lunedì 29 giugno 2015

Il nostro Eldorado


Nessuna “Isola del tesoro” alla Stevenson, per carità, ma qualche piccola spiaggia nascosta in riva al fiume, dove setacciare la sabbia alla ricerca del prezioso metallo, c'è pure qui da noi. Certo
non sarà mai il Klondike ed anche una speranzosa corsa all'oro finirebbe per risultare un grossa delusione, ma certo per passare qualche ora all'aperto in una giornata di sole estiva la scusa potrebbe anche risultar convincente. Anche perchè sulla presenza delle agognate pagliuzze nei corsi d'acqua padani esiste fior di letteratura fin dal Settecento. Il nostro piccolo Eldorado è ad Azzanello. A descrivere l'emozionante incontro con l'oro è Alberto, un cercatore dilettante che ha voluto condividere la propria felicità con gli altri cercatori che si ritrovano puntualmente sul sito www.minieredoro.it: «Armato di una piccola paletta, due setacci e la batea, questa prima uscita l'ho fatta con l'intenzione di verificare la quantità di ferrite in punti diversi del fiume. Ho presto incontrato due guardie regionali, ma dopo gli ho spiegato le mie intenzioni e mi hanno salutato senza crearmi alcun problema, per cui mi sono dato tranquillamente da fare. Non ti dico la gioia che ho avuto nel trovare quei minuscoli puntini incollati al piatto e che si nascondono sino all'ultimo sotto quel “concentrato nero”, veramente un'emozione unica! Li ho osservati ancor meglio a casa usando l'obiettivo di un vecchio fax: scagliette minuscole, una decina, da farsi ridere dietro da amici e parenti, ma non importa, per me è stato fantastico. Da qui a trovarne anche un solo grammo ce ne vorrà, ma la molla è scattata! Non lo faccio certo per arricchirmi o per mantenermi, per questo c'é il lavoro, comunque conoscendomi ci passerò parecchie ore a “spadellare”. Tra l'altro, ho visto in rete dei siti che propongono pompe e macchinari vari per dragare il fondo, ma sono contrario a questo tipo di ricerca che ha il solo scopo di velocizzare i tempi per aumentare il più possibile la resa, togliendo però, secondo me, proprio il bello della ricerca». Pagliuzze e piccole pepite non sono rare nei torrenti della Bessa, un fazzoletto di terra nel biellese, specialmente nel torrente Elvo, oppure sul letto del Cervo, torrente che scorre dal lago della Vecchia al confine con la Valle d'Aosta e si snoda su un percorso di circa 80 chilometri, prima di immettersi proprio nell'Evo o lungo la Dora Baltea. In Lombardia, proprio lungo l'Oglio nei pressi di Azzanello, qualche chilometro a valle di Soncino sono state trovate due pepite di circa 5 grammi l'una. Ora però le ricerche si concentrano più su, dove il fiume nasce, lungo le pendici del Corno dei tre Signori, tra la provincia di Sondrio e quella di Brescia. Nel cremonese piccole pagliuzze sarebbero state trovate nell'Adda a Rivolta. 
La ricerca dell'oro nel torrente Elvo
Sul sito internet dei cercatori d'oro dilettanti www.minieredoro.it è pubblicata anche una mappa che indica proprio una località in riva all'Adda dove sarebbe possibile trovare pagliuzze d'oro di tre e più millimetri. Queste le indicazioni: «Da Milano prendete la statale n. 11 (Padana superiore) fino a Cassano d'Adda. Superato il ponte sul fiume piegate subito a destra direzione Rivolta d'Adda. Dopo circa 2,5 km. Sarete entrati nella provincia di Cremona (cartello segnaletico nei pressi di un ponticello). Poche decine di metri oltre di questo prenderete una stradina sterrata che si diparte alla vostra destra superando un canale e dopo averla seguita percirca trecento metri sarete arrivati. In questo punto il fiume lambisce un piccolo parcheggio dove potrete posteggiare. Potete inziare le ricerche facendo degli assaggi nel mentre che risalite per un centinaio di metri la sponda dell'Adda per poi raggiungere in breve dei grossi ruderi (blocchi di conglomerato) dietro ai quali, se dotati di una giusta dose di fortuna, potreste anche trovare qualche piccola 'sorpresa'. La dimensione massima delle scagliette trovate in occasione della gita qui descritta è comunque di 3 millimetri». Insomma, una vera e propria mappa con tutte le coordinate per la ricerca del tesoro, come quella che avrebbe disegnato qualche vecchio pirata. Ma siamo sull'Adda e nei nostri tempi.
