martedì 24 novembre 2015

Quando Cremona sognava in grande, 11 aprile 1965


Memorabile quella giornata dell’11 aprile del 1965: due ministri per l’inaugurazione di due grandi opere, l’ospedale Maggiore e la Centrale del Latte. Una terza rimasta nel cassetto: l’aeroporto Stradivari ed un’altra che si sarebbe realizzata solo qualche anno più tardi: l’autostrada Torino-Piacenza-Brescia.
Era il sogno della grande Cremona che prendeva corpo.
Qualche anno prima, il 2 ottobre 1960, il presidente Gronchi aveva simbolicamente scoperto il cippo che segnava l’inizio dei lavori per la realizzazione del porto fluviale. Cinquant’anni dopo solo l’Ospedale Maggiore è rimasto, e non è mai stato definito il destino di quello vecchio, la Centrale del Latte è diventata poi una discoteca, cioè che resta del sogno dell’aeroporto “Stradivari” è stato venduto a poco più di un milione di euro e il porto langue.
Ma allora l’entusiasmo era alle stelle. In un primo momento sembrò che i ministri destinati al rendez-vous cremonese fossero addirittura tre: il ministro Giacomo Mancini, quello per i rapporti con il Parlamento Giovanni Battista Scaglia e dell’agricoltura Mario Ferrari Aggradi.
Venne Scaglia accompagnato dal ministro alla sanità Luigi Mariotti, ma fu un giorno indimenticabile e irripetibile. Di cui non era sfuggita l’importanza: “Questo ci sembra essere il momento buono per lo sblocco di talune situazioni di disagio che da tanto tempo andiamo denunciando – scriveva il giornale “La Provincia” - che si dica una volta per tutte che Cremona non deve ancora restare il ‘Meridione della Lombardia’ e che devono anzi essere risolte tutte le pregiudiziali per una rinascita che proprio dagli organi centrali della burocrazia statale deve avere l’avvio ed il consenso”. 
La posa della prima pietra dell'Ospedale
Un gruppo di mattoni dell’antico ospedale di San Facio è stato posto nelle fondamenta del nuovo nosocomio sorto in via Giuseppina. Nel grandissimo cantiere era stato deposto il plastico che raffigurava il progetto ed il momento veniva definito “storico”.
A ricevere quella mattina i due ministri il presidente del consiglio di amministrazione degli Istituti Ospedalieri Emilio Priori.
Priori aveva fatto presente le difficoltà della realizzazione: se ne era iniziato a parlare ottant’anni prima, nel 1883, qundo risultò chiaro il problema di ampliare e ricostruire il vecchio ospedale di Santa Maria della Pietà, ma le varie fasi di riforma del vecchio stabile si erano concluse solo due anni prima, il 9 maggio 1963, quando il consiglio di amministrazione aveva approvato il progetto esecutivo e l’8 giugno del 1964 aveva consegnato i lavori all’impresa che avrebbe realizzato il primo lotto.
In un primo tempo non venne presa in considerazione l’ipotesi di utilizzare una parte del patrimonio dell’ente, ma poi, essendosi ridotti gli oneri dell’assistenza sanitaria a carico del Comune, poteva “essere preso in considerazione il ricorso al patrimonio o meglio una trasformazione del patrimonio stesso che da capitale scarsamente fruttifero si sarebbe trasformato in un patrimonio tanto cospicuo nella sostanza quanto estremamente necessario nella forma: il complesso del nuovo ospedale generale”. Poi aveva accennato al fatto che il piano di finanziamento era stato superato dall’aumento dei costi, per cui era era stato revisionato e aggiornato, ecco perchè si chiedeva alle autorità centrali di venire incontro alle difficoltà con un aiuto che doveva essere “diluito nel tempo, per il rimborso, e con tasso minimo di interesse o addirittura senza interessi” per venire incontro “alle difficoltà che si sono create, ponendo in dubbio la possibilità dell’Ente per una completa copertura della spesa, contrariamente alla ritenuta sufficienza di ieri”.
Sul cantiere del nuovo ospedale

Il ministro Mariotti, da parte sua, aveva assicurato l’interesse del governo: “L’impegno del Governo è pesante e grave, ma non si mancherà di passare dalla fase caritativa, che ha luminose tradizioni che continueranno, all’obbligo dello Stato”.
La gigantesca gru prese allora la prima pietra e la collocò nel punto prestabilito, “cioè subito oltre quello che sarà il grande atrio al piano di sotto del primo tratto del corpo intermedio”. Il cantiere del nuovo ospedale dovette suscitare grande impressione: “L’opera è veramente grandiosa e per capirne la portata basterà recarsi nell’area che gli stessi istituti hanno acquistato nei pressi di S. Sigismondo. Siamo ancora al primo lotto, per complessivi tre miliardi, ma l’imponenza dei lavori di fondazione, le opere in calcestruzzo già effettuate danno, anche al profano, una esatta idea della maestosità dell’edificio che sorgerà fra quattro anni. Un edificio modernamente concepito a forma di ‘x’, immerso in un grandissimo parco e in amene zone a verde che sono già state create per cui al momento del funzionamento dell’Ospedale, le piante potranno già dare ombra. L’Ospedale sorgerà su oltre 290 mila metri quadrati, con 1.250 posti letto. Sarà il più moderno d’Italia continuando così l’opera veramente benemerita della stessa comunità cremonese che volle, verso la metà del XV secolo, riunire in un unico organismo, tanti piccoli enti ospedalieri che adempivano, in misura frammentaria, alla loro funzione. Così nel 1452 l’ospedale ha potuto, grazie alla generosità dei cittadini, subire notevolissimi ampliamenti. Oggi l’opera è quindi il coronamento di secolari attività benefiche”.

Con altrettanto entusiasmo venne inaugurata lo stesso giorno la Centrale del Latte. Nel 2006 il marchio “Centrale del Latte Cremona” è stato ceduto in uso per la durata di quindici anni alla Società Agricola Cooperativa “Latte Cremona” in qualità di capo-gruppo di un raggruppamento temporaneo d’impresa costituito da cooperative del settore, (Latte Cremona soc. coop., capo gruppo, Latteria di Soresina soc. coop., Latteria P.L.A.C. soc. coop., Latteria di Piadina soc. coop., Latteria Ca’ de’ Stefani soc. coop., e Latteria Ca’ de’ Corti soc. coop.) dietro versamento di un corrispettivo pari al 5,3 % dell’utile annuo di bilancio, realizzato attraverso la commercializzazione dei prodotti a marchio “Centrale del Latte Cremona”, che non dovrà comunque essere inferiore a 50.000 all’anno per un importo complessivo presunto pari a 750.000 euro.
Una corsia del vecchio ospedale di S. Maria della Pietà

La solenne inaugurazione era stata preceduta da un convegno nel salone dei quadri del palazzo comunale con la presenza di Carlo Alberto Ragazzi, presidente dell’associazione nazionale ufficiali sanitari d’Italia, die due ministri Scaglia a Mariotti, dell’avvocato Ghisalberti, presidente della Provincia, accompagnati dal vice presidente del senato Zelioli Lanzini e dai due parlamentari cremonesi Lombardi e Zanibelli. Era stato l’assessore Berto Rossi a spiegare le motivazioni che avevano indotto il Comune a decidere nel 1961 di approvvigionarsi di latte indenne da Tbc fornito dal Consorzio produttori latte alimentare danno avvio al progetto per la realizzazione della nuova centrale. Quella di largo Paolo Sarpi, infatti, risalente al 1929, a causa della vetustà degli impianti non offriva più garanzie di sicurezza. Così nel 1963 si era studiata una nuova soluzione sulla base del progetto predisposto dal capo dell’ufficio tecnico del Comune, l’ingegnere Giovanni Marcatelli, e dal capo della sezione edilizia urbanistica, l’architetto Mino Galetti. Era stato il professor Ragazzi a spiegare i grandi vantaggi ottenuti con la pastorizzazione del latte e la meccanizzazione del processo di mungitura. “A Cremona – scriveva il giornale “la Provincia” - tutto questo è un fatto concreto anche perchè alla Centrale si lavorerà, quanto prima, anche il latte omogenizzato e la panna, consentendo, attraverso i contenitori a perdere, di conservare il prodotto perfettamente identico all’origine per una settimana. Basterà, infatti, tenerlo nei comuni frigoriferi casalinghi. Ma Cremona ha anche risolto un altro problema: quello della distribuzione capillare del latte. Ha spiegato la funzione nutritiva di questo alimento ritenendo, quello di Cremona, il sistema più idoneo con distributori automatici che consentono la distribuzione continuativa nelle 24 ore”. Di stringente attualità le parole di Desiderio Nai, docente della facoltà di veterinaria dell’Università di Milano: “Oggi, purtroppo, il produttore di latte, non soltanto del cremonese, è remunerato allo stesso modo, sia che presenti latte al titolo di grasso del 3 per cento e sia che lo presenti al 4 per cento, sia che produca latte sano che latte non sano, sia che osservi le più scrupolose norme igieniche o non se ne curi affatto E’ necessaria una differenziazione di prezzo perchè non è giusto che il produttore che sostene un onere così pesante per ottenere un latte genuino sia messo alla pari di quello che non si preoccupa affatto di questa purezza...Essi si preoccupano solo di tenere il prezzo basso e non di fornire viceversa una materia prima che sia migliore, in sintesi cioè più ricca di calorie e valore nutritivo. Perciò anche se il latte deve costare al consumo di più non ha importanza purchè si dia un prodotto che vale di più. I produttori di latte fanno grandi sacrifici che devono essere giustamente compensati. E’ giusto che si devono allontanare dalle stalle tutte le bestie malate, ma è altrettanto giusto che gli uomini di Governo assicurino al produttore un vantaggio economico proporzionato al prodotto che viene offerto anche nel settore industriale”. 
Una vecchia ambulanza
“E’ fuori discussione – aveva aggiunto il ministro Mariotti - che quest’opera è stata condotta capillarmente preoccupandosi anche della sanità degli ambienti, dei processi produttivi utilizzando l’opera dei medici e dei veterinari provinciali ai quali deve andare il riconoscimento del Ministero”. Così descriveva la Centrale del Latte l’articolista del giornale: “Lo stabilimento sorge in una altura ricavata artificialmente sulla sinistra di via S. Quirico. Esso è circondato da giardini e da piante che conferiscono all’insieme un tono allegro e piacevole. Sullo spiazzo antistante lo stabilimento”. Durante la visita il sindaco Vincenzo Vernaschi non aveva mancato di sottolineare gli sforzi compiuti dall’amministrazione negli ultimi anni “e la volontà degli amministratori di dare alla città quelle realizzazioni che consentano l’impostazione di un miglioramento economico della Provincia. Le attese per altri lavori, già impostati dall’amministrazione, sono state esposte anche all’on. Moro il quale ha assicurato il suo intervento presso gli organi competenti ed ha, infine, ricordato la questione delle caserme, la circonvallazione, il mercato bestiame, il porto di Cremona e il canale navigabile Milano-Cremona-Po”.
Il plastico del nuovo ospedale

