare sul retro dell'auto, è incolume, spalanca una portiera, balza a terra e si rifugia in una villa vicino, dove i partigiani, armi in pugno, lo catturano.
La marchesa Carla Medici del Vascello è stata colpita da un proiettile alla testa. Le sue condizioni appaiono subito disperate ed è lo stesso partigiano che ha sparato i colpi contro l'auto, Angelo Gerosa, a soccorrerla per poi trasportarla, qualche ora dopo, all'ospedale di Merate. Viene registrata alla pagina 393 con il nome di Medici Carla, fu Tommaso, da Palvareto (Cremona) di anni 49. Carla è in coma, paralizzata in tutta la parte destra del corpo ed ha perso l'uso della parola. Resta immobile nel letto d'ospedale e solo un flebile lamento le esce ogni tanto dalle labbra. Solo molti giorni dopo, quando le sue condizioni sembrano migliorare, chiede di poter scrivere, con una grafia quasi illeggibile, poche righe con una matita su un pezzo di carta: “Avvertite mio marito che è in Isvizzera e la mamma che Lily muore”.

Villa Medici del Vascello a San Giovanni in Croce
Il 28 aprile la radio dà la notizia del ferimento della marchesa e del suo ricovero nell'ospedale di Merate. A Palvareto tutti ne parlano, ma la più colpita è una popolana che per molti anni aveva prestato servizio come domestica alla villa Medici del Vascello. La marchesa, che negli ultimi tempi si era mostrata più nervosa ed irascibile del solito, aveva avuto con lei una serie di screzi ed infine l'aveva licenziata. Ma alla notizia del grave ferimento la donna sussulta. Mentre nel resto del paese la gente non se ne preoccupa, lei prende la decisione: andrà a Merate ad accudire la sua padrona. Parte a piedi, perchè non ha altri mezzi e non può dire dove va, per paura di essere tacciata di collaborazionismo. Ogni tanto trova un passaggio su una delle poche auto in circolazione e su qualche carro. Il viaggio dura quattro giorni. Quando arriva regna la più grande confusione: le strade sono percorse da uomini armati, mezzi militari vanno e vengono, ovunque sono ancora le tracce dei furiosi combattimenti nella battaglia della Brianza. La donna è spaventata e non sa a chi rivolgersi. E' in preda alla paura che qualcuno le chieda chi sia, dove vada, chi cerca. Poi ha un'idea: bussa alla porta dell'ospedale e chiede della madre superiora. Le confida il motivo del suo viaggio e della sua paura di essere scoperta a portare assistenza alla ex segretaria del fascio femminile di Cremona. Anche la suora è incerta sul da farsi, non è in grado di valutare quale potrebbe essere la reazione dei partigiani se ne venissero a conoscenza. Poi, però, trova la soluzione: procura una divisa da infermiera e gliela fa indossare in modo tale che, così vestita e sotto la protezione delle suore stesse, possa circolare liberamente nell'ospedale e visitare i degenti che desidera. E la donna resta al capezzale della marchesa giorno e notte, attendendo con trepidazione l'esito delle cure. Il chirurgo tenta, in extremis, un'operazione, che sembra riuscire fino a quando non subentrano le complicazioni di una polmonite. E' l'11 maggio, e la madre superiora assicura la donna che la marchesa “è morta bene”, con i conforti religiosi, nonostante una vita condotta all'ombra del “più fascista”. La domestica veglia la salma, la compone in un umile feretro ed è l'unica ad accompagnarla nell'ultimo viaggio nel cimitero di Vimercate dove, in fondo nell'angolo sinistro, è pronta la fossa. Vi viene posta sopra una modesta pietra su cui è inciso solo “Lily Soranzo”. Poi la dona torna, così come era venuta, a Palvareto. Nessuno saprà mai il suo nome.