Ogni anno i nipotini di Jack London si ritrovano ad agosto al Campionato del Mondo dei cercatori d'oro a Mongrando nel biellese, nella Riserva Naturale Speciale della Bessa, che custodisce un territorio di quasi dieci chilometri quadrati interamente modificato, nel suo aspetto, dal lavoro di migliaia di uomini (gli Ictimuli o Vittimuli) che oltre duemila anni fa abitavano buona parte del Biellese. Guidati e sfruttati dai Romani tra il II e il I secolo a.C. trasformarono la Bessa in una delle più grandi miniere d'oro a cielo aperto del mondo. Oggi il paesaggio si presenta come un alternarsi di vallette fitte di vegetazione e cumuli di ciottoli fluviali alti fino a 20 metri. La ricerca dell'oro sul greto del torrente Elvo è un'attività all'aria aperta che si può vivere tutto l'anno, perché nel Parco Naturale della Bessa opera un'associazione molto attiva, l'Associazione Biellese Cercatori d'Oro, che organizza escursioni lungo il fiume Elvo, ed insegna le antiche tecniche per la ricerca dell'oro dal greto del fiume. 
Tecniche che dovevano essere ben conosciute ancora nel Settecento agli abitanti di Acqualunga, ancora sull'Oglio a pochi chilometri da Azzanello, protagonisti di una piccola corsa al metallo giallo. A scriverne è il naturalista e geologo Giambattista Brocchi nel suo “Trattato mineralogico e chimico sulle miniere di ferro del Dipartimento del Mella” del 1808, che così descrive la circostanza: “Alcuni contadini di Acqualunga, villaggio posto sulle rive dell'Oglio, si erano avvisati ne' tempi trascorsi di mettere a profitto questa sorta di ricchezza. Il metodo di cui si valevano per separare dalle particelle pietrose i grani d'oro era semplicissimo, e simile a quello adottato dai paesani di Gez sul Rodano, e dagli abitanti della Contea di Schwartzburg sparsi nelle vicinanze del fiume Sala. Esso consisteva nel fare scorrere il materiale aurifero, stemperato nell'acqua, sopra una tavola inclinata, su cui erano praticati di spazio in ispazio alcuni tagli obbliqui nel senso della sua larghezza. Le pagliette fermavansi in queste scannellature, mentre l'acqua trasportava le parti meno pesanti. L'oro rimaneva ancora mescolato con molta sabbia, e si otteneva puro mediante l'amalgamazione col mercurio, che compiva l'operazione. Alcuni, invece di tavole, servivansi di velli di agnello, dirigendosi in tutto il resto col medesimo meccanismo. Questo ramo d'industria è presentemente affatto negletto”. La nostalgia di quell'età dell'oro fu però dura a morire se ancora nel 1864 sopravviveva la fama di quelle sabbie aurifere. In occasione dell'Esposizione Agraria Bresciana, infatti, uno degli organizzatori, il conte Alessandro Bettoni, oltre ad animali ed attrezzi rurali, chiedeva al conte Luigi Martinengo Villagana di presentare “un po' d'oro ricavato nel letto dell'Oglio, anche in tenuissima quantità, accompagnato da due o tre chilogrammi di quella sabbia”.