Negli anni ‘60 il Comune di Cremona, per valorizzare, promuovere e distribuire su scala industriale uno dei più importanti ed apprezzati prodotti della zootecnia cremonese, assunse, a suo totale carico, l’iniziativa di attivare, nella sede di Via Nazario Sauro, uno stabilimento di produzione del latte. Inizialmente la Centrale del latte di Cremona era gestita direttamente dal Comune, in economia, avvalendosi di proprio personale. Grazie ad un’attenta ed oculata gestione aziendale, il latte prodotto dalla centrale riusciva, in poco tempo, a raggiungere una posizione di indiscusso primato sul mercato, nell’ambito del bacino di commercializzazione del prodotto, ovvero all’interno del territorio della Provincia di Cremona. Nel marzo 1986, per meglio tutelare il prodotto, alla luce anche di alcuni tentativi di imitazione che erano stati posti in essere dalla concorrenza, si provvide al deposito e alla registrazione del marchio “Centrale del latte Cremona”, che, da quel momento, avrebbe contraddistinto ufficialmente il prodotto, costituendo ancor oggi per i consumatori un sinonimo di sicura qualità. Nel 1987, dopo anni di attivo, si registrò una temporanea flessione delle vendite, a causa della crisi generale del mercato dei prodotti dell’agricoltura, seguita all’esplosione della centrale di Chernobyl. Il Comune di Cremona, tenuto conto che il servizio era diventato eccessivamente oneroso per il bilancio dell’ente pubblico, decise così di esternalizzarlo. A seguito di procedura di evidenza pubblica, venne quindi aggiudicata ad una società cooperativa del settore la concessione del servizio, con l’uso del relativo marchio, per un periodo di venti anni, con decorrenza 1° gennaio 1998, mentre il personale comunale che era addetto alla centrale del latte venne reimpiegato in altri servizi dell’Ente, salvaguardando i livelli occupazionali. Nel 1994, la concessione venne poi limitata all’uso del marchio, mentre lo stabilimento produttivo fu definitivamente dimesso. Infine, nel giugno 2005, il Comune, a fronte del mancato pagamento, da parte del concessionario, dei canoni dovuti, risolse il contratto, a far tempo dal 31 dicembre 2005, della concessione d’uso del marchio di proprietà comunale “Centrale del Latte Cremona” rilasciata alla Giglio S.p.A., rientrando così anticipatamente nella disponibilità del marchio, con il preciso obiettivo di rilanciarlo e renderlo ancor più competitivo. Venne quindi indetta una nuova gara pubblica per la concessione temporanea, e in via esclusiva, del marchio “Centrale del latte Cremona”, riservata alle imprese del settore, ponendo severi requisiti per la partecipazione, e precisi vincoli per il concessionario, a tutela della qualità e della produzione locale.

lunedì 23 novembre 2015

Si fa presto a dire polenta


Questo grano è molto migliore et più nutritivo che non è il miglio, et rende più farina che non fa il formento. Et è buono e saporoso pane, o semplice, o misturato, et composto con formento fa perfetto biscotto, fa bonissima polenta, et infine si gode in qualunque modo si voglia”.
E’ il 1556 quando il nobile cremonese Giovanni Lamo in una lettera al Granduca di Toscana, offrendogli una partita di semi di mais perchè potesse iniziarne la coltivazione nei territori medicei, parla per la prima volta della possibilità di realizzare la polenta e dimostra come il nostro cereale fosse più diffuso nelle nostre zone di quanto possano documentare le testimonianze storiche.
Lamo è in assoluto il primo che consiglia di utilizzare il mais per fare la polenta, sfatando un luogo comune. Nell’Italia del primo ‘500 il mais era conosciuto tra i letterati e botanici, soltanto però come specie coltivata negli orti o nei giardini di facoltosi interessati a specie esotiche.
Prima prova della coltivazione del mais in Italia a scopo alimentare ci viene data da Giambattista Ramusio, tramite una pubblicazione risalente al 1554, dove descrive il recente tentativo sperimentale della coltivazione di mais, precisamente di due varietà, una a pigmentazione bianca e una a pigmentazione rossa, nel Polesine di Rovigo e a Villabona (attualmente Villa d’Adige), Verona, Veneto.
La pianta di mais in un'antica incisione

“La mirabile et famosa semenza detta mahiz ne l’Indie occidentali, della quale si nutrisce metà del mondo, i Portoghesi la chiamano miglio zaburro, del qual n’è venuto già in Italia di colore bianco et rosso, et sopra il Polesene de Rhoigo et Villa bona seminano i campi intieri de ambedue i colori”.
Lungo le terre bagnate dal Po il mais venne introdotto semplicemente come sostituto del sorgo, a cui somigliava sia per la forma degli steli, che per la predilezione per i luoghi umidi, per i tempi e le tecniche di semina, sarchiatura e raccolta.
Ed accanto al sorgo, il miglio, che però, insieme al precedente era ritenuto dai proprietari una coltura che impoveriva il terreno e quindi da tenere sotto controllo. Miglio e sorgo erano generalmente utilizzati per l’alimentazione del bestiame da cortile, maiali e colombi, tuttavia in tempi di carestia non è raro che sia sorgo che miglio venissero impiegati anche nell’alimentazione umana.
Il bolognese Pier Crescenzi, che scrive nel 1564, conferma che il sorgo era adatto per l’alimentazione di porci, buoi e cavalli, ma anche per gli uomini in particolari necessità. Se il pane ottenuto macinando questi due cereali era ritenuto quanto di più miserabile esistesse per l’alimentazione umana, non così era per le polente, o meglio polentazze, come erano chiamate. Ed anche questo fu un elemento che favorì la sostituzione alimentare del mais al miglio.
L’uso delle farine di granoturco per fare polenta rappresentava per le popolazioni contadine l’impiego più pratico e conveniente, oltre che il più indicato, e così, come nei campi, il mais finì per sostituire il miglio come ingrediente base per la polenta, cibo, come vedremo, antichissimo per le popolazioni europee.
La polenta di miglio e di altri cereali, fino all’arrivo del mais, era cibo comune e quotidiano soprattutto fra pastori, mandriani, taglialegna e carbonai, categorie di lavoratori molto misere ma soprattutto caratterizzate dal fatto di risiedere in ricoveri precari, che cambiavano in continuazione e dunque non adatti all’attività di panificazione.
La polenta, dunque, era innanzi tutto un sistema molto semplice e rapido di preparazione dei cereali per l’alimentazione.
Nel XVI secolo, secondo quanto afferma l’agronomo padovano Giorgio Dalla Torre, i contadini padovani avevano ormai abbandonato la tradizionale polenta di miglio a favore di un’altra polenta di mais “quae laevissimo labore et brevi tempore confecta”.
In secondo luogo bisogna anche ricordare che il mais, così come il miglio e il sorgo, fornisce un pane di cattiva qualità e tutti i tentativi fatti dalle amministrazioni annonarie per impiegare il mais per la fabbricazione del pane per la popolazione più misera avevano dati scarsi risultati, essendo la farina di mais molto incoerente, tanto che occorreva aggiungere all’impasto farina di frumento o di segale.
Come tutti sanno l’introduzione del mais in Europa è dovuta a Cristoforo Colombo. Fin dai suoi primi viaggi esplorativi, esattamente sull’isola di Cuba il 6 novembre 1492, Colombo conobbe il mais chiamato dagli indigeni dell’isola “Mahiz” e ne riconobbe subito il ruolo primario nella coltura locale. Al suo rientro in Spagna, nel 1493, Colombo portò con sé oltre a beni preziosi (oro, ambra, ecc.) il mais, come riportato nello scritto Vita di Cristoforo Colombo attribuibile a Ferdinando suo figlio. La nuova specie attirò da subito l’attenzione in Castiglia, dove si tentò la sua coltivazione, ma probabilmente le prime coltivazioni non ebbero grande successo, non riuscendo a portare a termine il ciclo di maturazione della spiga e quindi della granella. Questo fatto probabilmente fu dovuto all’origine dei campioni di mais giunti nel vecchio mondo, provenienti da isole tropicali, dove la specie è ben adattata a fotoperiodi lunghi, al contrario dell’areale Iberico e più in generale quello europeo caratterizzato da fotoperiodo più breve, nei quali il ciclo biologico del mais o di altre specie importate non poteva essere completato. L’impossibilità di portare a termine il ciclo biologico rallenterà l’utilizzo agrario del mais in Europa, ma non la sua scoperta: di fatto compare già negli anni successivi in Portogallo sotto il regno di Re Giovanni II (1481-1495), e si suppone che fosse stato proprio lo stesso Colombo a farlo conoscere ai Portoghesi.

Il mais, come conferma anche il Lamo, è legata la polenta. Ed è ancora un cremonese, Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, che ne parla nel 1480, trascrivendo in latino tutte le ricette, originariamente scritte in lingua volgare, di maestro Martino, il più celebre cuoco della fine del Medioevo.
Il Platina ribattezza con il termine “polenta” “sive ut vulgo miliacium” un migliaccio, volendo indicare sia un cereale sfarinato, sia la pappa che con lo stesso cereale si preparava con procedure diverse da quelle indicate per i migliacci.
Secondo lo stesso Plinio, la polenta non è altro che una mistura di 20 libbre d’orzo, 3 libbre di semi di lino, mezza libbra di semi di coriandolo e un acetabolo di sale. Il tutto poi viene abbrustolito e macinato piuttosto grossolanamente, secondo il gusto dei Greci, o finemente, come preferiscono le popolazioni italiche.
“Polenta” è infatti il nome con cui gli antichi Romani hanno ribattezzato un piatto introdotto dalla Grecia che lo chiamava chòndros e indicava sia l’ingrediente di base (ossia la farina di orzo abbrustolita), sia la farinata che se ne otteneva. Nicandro di Colofone (II sec. a.C.) prescriveva di cuocere il cruschello tostato nel brodo con l’olio, facendolo ben gonfiare, e di servirlo con carni d’agnello, di capretto o di pollo, secondo quanto riporta Ateneo di Naucrati.
Il chòndros si consumava spesso crudo, diluito con acqua o anche con sapa, vino dolce o vino mielato; Galeno ne consigliava l’assunzione specialmente d’estate come bevanda dissetante e nelle Metamorfosi di Ovidio (V, 449-450) troviamo che Proserpina, assetata, beve una bevanda dolce, offertale da un’anziana donna, preparata con polenta appena tostata.
La stessa attitudine a fare da sorbetto la ritroviamo nel savich degli arabi, il quale, secondo Ibn Butlan è farina d’orzo moderatamente torrefatta e il più possibile raffinata che si diluisce con acqua e si beve d’estate per rinfrescarsi. Secondo altri, in particolare Simone da Genova, il savich è da intendersi come orzo raccolto poco prima che maturi, leggermente torrefatto in pentole di bronzo o di terracotta, poi trebbiato dai residui di glume e cuticole e macinato grossolanamente.
Bartolomeo Sacchi nell'affresco di Melozzo da Forlì
Si tratta pertanto di un prodotto antico, fatto risalire al tempo di Alessandro Magno e molto diffuso nel Medio Oriente mediterraneo, in quanto cibo raccomandato ai viaggiatori e ai soldati. Citato in tutte le opere di medicina, compare abbastanza raramente nei ricettari di cucina e comunque non oltre il X secolo. Si può preparare sia con il frumento, sia con l’orzo, a seconda delle possibilità del consumatore. I grani venivano lavati, poi messi a macerare nell’acqua per una notte; poi venivano scolati e tostati. Una volta freddo, il savich veniva macinato e setacciato; solo così si poteva conservare per lungo tempo.
Come si è già detto il Platina, nella sua latinizzazione piuttosto libera del testo di Maestro Martino, usa il termine polenta per descrivere un migliaccio, riferendosi evidentemente ad un uso ormai consolidato di cucinare la polenta con il miglio.
Per il resto, polenta è una parola abbastanza ignorata dalla cucina dei ricettari, per quanto fosse presente in quella rustica, tanto da diventare simbolo di un regime alimentare coscientemente povero. L’ingrediente principale, prima dell’introduzione del mais, era il miglio.