Cercatori d'oro sul Serio negli anni Venti
Sulle sponde del Serio, nei luoghi più frequentati, si trovano dei cippi di granito che recano incisa questa scritta: “Fiume Serio - Diritto esclusivo di pesca, pesci e oro del conte Giuseppe Bonzi di Crema - Dal ponte di Mozzanica allo sbocco dell'Adda”. È la famiglia Bonzi che ha fatto collocare
questi cippi lungo le rive del Serio a pubblica affermazione dei propri diritti in base ai privilegi anticamente derivati e che essendo anch'oggi in possesso di questa esclusività, di tratto in tratto fa ripristinare le parole incise nel granito. La nobile Famiglia Bonzi, trasse origine da una famiglia di barcaioli del Serio, probabilmente oriundi da Ripalta: nel 1452 certo Franchino Bonzi, barcaiolo, aveva una barca grande con la quale faceva il viaggio da Crema a Venezia, percorrendo il Serio, l'Adda ed il Po: nel 1509 Bernardino Bonzi, navarolo, sorpreso a trasportare armi con la sua barca a vantaggio di Venezia, venne preso e crudelmente squartato dai Francesi. Nel 1694 i Bonzi furono solennemente investiti della giurisdizione del Serio, con prerogativa feudale e con titolo di conti, con diritto esclusivo di pesca su tutta la parte del Serio che scorre nel territorio cremasco, nonché sull'oro che in tempi trascorsi si cavava dalle sabbie del fiume, ma in piccole quantità e con gran dispendio di tempo e di lavoro. I Bonzi tenevano la loro residenza in una villa con bel giardino a strapiombo sul Serio. Il Centro di ricerca Alfredo Galmozzi di Crema conserva in archivio una rara immagine che raffigura cercatori d'oro sulle sponde del Serio nei pressi di Bocca di Serio, risalente probabilmente agli anni Venti.
C'era anche oro nel Po: nel 1423 il diritto di estrarlo dalla ghiaia era stato acquistato dal Capitano del Naviglio di Pavia Pasino degli Eustachi, che possedeva anche case a Cremona dove spesso si recava per affari. Con i suoi figli era uno dei mercanti più attivi di calcina, legna, panni e pesci freschi e salati provenienti da Venezia. Intorno al Mille Le “Honoratie Civitas Papie” cita i fiumi da cui si cava oro: Po, Ticino, Sesia, Agogna e Trebbia. Il Ticino era di proprietà regale ed a Pavia vi avevano diritto di ricerca gli Auri Lavatores, obbligati da giuramento a rivenderlo alla Camera Regia o ai Magistrati della Moneta. Successivamente il diritto, per alcuni tratti del fiume, fu ceduto in regalia ad ecclesiastici e a privati. Tra il XIV e il XV secolo, periodo di maggior sfruttamento del tratto pavese, il Paratico dei Mercati di Pavia ne deteneva il diritto, acquisito o avuto in regalia, dai precedenti proprietari. Quella degli Auri Lavatores era a suo tempo una delle professioni più ambite ma dopo il 1500, sia per l'impoverimento del fiume, che per la maggiore quantità di oro circolante proveniente dalle Americhe appena scoperte, il mestiere decadde e da allora il dirtto di cavare metalli dal fiume non si distinse più dal diritto di pesca o di cavare sassi. La ricerca dell'oro era praticata saltuariamente dagli uomini di fiume, che erano di volta in volta boscaioli, pescatori, raccoglitori di sassi, di legna e via dicendo. Anche a Lodi è documentata la presenza di cercatori d'oro in epoca antica. Tra i privilegi concessi dall'imperatore Federico Barbarossa al momento della fondazione della città nel 1158, vi è tra gli altri, anche quello di raccogliere l'oro nell'Adda riservato agli abitanti della città: come nel caso di Pavia i cercatori erano chiamati aurilevantes.
Cercatori d'oro sul Serio (anni Venti)
Sull'Adda e sul Serio, dove non ci sono rapide su greto ciottoloso e dove il sedimento e l'oro sono più fini, per trovare l'oro veniva utilizzato il banco. Era formato da due o tre ruvide tavole di legno, lunghe fino a due metri, tenute insieme in modo da formare un largo canale ed era lo strumento fondamentale da cui derivano gli strumenti moderni più aggiornati. Queste tavole accostate l'una all'altra, già ruvide per la loro stessa natura, venivano inoltre intagliate fittamente a colpi d'ascia per creare ostacoli allo scorrimento delle sabbie in modo da ottenere depositi d'oro. Lo strumento, posizionato sulla riva, era tenuto rialzato da terra tramite sostegni in legno flessibili che consentivano di farlo periodicamente dondolare agendo con una mano sulle sponde facendo scivolare in basso il materiale più grossolano e lasciando depositare l'oro negli intagli. Una persona vi caricava il materiale da lavare con la pala, un'altra vi versava sopra abbondante acqua con un secchio fissato a un lungo bastone trasversale chiamato “sucon”, necessario per raggiungere tutti i punti del banco senza ostacolare il caricamento del materiale. Periodicamente occorre eliminareil materiale che si era ammucchiato ai piedi del banco e spostare lo strumento in un'altra zona ancora da sondare. Quando si riteneva che il banco fosse saturo, lo si girava e lo si poneva verticalmente in un canaletto di legno lungo e stretto, chiamato“conchino” e, usando una spazzola e dell'acqua, vi si faceva cadere il concentrato, che veniva sottoposto ad un ulteriore lavaggio agitando il conchino a pelo d'acqua in modo da eliminare le parti più leggere e poi si faceva scivolare il residuo in un bacile, detto “trula”.
Cercatori d'oro sul Ticino
In Lombardia tutti i fiumi sono più o meno auriferi perché i sedimenti di questo metallo provenienti dall'arco alpino, sono stati trascinati a valle al termine delle glaciazioni. Anche Lambro e Olona, a detta degli esperti, porterebbero nel loro umilissimo grembo tracce del prezioso minerale. C'è oro anche nel Po, ma è il Ticino il sito aurifero lombardo per eccellenza: fino a una quarantina di anni fa i fidanzati del Vigevanese avevano l'abitudine di cercare proprio sui suoi argini il prezioso metallo per la vera nuziale. Abbastanza generosi anche alcuni torrenti del Varesotto e l'Agogna, che dalla provincia di Novara attraversa parte della Lomellina. L'Adda, infine, sarebbe molto ricco di luccicanti promesse, ma gli appassionati lo considerano un «paradiso perduto» a causa del divieto di ricerca posto nel territorio del Parco dalle autorità. Per trovare i punti giusti bisogna guardare bene la conformazione dell'argine: se la sponda è erosa da una piena recente e sono visibili tracce nere di ferro e tracce rosse di granato, vuol dire che in quel punto la corrente ha depositato materiale pesante e, probabilmente, anche dell'oro. Gli attrezzi del mestiere sono umili: una zappa per smuovere il terreno; un badile per riempire di terriccio un secchio da muratori dotato di setaccio e il piatto che gli esperti chiamano batea al centro del quale, alla fine di pazienti irrorazioni e filtraggi, rimangono imprigionate le scaglie d'oro.

venerdì 26 giugno 2015

Gli uccelli noi li chiamiamo così


Che cosa ha ispirato generazioni di cremonesi e di lombardi ad attribuire nomi vernacolari a 283 specie di uccelli, che da soli rappresentano quasi il 60% dell'avifauna nazionale, individuandone con freschezza e spontaneità le caratteristiche più salienti, ed inserendo ogni specie nell'habitat che le era più consono? E' quando cerca di spiegare il nuovo libro di Riccardo Groppali “Uccelli e dialetti. La natura osservata dal popolo” edito da Cremonabooks, analizzando oltre 5000 nomi vernacolari di dei territori provinciali. Sono stati nella maggioranza dei casi la voce, i canti e i richiami ad esercitare la fantasia dei nostri progenitori, con nomi sia strettamente onomatopeici oppure che si ricollegavano a rumori già ben noti nella vita del passato, come è il caso, ad esempio, del Porciglione che, per il suo richiamo simile al grugnito di un maiale, viene in cremonese chiamato Grügnet. Altre volte sono state le dimensioni degli uccelli, verificate dopo la loro cattura, a suggerirne il nome, come nel caso della Beccaccia e del Beccaccino, chiamati indifferentemente Becàcia. 