Le polente, intese in senso generico, sono senza data, e le modalità di base della loro preparazione rimangano sostanzialmente le stesse: la cottura in acqua di cereali ridotti in polvere. Innanzi tutto il temine “polenta” non ha nessuna etimologia.
Conosciuta già dai Greci e dai Romani,  conserva nel suo nome la sua origine latina, puls. La polenta allora era fatta con il farro, una specie di riso dal chicco duro, ma non aveva la consistenza della polenta di mais. Si condiva con latte, formaggio, carne di agnello, maiale e salsa acida ed  era conosciuta in tutta l’area mediterranea. Famose sono le polentine tramandataci nelle ricette di Plinio e Apicio, vecchie più di due millenni. Ricette di polenta di castagne, di miglio e polente di spelta ci sono state lasciate da Maestro Martino da Como, cuoco del Patriarca di Aquileia (XV secolo). Nel De honesta voluptate et valetudine dello scrittore Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, alla fine del XV secolo,  ritroviamo la polenta di farro.
Il banchetto nuziale, di Pieter Brueghel il Vecchio

I legionari romani portavano con sé un sacchetto di farina di farro che cucinavano sotto forma di polenta. Oggi quando parliamo di polenta intendiamo un impasto di farina di mais. Ed anche per questo nuovo cibo dobbiamo ringraziare Cristoforo Colombo che, al ritorno dal primo viaggio nel Nuovo Continente, portò con se alcuni semi di una pianta chiamata mahiz (grani d’oro, dal nome indigeno deriva anche il nome botanico della pianta, Zea mays). Alcuni reperti paleobotanici hanno permesso di stabilire che il mais veniva coltivato da almeno 3000 anni in varietà simili a quelle contemporanee ed era sicuramente conosciuto da Maya e Aztechi.Le prime coltivazioni si diffusero in Europa trent’anni dopo la scoperta dell’America, in Andalusia introdotte dagli Arabi che lo impiegavano come foraggio; verso il 1520 la coltivazione si diffonde in Portogallo, di seguito in Francia e nell’Italia del Nord. Tra il 1530 ed il 1540 arriva a Venezia. Inizialmente veniva coltivato a scopo di studio in orti e giardini di appassionati botanici, ma la prima regione italiana a coltivarlo in campi veri e propri fu il Veneto, dove venne introdotto prima del 1550, secondo quanto afferma  Ramusio, storiografo e geografo al servizio della  Serenissima.Dal Veneto, il mais si diffuse in Friuli, dove la sua presenza e’ documentata dal 1580, quindi nel bergamasco. A Milano, una grida del 1649 dispone l’apertura del mercato alla vendita del mais per contrastare la penuria di altri grani. Da qui ha proseguito verso l’attuale Ungheria del Sud e la penisola Balcanica.I veneziani lo trasportarono nel vicino oriente durante i loro viaggi, mentre gli spagnoli contribuirono alla diffusione del bacino del Mediterraneo ed in Asia; i portoghesi lo introdussero in Africa. Il mais venne chiamato grano turco per indicare la sua origine straniera, infatti con il termine turco nel XVI secolo si identificava tutto ciò che aveva origini coloniali. In Piemonte si diffuse a metà del ‘700 e da subito andò ad occupare un posto di rilievo nella cucina locale.
Dopo aver incuriosito i raffinati palati del signori dell’epoca, la polenta fu presto bandita e divenne il cibo della dieta delle classi meno abbienti. All’inizio dell’Ottocento, periodo di guerre e carestie, fu il piatto più consumato dai contadini, spesso del tutto scondito, perché costava meno del pane e riempiva la pancia. Ma era un cibo povero carente in principi nutritivi, soprattutto di vitamine e fu la causa del diffondersi della pellagra, che divenne in breve una piaga sociale. Tale patologia comparve per la prima volta in una monografia italiana del 1771 che ne descriveva la diffusione proprio fra i mezzadri che vivevano di polenta. La malattia non era conosciuta dagli indigeni d’America perchè usavano trattare il cereale con sostanze alcaline.

Agosto 1935, il primo grande film su Stradivari


Era il novembre del 1936 quando, in previsione delle celebrazioni del bicentenario stradivariano che si sarebbero tenute l’anno successivo, il comitato che si era appositamente costituito, tra le altre iniziative, proposte anche l’idea di realizzare un film su Antonio Stradivari, che si sarebbe dovuto girare interamente tra le vie di Cremona. La proposta fu fatta propria anche dall’Ente provinciale del Turismo, appena costituito sotto la presidenza di Tullo Bellomi. Se ne discusse nell’ultima seduta di quell’anno, ma poi non se ne fece nulla.
L’idea, tuttavia, non era per nulla originale. I cremonesi erano stati bruciati sul tempo dai tedeschi che, il 25 agosto 1935, avevano distribuito nelle sale cinematografiche “Stradivari” il primo film dedicato al grande liutaio, affidato al regista Géza von Bolvàry, con un cast che annoverava i migliori attori del momento. Una produzione franco-tedesca realizzata con grande dispendio di mezzi, cui seguì in ottobre, la versione francese intitolata “Stradivarius”.
Ottant’anni fa, dunque, venne realizzato il primo vero film, di oltre un’ora e mezza, con protagonista Stradivari ed i suoi violini, con una trama che, per alcuni versi, ricorda i contenuti del celebre “Violino rosso”, girato effettivamente nelle strade e nelle piazze di Cremona sessant’anni dopo, nel 1995, dal regista canadese François Girard.
Siamo nel 1914, poco prima della guerra mondiale, quando Sandor Teleky, un ufficiale austriaco, virtuoso del violino, viene in possesso per una eredità lasciata da uno zio di un prezioso strumento, che poi si scoprirà essere stato realizzato da Stradivari. Una leggenda vuole però che ogni possessore di quello strumento non riesca a conquistare la donna amata. L’ufficiale, innamoratosi di una musicista italiana non ricca, Maria Belloni, dà le dimissioni e accetta una scrittura in America per sposarla. Lo scoppio della guerra impedisce le loro nozze e divide i due fidanzati. Sandor torna al suo reggimento e non dà più notizie di sé per quattro anni. A Milano la giovane è corteggiata da un ufficiale medico, Pietro Rossi, che, ironia della sorte, è venuto in possesso del prezioso violino mentre cura l’ufficiale austriaco, raccolto gravemente ferito. Quando i due uomini si riconoscono innamorati della stessa fanciulla, l’ufficiale italiano, che ha la prova dell’affetto che la donna nutre per il suo primo fidanzato, si ritira lealmente ricongiungendo i due giovani. L’annuncio dell’armistizio pone fine alla tragedia bellica. Il film, prodotto da Fritz Fromm, fu distribuito dalla Boston Film di Berlino, ed ebbe un discreto successo grazie soprattutto al nome del regista ed al cast prestigioso.
Gustav Frölich nei panni di Sandor Teleky
Geza von Bolvary, regista ungherese naturalizzato austriaco, è stato particolarmente attivo in Germania e Ausria a partire dagli anni Venti. Dopo una carriera da giornalista freelance ed attore, ha lavorato come regista dapprima per la casa di produzione Star Film, dove conobbe l’attrice ungherese Ilona Mattyasovszky che sposò nel 1923. Successivamente, nel 1922, fu assunto con un contratto di quattro anni dall’Emelka, la futura Bavaria Film di Monaco. Trasferitosi a Berlino, venne messo sotto contratto dalla casa cinematografica tedesca Fellner & Somlo per la quale diresse dal 1926 al 1928. Abbandonò la compagnia tedesca per trasferirsi a Londra dove lavorò circa un anno per la casa cinematografica britannica Associated British Picture Corporation (BIP).
Nel 1930, diresse Due cuori a tempo di valzer, con Walter Janssen e Willi Forst, il suo primo lavoro apprezzato dalla critica e dal pubblico a livello internazionale. Con questo film, inaugurò un genere cinematografico che andò molto in voga tra gli anni trenta e gli anni quaranta, ovvero l’operetta musicale viennese di cui fu il principale rappresentante e per il quale si avvalse della collaborazione, oltre che del citato Forst, dello sceneggiatore Walter Reisch e del compositore Robert Stolz.
Tra il 1923 ed il 1933, si dedicò soprattutto alla direzione di pellicole del genere commedia leggera, scoprendo talenti come Zarah Leander, Hilde Krahl, e Ilse Werner.
Dopo aver rifiutato un’offerta da parte della Metro Goldwyn Mayer, tornò a Berlino dove lavorò fino al 1933 per la Superfilm Berlin e fino al 1935 per la Boston Films. Nel 1934 rappresentò alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia il suo paese d’origine con la pellicola Parata di primavera, che aveva come protagonisti Paul Hörbiger e Franciska Gaal. Trasferitosi a Vienna, Géza von Bolváry lavorò con numerose case di produzione cinematografica austriache, tra le quali la Styria-Film, la Terra-Film e la Wien-Film. Dopo la seconda guerra mondiale si trasferì a Roma dove lavorò per la Grandi Film Storici Cinopera fino al 1949. Nel 1948 ottenne la cittadinanza austriaca e si trasferì a Monaco di Baviera dove, a partire dal 1950, lavorò in qualità di produttore esecutivo della Starfilm, dirigendo numerosi film fino al 1958, anno della sua ultima pellicola. 
Sybille Schmitz e Gustav Frölich