Un gabbiano
Oppure ancora l'habitat naturale nel quale erano stati osservati, con definizioni scientificamente ineccepibili, come è nel caso del Canareccione, che vive nei canneti, chiamato dai cremonesi Canaröla, o per il Passero d'Italia, che nidifica sotto i tetti, detto Bèca-cop. L'attenta osservazione in natura degli elementi più vistosi della corporatura o del piumaggio ha fatto sì che venisse chiamato Bucàsa il Succiacapre, per la sua ampia bocca, altre volte è stata la somiglianza con gli uccelli domestici e più conosciuti, come i polli, che ha suggerito di chiamare la Gallinella d'acqua Galinèta, oppure la convinzione che specie diverse preferissero un cibo specifico che in determinate zone fosse più disponibile, nel caso di insettivori come il Forapaglie che i cremonesi,
convinti si cibasse di miglio, chiamavano Bèca-mèi. In pratica tutti gli uccelli erano oggetto di caccia, con metodi che oggi definiremmo di “bracconaggio” e quindi solo ciò che si presentava come inconsueto, poteva meritarsi un nome particolare. Analizzando le singole specie, come ha fatto Riccardo Groppali, è interessante vedere quando è stato applicato un criterio piuttosto che l'altro. Prendiamo ad esempio, la Strolaga, un uccello nuotatore che nidifica nell'Europa settentrionale ed è presente nelle nostre zone solo d'inverno durante le migrazioni: per definire il tipo minore i cremonesi si sono rifatti al suo richiamo gracchiante e l'hanno chiamata Gir, senza prendere in considerazione il suo vero nome. Lo svasso maggiore, prima presente solo durante le migrazioni ed ora invece abitante consueto delle paludi ferme, e il Tuffetto, sedentario, più di altri hanno sollecitato con le loro abitudini la fantasia dei cremonesi: dal momento che nuotano vengono chiamati Nudéen e Nudée gros lo svasso maggiore; vanno sottacqua, e dunque diventano Sotaquìi; si immergono con una specie di tuffo e possono raggiungere il fondo, cosicchè diventano Fundéen, ma frequentano anche piccole pozze d'acqua, per cui nel cremonese orientale il Tuffetto è Puciaröl da pùcia, pozzanghera. Il verso Piuu dello svasso piccolo e quello uit-uit del Tuffetto avrebbero originato il cremonese Fisòl, anche se Valerio Ferrari, preferirebbe una derivazione dal latino fusulus, cioè piccolo fuso, per la forma affusolata che questi uccelli assumono durante il volo. 
Il martin pescatore
Dal latino aspergere potrebbe derivare anche il nomignolo Pèrtga attribuito nel cremonese orientale al Tuffetto, a ricordare che l'immersione di questi uccelli è talmente rapida da provocare schizzi d'acqua. Smàrga chiamano invece i cremonesi la Nitticora o Garzetta: deriverebbe dal greco smarageo, che significa rumoreggio, riferito allo strepito emesso dalle colonie di aironi durante la nidificazione. Ma la presenza nei riproduttori di piume sottili e allungate, utilizzate nella confezione di cappellini nel secolo scorso, ha dato origine anche da un'altra serie di denominazioni derivanti dal latino medievale garza, cioè lana cardata, oppure gaxia e gasum, canapa di ottima qualità, per la somiglianza di questi materiali con il piumaggio ornamentale di questi uccelli, che nel cremonese hanno spinto a chiamare Sgarzèta bianca la Garzetta, Sgàrs rùs l'airone rosso, Sgàrsitì il tarabusino.
Il suono gracchiante uach emesso dalla Nitticora durante la notte ha dato Quach nel cremonese, e i chech acuto del tarabusino che ricorda il belato di una capretta, ha originato il cremonese cavrèta, ma anche Centòs, per la poca carne rispetto alla quantità delle ossa. L'alzavola è una verità di anatra molto comune ma in cremonese viene chiamata Gàaver, un termine derivante probabilmente dal latino gavia, utilizzato per indicare i gabbiani o altri uccelli acquatici, oppure dalla base prelatina gaba o gavia percorso d'acqua o letto di fiume. In ogni caso gàaver è un termine che viene utilizzato
anche per indicare le persone rozze e maleducate. Resta da capire se questo sia dovuto all'abitudine di questi uccelli di alzarsi in voli improvvisi e verticali dall'acqua per allontanarsi da una minaccia, e questo sia stato interpretato dai cacciatori come un gesto di maleducazione!
Il porciglione
Il suo particolarerichiamo “chich crich” potrebbe invece averla fatta chiamare Grilét nel cremonese orientale. La conformazione della coda del maschio del Codone gli ha valso nel cremonese il nome di Cùa lùnga, ma anche Fourbesòon e Còl Lònch, mentre Cüciaròon è detto il Mestolone, per la conformazione dei becco simile a un grande cucchiao. Còo vèrt è invece il germano reale, mentre il fischione, dal suo fischio “ui-uuu” è detto Pìu e il maschio della marzaiola, sempre a causa del suo raspante “prrt” origina a Cremna l'onomatopeico ruchèt e, per la sua somiglianza al rumore di una sega, reseghèt. Rasegòt, per la seghettatura del becco, è chiamato lo smergo minore, ma anche pescarett e pesèra, ma anche Gàavera pusadùura la più piccola pesciaiola, che si tuffa in verticale come se si dovesse immergere in un pozzo. Anche i rapaci diurni hanno goduto di una particolare fortuna, anche se poi la poiana ha finito per prevalere su tutti gli altri, con una certa confusione, per cui Pujanòn è stato chiamato il nibbio bruno, il falco di palude, Pujàana de làch o falchetòn. Sgrifòn, dal dialettale sgrìfa, era chiamato il grifone, poi completamente estinto, ma un tempo presente al punto che il consumo della carne di avvoltoio veniva consigliato per combattere l’emicrania e l’epilessia, e i suoi escrementi venivano fatti annusare alle partorienti per accelerare il travaglio. Il consumo di carne di nibbio era suggerito, invece, anche contro la gotta, l’applicazione del suo fegato serviva a guarire alcune malattie degli occhi e quella del suo grasso contro i dolori muscolari. Il grasso di falco, oltre che nella cura degli occhi, veniva utilizzato per combattere alcuni tumori e la sua carne contro malattie cerebrali, mentre l’assunzione dello sterco favoriva la sudorazione. L’abitudine del gheppio a nidificare nelle cavità degli edifici urbani monumentali è all’origine nel cremonese della denominazione di falchèt da tur. Tra i galliformi, ancora oggi molto apprezzati dai cacciatori per la loro carne, ricordiamo la starna, detta nel cremonese Cutùrn, dal latino coturnix, cioè quaglia.