Il film di von Bolvàry si basava su una sceneggiatura di Ernst Marischka, altro pezzo da novanta di quegli anni. Specializzato in commedie musicali e in operette, fratello di Hubert Marischka, è famoso soprattutto per aver diretto i tre film dedicati a Sissi, l’imperatrice d’Austria e regina di Ungheria, interpretati da Romy Schneider tra il 1955 e il 1958. Marischka scrisse i versi di Vergiß mein nicht, la versione tedesca della celeberrima Non ti scordar di me di Ernesto de Curtis. Ernst scrisse la sua prima scenaggiatura per Alexander Kolowrat, un pioniere del cinema austriaco che a Vienna aveva fondato una propria casa di produzione, la Sascha Film.: Der Millionenonkel, film diretto da suo fratello, era una grossa produzione spettacolare che gli aprì la strada del cinema. Passò presto anche dietro la macchina da presa e firmò il suo primo film da regista nel 1915. Nella sua carriera, diresse trentacinque film. Ma il suo lavoro principale restò per tutta la vita quello di scrittore: specialista nel genere brillante, scrisse numerosi romanzi e commedie musicali. Lavorò in Austria, Germania, Italia, Francia e anche per gli Stati Uniti. Hollywood riprese alcuni dei suoi soggetti e delle sue sceneggiature come L’eterna armonia, film biografico su Chopin diretto da Charles Vidor e Parata di primavera diretto da Henry Koster del 1940 e interpretato da Deanna Durbin.
Veit Harlan

La parte del protagonista, Antonio Stradivari, fu affidata ad uno dei più apprezzati attori del regime, Veit Harlan che, come regista, rappresentò una delle figure chiave della cinematografia tedesca del Terzo Reich: sue sono alcune tra le più importanti opere di sostegno al nazismo, come Jud Süss (1940; Süss l’ebreo), Der grosse König (1942; Il grande re), per cui vinse la Coppa Mussolini per il miglior film straniero alla Mostra del cinema di Venezia, e il colossale Kolberg (1945; La cittadella degli eroi). Figlio dello scrittore Walter Harlan, studiò recitazione con M. Reihnardt, debuttando in teatro a Berlino nel 1915 come attore e l’anno successivo come assistente alla regia. Dopo aver partecipato alla Prima guerra mondiale, cominciò a lavorare anche nel cinema, facendo la sua prima apparizione in Die Hose. Skandal in einer kleinen Residenz (1927) di Hans Behrendt. Partecipò quindi a numerosi film, rivelandosi buon caratterista in opere di ricostruzione storica a tema bellico come Der Choral von Leuthen (1933) di Carl Froelich, Arzen von Czerépy e Walter Supper, o in polizieschi come Taifun, noto anche come Polizeiakte 909 (1934) di Robert Wiene, e recitando nella parte del protagonista in Stradivari (1935) di Géza von Bolváry. Fu l’introduzione del sonoro, e dunque la possibilità del dialogo parlato, a favorire il suo tardivo esordio nella regia cinematografica che avvenne non casualmente con l’adattamento di una commedia, Krach im Hinterhaus (1935), che era stata da lui diretta a teatro. Prese il via così una prolifica carriera di autore, e spesso anche sceneggiatore, di film fondati soprattutto su grandi interpretazioni d’attore: l’adattamento da L.N. Tolstoj di Kreutzersonate (1937; La sonata a Kreutzer), interpretato dalla diva Lil Dagover; Der Herrscher (1937; Ingratitudine), nel quale primeggia la stella del muto Emil Jannings; e la lunga serie di film che ebbero come protagonista l’attrice Kristina Söderbaum (spesso in coppia con Frits van Dongen): il thriller storico-drammatico Verwehte Spuren (1938; La peste di Parigi); il melodramma Die Reise nach Tilsit (1939; Verso l’amore), ricalcato su Sunrise-A song of two humans (1926; Aurora) di Friedrich W. Murnau; Das unsterbliche Herz (1939; L’accusato di Norimberga), tratto da un testo del padre, storia melodrammatica in costume dell’inventore Peter Henlein (interpretato da un suggestivo Paul Wegener). Harlan diresse quindi l’infaustamente celebre Jud Süss, esplicito strumento di propaganda antisemita che stravolge il senso originario del romanzo omonimo dello scrittore ebreo L. Feuchtwanger, e Der grosse König, ritratto celebrativo di Federico II nella guerra dei Sette anni con esplicite allusioni alla gloria del Reich hitleriano. Durante la Seconda guerra mondiale alternò con grandi capacità di messa in scena la produzione melodrammatica a quella di sostegno al regime, passando dal triangolo d’amore Opfergang (1944; La prigioniera del destino) a un kolossal della ricostruzione storica come Kolberg: realizzato in due anni di riprese con decine di migliaia di comparse, il film racconta la rivolta popolare di una cittadina portuale prussiana sul Baltico di fronte all’invasione delle armate napoleoniche nel 1806, quasi un appello alla resistenza nei confronti del nazismo accerchiato dalle truppe alleate. L’attività di Harlan riprese nel dopoguerra con Unsterbliche Geliebte (1954; La dinastia indomabile), melodramma settecentesco in costume, e continuò con opere di varia ispirazione: dal film d’avventura Die Gefangene des Mahradscha (1954; La prigioniera del Maharajah) a quello spionistico di buona fattura Verrat an Deutschland. Der Fall Dr. Sorge (1955; Berlino-Tokyo, Operazione spionaggio), fino allo scandaloso dramma della prostituzione a sfondo omosessuale Anders als du und ich. § 175, noto anche con il titolo Das dritte Geschlecht (1957; Processo a porte chiuse). Harlan trascorse gli ultimi anni della sua vita in Italia e scrisse un’autobiografia, Im, Schatten meiner Filme, apparsa postuma nel 1966.

Un altro grande attore, Gustav Frölich, uno dei preferiti del regista austriaco, interpretava il ruolo dell’ufficiale Sandor Teleky. Per un trentennio fu uno degli attori più popolari del cinema tedesco, incarnando il personaggio dell’eroe positivo. Sorriso franco, sguardo diretto, atteggiamento spigliato e mondano, rivelò di avere il physique du rôle ideale per le commedie leggere, sentimentali e romantiche.
Il suo primo ruolo di protagonista fu in Metropolis (1927), quando Fritz Lang gli affidò il personaggio del figlio dello scienziato, dittatore della megalopoli.
Negli ultimi anni del cinema muto interpretò due significativi film di Joe May, Heimkehr (1928; Il canto del prigioniero), dove è un soldato prigioniero di guerra che torna in patria, e Asphalt (1929; Asfalto), in cui è un vigile urbano filisteo e borghese che si innamora di una ladra, mostrando di trovarsi a proprio agio nell’ambito del dramma psicologico e intimista.
Già diretto da Carl Froelich in Brand in der Oper (1930; Incendio dell’opera) e Gitta entdeckt ihr Herz (1932), offrì una delle sue interpretazioni più convincenti nel ruolo del poliziotto in Oberwachtmeister Schwenke (1934; Il poliziotto Schwenke). All’inizio degli anni Trenta interpretò alcuni film interessanti, fra cui Der unsterbliche Lump (1930; L’immortale vagabondo) di Gustav Ucicky, Die heilige Flamme (1930; La sacra fiamma) di Berthold Viertel, Voruntersuchung (1931; Istruttoria) di Robert Siodmak, Unter falscher Flagge (1932; Sotto falsa bandiera) di Johannes Meyer, Die verliebte Firma (1932) di Max Ophuls: il suo aspetto piacevole e conciliante e il suo fisico atletico sembravano destinarlo al ruolo di eroe, cui Froelich non avrebbe mai rinunciato nei moltissimi film interpretati negli anni successivi.
Sybille Schmitz
Protagonista femminile del film, nel ruolo di Maria Belloni, Sybille Schmitz, prima diva del genere “fantasy”, femme fatale ed attrice enigmatica, dotata di una bellezza esotica, lontana anni luce dagli stereotipi della maliarda bionda e algida del cinema nordico. Era entrata nell’immaginario collettivo grazie ad una pellicola di due anni prima, “Vampyr” diretta dal danese Carl Theodor Dreyer nel 1932, cui aveva fatto seguito “The Master of the World” girato esattamente due anni dopo. Il film, già nel titolo, annunciava una storia di sortilegi e necrofilie. Nella parte di Leone, figlia di un castellano perseguitato da un vampiro che ne assedia le notti, la Schmitz si rivelò interprete di rara intuizione drammatica, passando, come in delirio, dai sorrisi di fanciulla ingenua alle smorfie di una creatura assetata di sangue.
Forse in quell’occasione la sua interpretazione si notò grazie anche all’accorta regia di un maestro del cinema danese, ma in seguito la forte espressività della Schmitz saprà emozionare anche lo spettatore più impassibile.
Il film più interessante interpretato dalla Schmitz resta però Fährmann Maria (La barcaiola Maria), del 1936. Con enfasi espressionistica la Schmitz traghettava i passeggeri da una riva all’altra del fiume, inseguita da apocalittici cavalieri. Le molte situazioni drammatiche, la danza di Maria con la morte, la preghiera dei soldati scandita dal ferito febbricitante, venivano smorzate dal lieto fine, con cui Maria trovava la patria e l’amore.
Di certo la faccia dell’attrice condizionò molto le sue apparizioni: impossibile immaginarla nei panni di una Gretchen spensierata con quello sguardo inquietante. Per lo più dette vita a caratteri di donne problematiche: fu George Sand in Valzer d’addio di Chopin (Abschiedswalzer, 1934), spia tenebrosa in Hotel Sacher (1939) e astuta principessa in Il capitano di ventura (Trenck, der Pandur, 1940). Ma la sua interpretazione più riuscita va individuata in La tragedia del Titanic (Titanic, 1942), rievocazione del famoso disastro del 1912 in cui il gigantesco transatlantico venne inghiottito dalle acque.

venerdì 10 luglio 2015

Stradivari il "Gesuita"