Il rampichino
Nomi curiosi si hanno anche tra i limicoli, gli uccelli che vivono tendenzialmente nelle paludi, caratterizzati da zampe allungate, ma con richiami e conformazione del becco spesso molti differenti. Ad esempio la voce lamentosa della pavoncella “pii-ui” viene ricordata a Cremona con Suìga. Il chiurlo maggiore viene chiamato invece cïu-cïu, ma anche cürlèt, dalla somiglianza tra il suo richiamo e il cigolio del verricello del pozzo, con lo stesso nome vernacolare. Anche l'avocetta viene chiamata in due differenti modi: vocéta, con riferimento al dialetto gùcia, per il becco sottile da ricordare un ago, oppure bechinsö per la curvatura verso l'alto estremamente caratteristica. La provenienza lontana durante le migrazioni di uccelli che ricordano piccoli tacchini ha dato il nome a Cremona ai chiurli maggiori, chiamati pulina de màar e minori, pulinèta de màar, ma un uccello così comune con il gabbiano, ha invece generato il nome di cucài per il suo verso, mentre il più scuro mignattino viene designato megnanèen, richiamando gli abiti scuri da lavoro dei calderai. Interessante il termine dialettale utilizzato per indicare la colombella, pertezaròol, che avrebbe origine nel rumore prodotto da uno stormo di colombelle affamate che si posa su una quercia, privandola in breve tempo di tutte le ghiande come se fosse battuta dalle pertiche di chi staccava i frutti dagli alberi, chiamati pertegaròi. Riccardo Groppali ricorda che il sangue del colombaccio, applicato caldo veniva usato contro le piaghe agli occhi, era un ingrediente di cataplasmi contro le ustioni, mentre per uso interno, se estratto da un esemplare nutrito con fave, era utilizzato contro i calcoli renali e le infiammazioni della vescica, e cotto in aceto, contro la dissenteria. Interessante è anche la vicenda del succiacapre, che si è ipotizzato usasse la grande bocca per succhiare il latte alla capre, da cui il cremonese Ciöcia càvre, o della vacche, da cui Tetavàch. Il termine deriva dal fatto che in effetti la specie volava spesso nei pascoli per approfittare degli insetti che vi erano abbondanti, sfiorando in questo modo il bestiame e inducendo il sospetto che si cibasse del latte. La sua grande apertura boccale ha suggerito ai cremonesi anche la definizione di Saatòn, cioè grande ciabatta.
Lo storno
Ma vi sono altre centinaia di nomi per identificare anche gli uccelli più piccoli e comuni, che dimostrano la grande attenzione riservata all'ambiente ed ai suoi abitanti da parte dei nostri progenitori. Un patrimonio, anche linguistico, che rischia di essere dimenticato, anche a causa delle profonde alterazioni subite in questi ultimi anni dalla campagna. Scrive infatti Groppali: “Il modello monocolturale basato sul mais, oppure le risaie con acqua molto bassa e frequentemente asciutte, l'eccesso di fertilizzanti che contaminano le acque superficiali e i fossi che le contengono solo per un breve periodo dell'anno, l'impiego crescente di sostanze biocide che danneggiano l'avifauna direttamente o indirettamente (privandola del cibo), l'eliminazione dei margini dei coltivi e delle siepi o filari, la cancellazione dei prati e delle marcite, l'espansione edilizia (con digestori e nuovi insediamenti) e delle infrastrutture, hanno contribuito alla banalizzazione dell'ambiente e alla rarefazione di gran parte delle specie che erano tipiche della campagna fino a non molti anni fa. Per tutti questi motivi in Europa l'avifauna è danneggiata per il 42% del suo patrimonio complessivo proprio dall'intensificazione delle pratiche agricole. Una delle trasformazioni recenti e di maggior importanza nell'agricoltura di pianura è la cancellazione progressiva della dotazione arborea e arbustiva al margine dei coltivi: così in gran parte della Marca Trevigiana tra 1960 e 1990 sarebbe stato eliminato dal 70 al 90% del sistema d'alberature tra i campi, e nel Parco Cremonese del Po (ampio 2.430 ettari e collocato tra città e fiume) tra 198 e 2002 l'eliminazione di siepi e filari ha superato il 45%. Le conseguenze sull'avifauna di questa formidabile banalizzazione ambientale sono state estremamente negative: confrontando nella Valpadana interna aree a coltivazione intensiva ampie e con differenti quantità d'alberi e arbusti lungo i bordi dei campi, studiate ogni mese per un anno, in quella più ricca di tali elementi sono state censite 52 specie con 2.456 individui, e in quella priva di vegetazione legnosa al margine dei campi rispettivamente 13 e 182. Un paragone che non richiede commenti”.