Elia Santoro aveva ragione: Antonio Stradivari fu protetto dalla potente Compagnia di Gesù, come altri liutai del suo tempo e precedenti a lui. Quella che poteva essere solo una felice intuizione è stata recentemente confermata dal ritrovamento, tra i reperti stradivariani non ancora esposti al Museo del Violino, di un biglietto datato 24 agosto 1727, da cui si apprende come Giuseppe Filiberto Barbieri, rettore della Compagnia di Gesù, s'impegni a far pervenire una cassetta per conto di Antonio Stradivari al Procuratore dei Padri Gesuiti del Collegio di Modena. “Ho ricevuto dal Barone Pietro Fedele una cassetta seugnata colle lettere R.P.M., e procurerò dispedirla con opportuna occasione a Modena al Padre Procuratore dei padri Gesuiti di quella città, come si debba dal sig. Antonio Stradivari. In fede”. Il fortunato ritrovamento è stato effettuato dal conservatore del Msueo del Violino Fausto Cacciatori e dal paleografo Marco d'Agostino nell'ambito di una ricerca paleografica sui reperti stradivariani delle collezione civiche liutarie in cui sono stati sottoposti tutti i reperti, esposti e non, ad una nuova serie di analisi e confronti, anche con il contributo del Laboratorio Giovanni Arvedi di diagnostica non invasiva dell’Università di Pavia che ha sede all’interno del Museo.
Dopo oltre un anno di lavoro i primi risultati sono sorprendenti, con nuove attribuzioni e la scoperta di elementi originali, mai esposti in epoca recente. Dagli studi, che saranno completati entro l’anno e saranno pubblicati nel nuovo catalogo della collezione, sono emersi reperti sicuramente provenienti dalla bottega di Antonio Stradivari, che presentano sue annotazioni e che furono utilizzati per la costruzione dei suoi strumenti.
Fra quanto esaminato sono stati ritrovati, fra l’altro, i disegni per la decorazione della tastiera e della cordiera della viola tenore conservati alla Galleria dell’Accademia di Firenze, unico strumento ancora nelle condizioni originarie. Disegni pubblicati, all’inizio del secolo scorso, dai fratelli Hill nel loro libro sulla vita e le opere di Antonio Stradivari, ma dei quali si era persa ogni traccia.
Oltre a questi modelli anche il disegno forato per lo spolvero delle decorazioni presenti sulla fasce del violino Rode del 1720 appartenuto al Marchese Carbonelli di Mantova.
Il biglietto scritto da Busseto
Ma è sicuramente questo piccolo biglietto spedito da Busseto ad attirare l'attenzione anche dei non esperti sulla personalità stradivariana.
Già Santoro aveva notato come le etichette stradivariane rivelassero con chiarezza la protezione dei Gesuiti fin dal 1672 e lo stesso liutaio avesse quasi certamente aderito alla Compagnia di San Giuseppe sin dai tempi in cui questa si trovava sotto la parrocchia di Sant'Agata. Con ogni probabilità la Compagnia di Gesù aveva appoggiato ed apprezzato, come già fatto precedente dai Carmelitani, gli studi di carattere scientifico che Stradivari aveva condotto negli ultimi anni del XVII secolo sulla costruzione del violino. I Gesuiti, nel complesso di San Marcellino, oltre alle scuole, facevano funzionare anche tre oratori destinati ai giovani, e due Congregazioni, una destinata ai gentiluomini, cioè coloro che potevano vantare quarti di nobiltà ma del frattempo si erano impoveriti fino a tornare allo stato borghese, ed un'altra destinata ai mercanti e agli artisti. Quest'ultima era intitolata a San Giuseppe e curava un altare nella chiesa di Sam Marcellino dove, non a caso, sono conservati anche lavori di Giacomo Bertesi. La protezionedei Gesuti si rivela, nel caso di Stradivari, da un piccolo sigillo che a partire dal 1672 si trova sulla parte bassa a destra del cartiglio. Se la dicitura “Sub titulo Sanctae Teresae” che ritroviamo nei cartigli dei Guarneri secenteschi rivelava il riferimento ai Carmelitani, così la croce racchiusa in doppio circolo con le iniziali A.S. alludeva nel caso di Stradivari alla croce con il monogramma JHS usata dai Gesuiti. Ed è facile comprendere come il grande liutaio potesse affidarsi proprio a quell'ordine che grazie ai suoi numerosi collegi, aveva conquistato tutta l'Europa ed anche i nuovi continenti, così da consentire la diffusione della fama dei suoi violini grazie al prestigio ed agli ampi consensi goduti dall'ordine presso tutti i ceti sociali.
Il violino Rode del 1720
D'altronde i liutai avevano sempre goduto di protezioni da parte dei grandi origini religiosi fin dai tempi di Andrea Amati e di suo fratello, soprattutto da parte delle due grandi organizzazionidei carmelitani Scalzi e dei Gesuiti che, pur contrapposte, godevano a Cremoandi un indiscusso primato culturale. I Carmelitani Scalzi avevano la loro base nel convento nei pressi della chiesa di Sant'Imerio e, in virtù della loro predilezione per le scienze, si erano interessati alla costruzione degli strumenti ad arco, dando disponibilità alle richieste degli Amati. Niccolò ad esempio fece rogare nel 1682 il proprio testamento nel convento carmelitano, facendosi poi seppellire, due anni dopo, nella vicina chiesa di S. Imerio. Secondo Santoro la protezione dovevs risalire fino ai tempi del padre Niccolò e continuare con i Guarneri, che avevano vissuto con gli Amati. Il convento era dedicato a San Giovanni della Croce e alla santa riformatrice delle istituzioni delle istituzioni carmelitane Teresa di Gesù. La famiglia Amati, però, al contrario di Sradivari, aveva ritenuta questa protezione del tutto privata, diversamente dai Gesuiti, che invece, rendevano nota la loro protezione per questo o quel liutaio. All'inizio del XVII secolo, però, il collegio gesuitico di San Niccolò non esercitava ancora la propria influenza in campo culturale, ma si era ramificato nel settore mercantile. Tra i suoi adepti vi erano Alessandro Capra, alcuni consoli mercantili tra cui Domenico Mainoldi, un sindaco dell'Università degli orafi come Giovanni Battista Ferrari. Ma dalla metà del secolo i Gesuiti non fecero più mistero della predilezione riservata ad artisti, mercanti, banchieri e nobili.
La protezione esercitata dai Gesuiti su Stradivari è ancora più evidente nel caso di Giuseppe Guarneri, che, diversamente da tutti gli altri liutai, nell'etichetta dei suoi strumenti poneva un sigillo identico a quello dell'ordine con la croce e il monogramma JHS. I Gesuiti scelserodi proteggere questi liutai perchè ritenuti i più importantie gli unici in grado di rappresenare l'elite della scuola cremonese, anche se non disdegnarono di dare il lor appoggio anche ad litri liutai non cremonesi, cone Giovanni Battista Guadagnini, che nei suoi strumenti appoese etichette con un sigillo che imita quello gesuitivo con una croce o una doppia croce.
La collezione del Museo stradivariano è costituita da 1305 oggetti, forme e disegni preparatori per la costruzione degli strumenti, modelli cartacei e lignei e attrezzi di lavoro.
La raccolta, unica al mondo, si è costituita nel corso del tempo partendo dalla donazione di Giovanni Battista Cerani nel 1893, formata da 408 oggetti proveniente dal laboratorio del liutaio cremonese Enrico Ceruti. Seguirono altre donazioni, fra le quali ricordiamo quella dei coniugi Piazza Soresini, consistente nel pozzo e nel frammento di arcibanco proveniente dalla casa di Antonio Stradivari.
Il contributo più consistente arrivò nel 1930, quando il liutaio bolognese Giuseppe Fiorini donò a Cremona la collezione da lui acquistata, nel 1920, dagli eredi del conte Cozio di Salabue, cui era stata ceduta nel 1774 da Paolo, figlio di Antonio Stradivari. Il sommario inventario redatto da Illemo Camelli, direttore del Museo Civico, all’atto dell’acquisizione conteggiò 1303 oggetti.
Il 6 dicembre del 1956 tutto il materiale fu trasferito dal Museo Civico alla Scuola di Liuteria, che all’epoca aveva la propria sede in Palazzo dell’Arte; in questa occasione fu redatto un nuovo inventario da cui risultano 1117 reperti.
Tutto fu infine trasferito al Museo Civico e nel 1976 si inaugurò il Museo Stradivariano con ingresso da via Palestro. Nel 2001 l’ultimo spostamento nella sala Manfredini del Museo Civico, fino al 2013, anno dell’apertura del Museo del Violino. Il trasferimento nella nuova sede non ha introdotto variazioni nel percorso espositivo.
Particolari della viola tenore dell'Accademia
Nel 1972 Simone Fernando Sacconi pubblicò nel suo libro I Segreti di Stradivari il catalogo dei 709 reperti esposti nella sede di via Palestro; i reperti tuttora esposti a cui si sono aggiunti il frammento di arcibanco e la lettera autografa di Stradivari acquistata dalla fondazione Stauffer.
Una parte significativa della collezione, costituita da 509 oggetti, non fu mai fruibile dai visitatori, poiché tali reperti furono considerati di interesse inferiore rispetto a quelli esposti.
Un primo lavoro paleografico sui reperti esposti è stato svolto da Marco D’Agostino, professore del Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali dell’Università degli Studi di Pavia, e pubblicato nel 2009. Sono stati classificati i reperti, cartacei e lignei, con annotazioni autografe del liutaio cremonese, e sono state individuate le note eseguite da altre mani fra le quali il Conte Cozio di Salabue.
Con il trasferimento al Museo del Violino di tutto il materiale è stato avviato uno studio approfondito – a cura del conservatore Fausto Cacciatori in collaborazione con il paleografo Marco D’Agostino - sui 593 reperti che non erano mai stati esposti. Nello stesso tempo, in collaborazione con il professor Marco Malagodi, coordinatore scientifico del Laboratorio Giovanni Arvedi di diagnostica non invasiva dell’Università di Pavia che ha sede all’interno del Museo, sono in corso analisi chimiche sulla caratterizzazione elementale degli inchiostri utilizzati per le diverse annotazioni presenti sui reperti.
Per quanto rigaurda la scrittura l'esame paleografico ha permesso di enucleare tra i repetti mai esposti al pubblico un gruppo di manoscritti sicuramente autografi di Antonio Stradivari, tra cui, di notevole importanza, l'annotazione delle armi con intarsi in madreperla della viola tenore realizzate per il principe di Toscana. E' stato poi possibile riportare alla mano del grande liutaio altre annotazooni grazie al confronto con le lettre guida, individuate nella q, composta come fosse una g, la p e la d, e le aste ascendenti, molto elevate e sinuose che nella parte alta si piegano verso destra. Dallo studio effettuato è stato possibile ricondurre a Stradivari il 30% dei reperti non esposti.
Nonostante il principe dei liutai sia stato ampiamente studiato, non è mai stato individuato in modo inequivocabile il corpus direttamente riconducibile a lui e le caratteristiche del modo in cui lavorava la sua bottega, con la partecipazione dei figli Omobono e Francesco, prima che il figlio Paolo
cedesse tutto quanto in blocco al conte Cozio di Salabue. E' proprio questa figura di commerciante e collezionista a complicare un po' tutto quanto: le sue annotazione compaiono spesso accanto a quelle del maestro, spesso ne ripetono le frasi e il tono. Dopo la morte di Antonio gli eredi vendettero a Cozio di Salabue oltre ad un certo numero di violini trovato in bottega, anche forme, disegni e vari attrezzi. La collezione del conte, passata poi in eredità alla famiglia Dalla Valle nel 1840, fu poi venduta nel 1920 al liutaio Giuseppe Fiorini che a sua volta la donò al Comune di Cremona nel 1930. Un grande numero dei reperti stradivariani conservato al museo è provvisto di scrittura vergata non di rado anche da due o più mani: si tratta di 125 pezzi su 710. Le annotazioni erano state tutte attribuite a Antonio, ma già verso la fine degli anni Ottanta il conservatore Andrea
Mosconi era convinto che ci fosse anche dell'altro. Ed aveva ragione: solo il 30% di quelle scritte sono autografe, mentre la parte restante non lo era ed è forte il dubbio che, in realtà, sia stato proprio il conte Cozio a metterci del suo. E forse anche qualcuno dei due figli. Ci sono pervenute
tre preziose testimonianze manoscritte di Antonio Stradivari sicuramente di sua mano: una lettera datata 12 agosto 1708, una seconda lettera non datata, e il testamento del 24 gennaio 1729. I tre autografi sono conservati a Cremona, il primo al Museo stradivariano, il secondo all'Archivio di
Stato e il terzo presso la famiglia Sacchi. 

Arriva la prima automobile


La versione più economica costava 3400 lire, quella più accessoriata, una sorta di monovolume, arrivava a 9000; aveva una velocità media di 20 chilometri orari e una spesa di mantenimento che poteva arrivare ai quattro centesimi al chilometro, con un'autonomia di circa 120 chilometri. E' la descrizione della prima automobile moderna che fece la propria comparsa a Cremona 120 anni fa, quando sul finire del settembre del 1895, un veicolo Benz proveniente da Milano, transitò sulle strade della nostra provincia impegnato in un raid dimostrativo che lo avrebbe portato lungo tutta la Penisola. La validità del nuovo mezzo di locomozione fu subito compresa da Ettore Sacchi, direttore del quotidiano “La Provincia” che vi vide un mezzo tecnico in grado di modificare la vita dell'uomo in modo più rapido che in tutti i secoli precedenti. Lo stesso Sacchi non si limitò solo a dar notizia dell'evolversi del fenomeno, ma sul finire dell'Ottocento fu autore di una serie di articoli didattici e informativi che sicuramente contribuirono a diffondere in città e in provincia l'interesse verso il nuovo mezzo.
Giorgio Mina a bordo della sua Benz nel 1896
Prova ne sia che già l'anno successivo Giorgio Mina si fece ritrarre a bordo della sua fiammante Benz nella tenuta di Castel Rozzone, nel comune di Pieve Delmona. Il 28 e 29 settembre, dunque, così Ettore Sacchi descrisse il transito di questa strana carrozza senza cavalli: “I giornali di Milano tengono dietro al viaggio che il signor Brena ha intrapreso sopra una carrozza automobile lungo tutta la penisola. I risultati del viaggio per or sono splendidi. Partito da Milano lunedì mattina il signor Brena è già arrivato a Firenze. Il veicolo, stando alle notizie, ha ruzzolato velocemente e senza scosse meglio che su rotaie percorrendo fino a 25 km/h. E' a quattro posti e da Milano a Firenze non ha ancora consumato 5 lire di benzina. Si vera sunt exposita, e noi cremonesi lo abbiamo potuto constatare quando il veicolo dell'avvenire è passato nella nostra città, questa carrozza ha innanzi a sé vastissimi orizzonti, essa ucciderà la bicicletta non solo, ma i trams, e le ferrovie. Chi è quel misero mortale che non vorrà mettere su carrozza, specie se la industria di tali veicoli si diffonderà e se i negozianti e i rappresentanti li venderanno a respiro e talvolta a...sospiro? Mettere su carrozza finora era stato un problema insolubile per la grande maggioranza della misera comunità. Ma le difficoltà del problema non erano state per le carrozze: erano quei benedetti cavalli che costituivano lo scoglio maggiore. Come potrebbe fare difatti un uomo che doveva risolvere la sciarada del desinare per se stesso e definire anche quella dei cavalli? La bicicletta ebbe un grade successo perchè si disse: è un cavallo che non mangia. E in parte è vero. Ma non tutti si sentono in vena di andare a lezione di velocipedi, vi sono uomini grevi con tanto di barba che non arrischiano di mettersi in berlina sulla pubblica via. Le signore, poi, meno poche eccentriche che sfidano il misoneismo del pubblico, non hanno il coraggio di infilare i pantaloni alla turca necessari per pedalare comodamente senza dovere badare allo svolazzamento delle gonnelle. Ma la carrozza automobile taglia tutti i nodi della questione. Uomini, vecchi, signore, bambini potranno imbarcarsi senza dare nell'occhio e percorrere miglia a loro bell'agio, senza dover mettersi in pensiero se i cavalli si stancheranno, o tremare perchè sono di natura ombrosi, o quel che più conta, senza dover loro provvedere la biada». Ma ancora più interessante è la descrizione tecnica della nuova macchina che chiude il servizio, ricca di dettagli sino ad allora sconosciuti. «Le vetture automotrici brevetto Benz, in seguito ai numerosi perfezionamenti subiti, oggi si presentano pratiche, razionali e di una sicurezza assoluta. Si costruiscono in diversi tipi e sono mosse da un motore ad accensione elettrica utilizzante il petrolio leggero, hanno una velocità media in piano di 20 km/h. La costruzione della vettura è in acciaio e legno per quanto riguarda lo scheletro e le ruote, di forma elegantissima e solidissima possono correre su strade anche brecciate, come pure su ghiaccio, neve, ecc.
La spesa va dai tre ai quattro centesimi al chilometro. L'apparecchio gazificatore e quello di riserva bastano per un viaggio di 100-120 km. La velocità si regola semplicemente operando o l'uno o l'altro dei due manubri opportunamente posti sul davanti della vettura in guisa di poter ottenere una velocità minima. Si arresta a velocità e immediatamente, sferza colla massima facilità ed è sensibilissima a qualsiasi movimento anche in strettissima curva. Basta poche ore per conoscere ogni movimento ed anche il più inesperto o profano in materia può approfittare di tali perfezionati veicoli, premiati ai principali concorsi europei».

Il quotidiano locale per qualche tempo non si occupa più di automobilismo, anche se è certo che già verso la fine del 1895 circolava sulle strade della provincia almeno un autoveicolo, secondo quanto riportava la “Gazzetta di Mantova” di quel tempo, dando notizia del transito del primo autoveicolo nella città virgiliana il 20 febbraio 1896: “Martedì, quasi a supplire la deficienza degli equipaggi signorili, girava sul nostro Corso una di quelle carrozze automobile che fecero tanto parlare di sé in questi ultimi tempi e che non s'erano ancora fatte vedere a Mantova. Ne è proprietario, e la guidava martedì, l'ingegnere Ippolito Pinardi di Rivarolo del Re (Casalmaggiore) venuto qui a passare gli ultimi di carnevale presso l'egregio dottor Cipriano Manfredini. Vi erano montati la signora Pinardi, figlia dell'ingegnere, la signora Manfredini e i suoi due figli. Il veicolo correva in mezzo alla folla sena pericolo di alcuno: rallentava la corsa, la accelerava, girava con la massima facilità ed eleganza. Esso fu acquistato dall'ingegnere Pinardi in persona due mesi fa a Parigi. Di là, con un amico, l'ingegnere venne a Rivarolo a tappe di 150-200 chilometri al giorno. Solo per ragioni di prudenza lo mise in ferrovia lungo il tratto del Cenisio. Con questa carrozza si possono percorrere a strada libera persino 30 chilometri all'ora; ma calcolate una media continua e sicura di 24. Il consumo di benzina è di centesimi 7 per chilometro. Peccato che sia ancora un po'...carina. Costò a Parigi non meno di lire 5.500!”.
Dieci anni dopo i motoveicoli circolanti in provincia erano 64, di cui 22 automobili. Ci aveva visto giusto il solito Ettore Sacchi che il 1 luglio del 1898 aveva scritto un nuovo articolo sui vantaggi del nuovo mezzo a motore e sui difetti dei trasporti pubblici: «Quanto ai vantaggi dell'automobilismo non sono pochi. Esso può rendere più facili ed economiche le comunicazioni, liberandole da quel legame delle rotaie cui sono soggette le ferrovie ed i trams, sostituendosi ai vieti e cattivi mezzi di trasporto. Fino ad oggi esso è quasi ancora allo stato di sport, ma i concorsi banditi nel 1894 e 1895 da un giornale francese per la cosa Parigi-Rouen e per quella Parigi-Bordeaux, il concorso dell'Automobil Club del 1897, hanno provato come un grande avvenire aspetti questi ingegnoso mezzo di trasporto. E già le amministrazioni militari, in alcuni paesi, si occupano alacremente del nuovo mezzo di trazione pel trasporto dei bagagli. Nelle esigenze della moderna attività l'automobile rappresenta un vero progresso dei mezzi di comunicazione e coll'andar del tempo esso si perfezionerà, sostituendosi a poco a poco alle odierne trazioni a cavalli; conseguirà lo scopo fondamentale richiesto a ogni nuovo ritrovato moderno: economia di tempo e di danaro”.
Carlo Carulli, primo patentato nel 1905
Passò qualche anno ed il 12 agosto 1899 fecero la loro comparsa alle porte di Cremona le prime corse automobilistiche con i i primi temerari piloti alla guida degli improvvisati bolidi. Ne dà notizia il quotidiano cremonese che scrive: “Lunedì prossimo avrà luogo l'importante corsa di automobili che fa parte delle feste agostiane di Piacenza. Percorso: Piacenza, Caorso, Monticelli, Castelvetro, San Giuliano, Busseto, Piacenza per lo stradone emiliano. A Castelvetro di fronte alla fornace dell'ing. Cav. Repellini ci sarà l'ufficio di controllo sorvegliato dal sig. Montaldi Aurelio. Inutile dire che il concorso di ciclisti cremonesi a Castelvetro sarà numeroso”. In una splendida giornata di sole, la mattina del 14 agosto, avvenne la partenza. I primi a lanciarsi sulla strada polverosa furono i cinque concorrenti nella categoria motocicli e tricicli ad un posto. Al via si presentarono il conte Alfonso Lecchi e Giuseppe Nescrini, bresciani, su due Prinetti & Stucchi, fabbrica milanese che poteva disporre di motori progettati da Ettore Bugatti; Luigi Storero e Velox di Torino montavano due Phoenix Hp I ¾, mentre il costruttore piacentino Attilio Orio cavalcava ua delle sue Orio & Marchand. Altri tre veicoli dell'officina piacentina si presentarono nella seconda categoria, riservata alla vetturette a due posti di peso non superiore ai 400 chilogrammi, guidate da Bartolomeo Orio, da Penice II e dal milanese Giuseppe Ruini. Una vettura Prinetti & Stucchi guidava il bolognese Guido Sanguinetti, mentre sempre all'officina piacentina aveva fatto ricorso il ragioniere amministratore Emilio Leporte, che utilizzava una potente, almeno per i tempi, 7 HP, un prototipo ancora in fase di collaudo che cercava una definitiva conferma in gara. Al traguardo di porta San Lazzaro si presentò per primo “con una volata vertiginosa” Luigi Storero in mezzo a due ali di folla che applaudiva entusiasta. Velox rimase senza benzina ma, anziché abbandonare la competizione, spinse a piedi il veicolo fino al traguardo. Due ore e 17 minuti il tempo impiegato dal vincitore a percorrere i cento chilometri del percorso, mentre nella seconda categoria giusne al traguardo solo Guido Sanguinetti in tre ore e diciotto minuti. Buona la performance della vettura ufficiale della Orio & Marchand guidata da Leporte, che concluse la gara in tre ore ed un minuto, ma che giunse a tagliare il traguardo quando il pubblico se ne era ormai andato, un po' deluso, come osservava il cronista piacentino: “Ma il pubblico che è rimasto è stanco e pensa, non a torto, che se le corse di automobili sono tutte come queste, divertono ben poco”. Corsi e ricorsi storici, come ben sanno gli appassionati di Formula 1.
Una Darracq del 1901
Pochi giorni dopo i temerari delle quattro ruote fecero la loro comparsa anche a Cremona nella tappa della grande corsa di resistenza disputata l'11 settembre sul percorso Brescia-Cremona-Mantova-Verona-Brescia di 223 chilometri. Sono gli anni in cui si affaccia anche la prima ditta cremonese che commercializza autoveicoli: si tratta della Bonezzi e Bonvicini con negozio in via Giudecca, l'attuale via Verdi ed officina in via Biblioteca, oggi via Boldori, che rappresentava in esclusiva per la provincia le automobili Darracq, fabbricate in Francia, la prima produzione in serie di 1200 esemplari prima che arrivassero le prime Fiat. Nel frattempo, in soli cinque anni, la tecnonologia ha fatto passi da gigante: le automobili non sono più semplici carrozze a motore, ma presentano ruote di uguale diametro, anche se i cerchioni con le razze in legno sono ancora simili a quelli dei carri pur se le gomme piene sono state sostituite da pneumatici. Il motore, ormai quasi sempre bicilindrico affiancato, piatto o a cilindri contrapposti, è quasi sempre piazzato in posizione anteriore, dietro le serpentine dei radiatori. Per la messa in moto si ricorre alla manovella che ha ormai quasi definitivamente soppiantato il sistema a strappo che utilizzava una cinghia montata sull'albero motore. Mancano ancora le corrozzerie ed il guidatore è esposto alle intemperie e al vento per cui è costretto a ricorrere a pastrani, occhialoni e berretto. Ha però la soddisfazione di disporre di un volante vero e non più delle vecchie code di bue. E' in questo clima che si svolge la seconda edizione della Brescia-Cremona-Mantova-Verona-Brescia il 10 settembre1900, dopo la disputa del record di velocità sui 5 chilometri sul tratto dello stradone tra Bagnolo Mella e San Zeno. Con la corsa arrivò anche il primo incidente grave in cui perse la vita il giovane Attilio Caffarati di Pinerolo, uscito di strada su una curva ad un paio di chilometri da Brescia. La gara è minuziosamente descritta in un articolo sulla “Provincia” del 12 settembre: “Il nostro secolo è invaso da una strana ossessione: quella della corsa. Dopo la bicicletta è venuto l'automobile il quale va sempre più perfezionandosi pel grande scopo di divorare la via: e quel bipede implume che si chiama uomo, o almeno uomo sportivo, non ha che un miraggio, vale a dire quello di correre sfrenatamente, pazzamente, non potendo, almeno fino ad oggi volare. Ciò premesso e stabilito come necessaria constatazione di una mania affatto moderna ed affatto caratteristica, veniamo alla cronaca del passaggio degli automobili che ebbe luogo ieri mattina a Porta Venezia. Prima delle otto c'era già molta gente, la quale andava man mano prendendo posizione, parte dov'era il controllo cioè al passaggio a livello della ferrovia, parte innanzi cioè sul gran stradone di Mantova. Per una delle tante contraddizioni delle quali è lastricato il mondo in genere, compreso il mondo dei cicli e degli automobili, alla zucchereria ieri non è approdato nessun carro di barbabietole, e nessuna barbabietola, cosicchè se gli automobilisti fossero passati anche dal piazzale cone l'anno scorso, era tolto il pericolo di uno scontro o d'un barbabietolicidio. Ma le disposizioni erano già prese e fu scrupolosamente seguita la variante, o rotta che dir si voglia, Il cielo si mantenne coperto di nubi, però non piovve e se qua e là c'era qualche pozzanghera, ci fu anche il gran vantaggio della mancanza assoluta di polvere, anzi oserei dire che sotto questo rapporto la corsa riuscì fortunatissima. Gli iscritti erano 48: da Brescia ne partirono 34, da Cremona ne transitarono 37. Il primo arrivato, alle 8,40, fu un triciclo, poi a distanza di pochi minuti vennero altri due tricicli. Io mi ero portato sulla strada di Brescia innanzi qualche chilometro per osservare l'arrivo di un punto di massima corsa, e vi assicuro che fu uno spettacolo impressionantissimo.
Il triciclo fila con una velocità da treno lampo, e quella massa nera che si avanza vertiginosa e su cui sta un uomo che sembra un palombaro cò grandi occhi di vetro, preceduto dal rumore caratteristico dello scoppio, vi fa quasi trattenere il fiato. Per fortuna lo stradone è bello, largo, libero, perchè ognuno pensa subito che se il triciclo trova un ostacolo, la macchina e chi lo monta vanno in frantumi. Pur troppo più tardi ho saputo che ci fu un urto fatale ed un morto, la qual cosa mi ha fatto subito presagire che finiranno per abolire anche da noi queste corse pazze ,come hanno fatto in Francia. Io capisco che si possa indire una corsa di resistenza: ciò è bello ed è pratico; quello che non capisco è fare, con l'automobilismo, la concorrenza alla ferrovia, ai treni lampo, agli express su strada comune. La quinta arrivata fu una vettura, così pure la sesta, la settima. Le vetture presentano meno pericoli, almeno apparentemente, del triciclo, e per lo più sono montate da due: uno che guida, l'altro in una posizione più o meno impacciata e gotica, forse per tagliare l'aria con minore resistenza. Tra le vetture, ne passò una tutta gialla che mi dissero essere del maestro barone Fanchetti. Ho visto anche passare assai bene, e con ammirevole velocità, due biciclette con motore a benzina. Chi montava la prima bicicletta a benzina aveva le braccia al sen conserte: come potete giudicare è una bella prova di fiducia in se stesso e nelle leggi dell'equilibrio, verso le undici tutto era finito. In complesso la corsa se ha segnato ai miei occhi un evidente progresso in velocità e un evidente perfezionamento, fu meno varia di quella dell'anno scorso. Ad un certo punto direi quasi che ogni cosa fu strozzata, perchè evidentemente molti tornarono indietro, al qual fatto contribuì senza dubbio la disgrazia accaduta. Nei nostri pressi tutto andò benissimo, il controllo funzionò egregiamente, e in ordine, alla firma obbligatoria apposta al controllo.”

lunedì 29 giugno 2015

Il nostro Eldorado


Nessuna “Isola del tesoro” alla Stevenson, per carità, ma qualche piccola spiaggia nascosta in riva al fiume, dove setacciare la sabbia alla ricerca del prezioso metallo, c'è pure qui da noi. Certo
non sarà mai il Klondike ed anche una speranzosa corsa all'oro finirebbe per risultare un grossa delusione, ma certo per passare qualche ora all'aperto in una giornata di sole estiva la scusa potrebbe anche risultar convincente. Anche perchè sulla presenza delle agognate pagliuzze nei corsi d'acqua padani esiste fior di letteratura fin dal Settecento. Il nostro piccolo Eldorado è ad Azzanello. A descrivere l'emozionante incontro con l'oro è Alberto, un cercatore dilettante che ha voluto condividere la propria felicità con gli altri cercatori che si ritrovano puntualmente sul sito www.minieredoro.it: «Armato di una piccola paletta, due setacci e la batea, questa prima uscita l'ho fatta con l'intenzione di verificare la quantità di ferrite in punti diversi del fiume. Ho presto incontrato due guardie regionali, ma dopo gli ho spiegato le mie intenzioni e mi hanno salutato senza crearmi alcun problema, per cui mi sono dato tranquillamente da fare. Non ti dico la gioia che ho avuto nel trovare quei minuscoli puntini incollati al piatto e che si nascondono sino all'ultimo sotto quel “concentrato nero”, veramente un'emozione unica! Li ho osservati ancor meglio a casa usando l'obiettivo di un vecchio fax: scagliette minuscole, una decina, da farsi ridere dietro da amici e parenti, ma non importa, per me è stato fantastico. Da qui a trovarne anche un solo grammo ce ne vorrà, ma la molla è scattata! Non lo faccio certo per arricchirmi o per mantenermi, per questo c'é il lavoro, comunque conoscendomi ci passerò parecchie ore a “spadellare”. Tra l'altro, ho visto in rete dei siti che propongono pompe e macchinari vari per dragare il fondo, ma sono contrario a questo tipo di ricerca che ha il solo scopo di velocizzare i tempi per aumentare il più possibile la resa, togliendo però, secondo me, proprio il bello della ricerca». Pagliuzze e piccole pepite non sono rare nei torrenti della Bessa, un fazzoletto di terra nel biellese, specialmente nel torrente Elvo, oppure sul letto del Cervo, torrente che scorre dal lago della Vecchia al confine con la Valle d'Aosta e si snoda su un percorso di circa 80 chilometri, prima di immettersi proprio nell'Evo o lungo la Dora Baltea. In Lombardia, proprio lungo l'Oglio nei pressi di Azzanello, qualche chilometro a valle di Soncino sono state trovate due pepite di circa 5 grammi l'una. Ora però le ricerche si concentrano più su, dove il fiume nasce, lungo le pendici del Corno dei tre Signori, tra la provincia di Sondrio e quella di Brescia. Nel cremonese piccole pagliuzze sarebbero state trovate nell'Adda a Rivolta. 
La ricerca dell'oro nel torrente Elvo
Sul sito internet dei cercatori d'oro dilettanti www.minieredoro.it è pubblicata anche una mappa che indica proprio una località in riva all'Adda dove sarebbe possibile trovare pagliuzze d'oro di tre e più millimetri. Queste le indicazioni: «Da Milano prendete la statale n. 11 (Padana superiore) fino a Cassano d'Adda. Superato il ponte sul fiume piegate subito a destra direzione Rivolta d'Adda. Dopo circa 2,5 km. Sarete entrati nella provincia di Cremona (cartello segnaletico nei pressi di un ponticello). Poche decine di metri oltre di questo prenderete una stradina sterrata che si diparte alla vostra destra superando un canale e dopo averla seguita percirca trecento metri sarete arrivati. In questo punto il fiume lambisce un piccolo parcheggio dove potrete posteggiare. Potete inziare le ricerche facendo degli assaggi nel mentre che risalite per un centinaio di metri la sponda dell'Adda per poi raggiungere in breve dei grossi ruderi (blocchi di conglomerato) dietro ai quali, se dotati di una giusta dose di fortuna, potreste anche trovare qualche piccola 'sorpresa'. La dimensione massima delle scagliette trovate in occasione della gita qui descritta è comunque di 3 millimetri». Insomma, una vera e propria mappa con tutte le coordinate per la ricerca del tesoro, come quella che avrebbe disegnato qualche vecchio pirata. Ma siamo sull'Adda e nei nostri tempi.
Ogni anno i nipotini di Jack London si ritrovano ad agosto al Campionato del Mondo dei cercatori d'oro a Mongrando nel biellese, nella Riserva Naturale Speciale della Bessa, che custodisce un territorio di quasi dieci chilometri quadrati interamente modificato, nel suo aspetto, dal lavoro di migliaia di uomini (gli Ictimuli o Vittimuli) che oltre duemila anni fa abitavano buona parte del Biellese. Guidati e sfruttati dai Romani tra il II e il I secolo a.C. trasformarono la Bessa in una delle più grandi miniere d'oro a cielo aperto del mondo. Oggi il paesaggio si presenta come un alternarsi di vallette fitte di vegetazione e cumuli di ciottoli fluviali alti fino a 20 metri. La ricerca dell'oro sul greto del torrente Elvo è un'attività all'aria aperta che si può vivere tutto l'anno, perché nel Parco Naturale della Bessa opera un'associazione molto attiva, l'Associazione Biellese Cercatori d'Oro, che organizza escursioni lungo il fiume Elvo, ed insegna le antiche tecniche per la ricerca dell'oro dal greto del fiume. 
Tecniche che dovevano essere ben conosciute ancora nel Settecento agli abitanti di Acqualunga, ancora sull'Oglio a pochi chilometri da Azzanello, protagonisti di una piccola corsa al metallo giallo. A scriverne è il naturalista e geologo Giambattista Brocchi nel suo “Trattato mineralogico e chimico sulle miniere di ferro del Dipartimento del Mella” del 1808, che così descrive la circostanza: “Alcuni contadini di Acqualunga, villaggio posto sulle rive dell'Oglio, si erano avvisati ne' tempi trascorsi di mettere a profitto questa sorta di ricchezza. Il metodo di cui si valevano per separare dalle particelle pietrose i grani d'oro era semplicissimo, e simile a quello adottato dai paesani di Gez sul Rodano, e dagli abitanti della Contea di Schwartzburg sparsi nelle vicinanze del fiume Sala. Esso consisteva nel fare scorrere il materiale aurifero, stemperato nell'acqua, sopra una tavola inclinata, su cui erano praticati di spazio in ispazio alcuni tagli obbliqui nel senso della sua larghezza. Le pagliette fermavansi in queste scannellature, mentre l'acqua trasportava le parti meno pesanti. L'oro rimaneva ancora mescolato con molta sabbia, e si otteneva puro mediante l'amalgamazione col mercurio, che compiva l'operazione. Alcuni, invece di tavole, servivansi di velli di agnello, dirigendosi in tutto il resto col medesimo meccanismo. Questo ramo d'industria è presentemente affatto negletto”. La nostalgia di quell'età dell'oro fu però dura a morire se ancora nel 1864 sopravviveva la fama di quelle sabbie aurifere. In occasione dell'Esposizione Agraria Bresciana, infatti, uno degli organizzatori, il conte Alessandro Bettoni, oltre ad animali ed attrezzi rurali, chiedeva al conte Luigi Martinengo Villagana di presentare “un po' d'oro ricavato nel letto dell'Oglio, anche in tenuissima quantità, accompagnato da due o tre chilogrammi di quella sabbia”.
Cercatori d'oro sul Serio negli anni Venti
Sulle sponde del Serio, nei luoghi più frequentati, si trovano dei cippi di granito che recano incisa questa scritta: “Fiume Serio - Diritto esclusivo di pesca, pesci e oro del conte Giuseppe Bonzi di Crema - Dal ponte di Mozzanica allo sbocco dell'Adda”. È la famiglia Bonzi che ha fatto collocare
questi cippi lungo le rive del Serio a pubblica affermazione dei propri diritti in base ai privilegi anticamente derivati e che essendo anch'oggi in possesso di questa esclusività, di tratto in tratto fa ripristinare le parole incise nel granito. La nobile Famiglia Bonzi, trasse origine da una famiglia di barcaioli del Serio, probabilmente oriundi da Ripalta: nel 1452 certo Franchino Bonzi, barcaiolo, aveva una barca grande con la quale faceva il viaggio da Crema a Venezia, percorrendo il Serio, l'Adda ed il Po: nel 1509 Bernardino Bonzi, navarolo, sorpreso a trasportare armi con la sua barca a vantaggio di Venezia, venne preso e crudelmente squartato dai Francesi. Nel 1694 i Bonzi furono solennemente investiti della giurisdizione del Serio, con prerogativa feudale e con titolo di conti, con diritto esclusivo di pesca su tutta la parte del Serio che scorre nel territorio cremasco, nonché sull'oro che in tempi trascorsi si cavava dalle sabbie del fiume, ma in piccole quantità e con gran dispendio di tempo e di lavoro. I Bonzi tenevano la loro residenza in una villa con bel giardino a strapiombo sul Serio. Il Centro di ricerca Alfredo Galmozzi di Crema conserva in archivio una rara immagine che raffigura cercatori d'oro sulle sponde del Serio nei pressi di Bocca di Serio, risalente probabilmente agli anni Venti.
C'era anche oro nel Po: nel 1423 il diritto di estrarlo dalla ghiaia era stato acquistato dal Capitano del Naviglio di Pavia Pasino degli Eustachi, che possedeva anche case a Cremona dove spesso si recava per affari. Con i suoi figli era uno dei mercanti più attivi di calcina, legna, panni e pesci freschi e salati provenienti da Venezia. Intorno al Mille Le “Honoratie Civitas Papie” cita i fiumi da cui si cava oro: Po, Ticino, Sesia, Agogna e Trebbia. Il Ticino era di proprietà regale ed a Pavia vi avevano diritto di ricerca gli Auri Lavatores, obbligati da giuramento a rivenderlo alla Camera Regia o ai Magistrati della Moneta. Successivamente il diritto, per alcuni tratti del fiume, fu ceduto in regalia ad ecclesiastici e a privati. Tra il XIV e il XV secolo, periodo di maggior sfruttamento del tratto pavese, il Paratico dei Mercati di Pavia ne deteneva il diritto, acquisito o avuto in regalia, dai precedenti proprietari. Quella degli Auri Lavatores era a suo tempo una delle professioni più ambite ma dopo il 1500, sia per l'impoverimento del fiume, che per la maggiore quantità di oro circolante proveniente dalle Americhe appena scoperte, il mestiere decadde e da allora il dirtto di cavare metalli dal fiume non si distinse più dal diritto di pesca o di cavare sassi. La ricerca dell'oro era praticata saltuariamente dagli uomini di fiume, che erano di volta in volta boscaioli, pescatori, raccoglitori di sassi, di legna e via dicendo. Anche a Lodi è documentata la presenza di cercatori d'oro in epoca antica. Tra i privilegi concessi dall'imperatore Federico Barbarossa al momento della fondazione della città nel 1158, vi è tra gli altri, anche quello di raccogliere l'oro nell'Adda riservato agli abitanti della città: come nel caso di Pavia i cercatori erano chiamati aurilevantes.
Cercatori d'oro sul Serio (anni Venti)
Sull'Adda e sul Serio, dove non ci sono rapide su greto ciottoloso e dove il sedimento e l'oro sono più fini, per trovare l'oro veniva utilizzato il banco. Era formato da due o tre ruvide tavole di legno, lunghe fino a due metri, tenute insieme in modo da formare un largo canale ed era lo strumento fondamentale da cui derivano gli strumenti moderni più aggiornati. Queste tavole accostate l'una all'altra, già ruvide per la loro stessa natura, venivano inoltre intagliate fittamente a colpi d'ascia per creare ostacoli allo scorrimento delle sabbie in modo da ottenere depositi d'oro. Lo strumento, posizionato sulla riva, era tenuto rialzato da terra tramite sostegni in legno flessibili che consentivano di farlo periodicamente dondolare agendo con una mano sulle sponde facendo scivolare in basso il materiale più grossolano e lasciando depositare l'oro negli intagli. Una persona vi caricava il materiale da lavare con la pala, un'altra vi versava sopra abbondante acqua con un secchio fissato a un lungo bastone trasversale chiamato “sucon”, necessario per raggiungere tutti i punti del banco senza ostacolare il caricamento del materiale. Periodicamente occorre eliminareil materiale che si era ammucchiato ai piedi del banco e spostare lo strumento in un'altra zona ancora da sondare. Quando si riteneva che il banco fosse saturo, lo si girava e lo si poneva verticalmente in un canaletto di legno lungo e stretto, chiamato“conchino” e, usando una spazzola e dell'acqua, vi si faceva cadere il concentrato, che veniva sottoposto ad un ulteriore lavaggio agitando il conchino a pelo d'acqua in modo da eliminare le parti più leggere e poi si faceva scivolare il residuo in un bacile, detto “trula”.
Cercatori d'oro sul Ticino
In Lombardia tutti i fiumi sono più o meno auriferi perché i sedimenti di questo metallo provenienti dall'arco alpino, sono stati trascinati a valle al termine delle glaciazioni. Anche Lambro e Olona, a detta degli esperti, porterebbero nel loro umilissimo grembo tracce del prezioso minerale. C'è oro anche nel Po, ma è il Ticino il sito aurifero lombardo per eccellenza: fino a una quarantina di anni fa i fidanzati del Vigevanese avevano l'abitudine di cercare proprio sui suoi argini il prezioso metallo per la vera nuziale. Abbastanza generosi anche alcuni torrenti del Varesotto e l'Agogna, che dalla provincia di Novara attraversa parte della Lomellina. L'Adda, infine, sarebbe molto ricco di luccicanti promesse, ma gli appassionati lo considerano un «paradiso perduto» a causa del divieto di ricerca posto nel territorio del Parco dalle autorità. Per trovare i punti giusti bisogna guardare bene la conformazione dell'argine: se la sponda è erosa da una piena recente e sono visibili tracce nere di ferro e tracce rosse di granato, vuol dire che in quel punto la corrente ha depositato materiale pesante e, probabilmente, anche dell'oro. Gli attrezzi del mestiere sono umili: una zappa per smuovere il terreno; un badile per riempire di terriccio un secchio da muratori dotato di setaccio e il piatto che gli esperti chiamano batea al centro del quale, alla fine di pazienti irrorazioni e filtraggi, rimangono imprigionate le scaglie d'oro.