Non hanno mai goduto invece di grande simpatia i rapaci notturni, in quanto si credeva che il loro canto portasse sfortuna. In particolare era ritenuta portatrice di morte la civetta per l’attrazione esercitata dalla luce sugli insetti notturni e, di conseguenza, anche sul loro predatore. In passato, essendo scarsa l’illuminazione e molta la miseria, la luce veniva mantenuta accesa solo in caso di grave necessità, come può essere quello della stanza in cui accudire un malato grave. Questo faceva affluire numerosi insetti che si affollavano presso la finestra, ben presto seguiti dalla civetta che se ne cibava, e dal momento che spesso le cure precarie erano infruttuose, la credenza popolare volle che il verso dell’uccello costituisse un funesto presagio. La civetta, però, era anche utilizzata per la cattura di altri uccelli, spinti dal fatto che il rapace notturno individuato come dormiente possa essere facilmente scacciato dal proprio territorio. Questo ha favorito indubbiamente la loro conoscenza originando nomi in vernacolo che identificano questa funzione, come Uzelòon a Cremona per il gufo comune, per ricordare le sue grandi dimensioni. Secondo la diceria popolare la cenere degli occhi di gufo era l’ingrediente di un collirio usato per migliorare la vista e il cervello veniva impiegato esternamente per curare le piaghe e contro la scabbia.


Le suffragette del mandolino

Non ci fu solo George Sand che fumava sette sigari al giorno in abiti da uomo, a gettare scandalo verso la fine del secolo. Ma sicuramente all'anticonformista scrittrice francese devono aver pensato i perplessi spettatori cremonesi che la sera del 13 ottobre 1899 videro salire sul palco del teatro Filodrammatici per la prima volta quelle quattro donne in camicetta bianca e lunghe gonne nere armate non di sigaro, bensì di mandolino. Un quartetto classico a plettro, costituito da Teresina Franzetti al primo mandolino, Maria Morenghi al secondo mandolino, Ines Manara alla mandola, e Rosilde Bignamini al mandoloncello. E' il primo gruppo di donne che osò suonare con un ensemble maschile, vere e proprie eroine dell'emancipazione femminile.
Le quattro mandoliniste del 1899
Per trovarne un altro, ma interamente femminile, bisognerà attendere il 1901, quando in Inghilterra, patria storica del clubs, farà la propria comparsa la Laton Ladies Mandolin Brand un gruppo di oltre sessanta esecutrici, tutte di rango nobiliare, in uno storico concerto alla Royal Albert Hall. Un fatto inaudito per i tempi, anche se associazioni mandolinistiche esclusivamente femminili erano abbastanza frequenti, ma le cremonesi sfidando i pregiudizi, si presentavano sul palco insieme ai maschi. E la loro presenza era talmente “ingombrante” da costringere il “Circolo dilettanti mandolinisti e chitarristi di Cremona” nato ufficialmente il 5 gennaio 1987 a cambiare solo due anni dopo la propria denominazione in quella di “Circolo mandolinisti e mandoliniste cremonesi” per lasciare spazio alle nuove entrate che da quattro, divennero nel giro di poco tempo sei e poi sette. I loro nomi sono ricordati in occasione della prima vittoria in un concorso nazionale a Lodi nel 1901: E. Anfossi, Z. Bellingeri, E. Maggi, L. Manara, G. Rinoldi, R. Bignamini, F. Castiglioni. Ma in un concerto al Filo ne sono ricordate addirittura 40, e l'entusiasmo che accompagnava le loro esibizioni era talmente incontenibile da costringere molte delle ragazze che accorrevano incuriosite a vedere lo spettacolo a restarsene fuori. Le prime quattro intrepide musiciste sono raffigurate impettite davanti ai leggii mentre imbracciano il loro mandolino, in una vecchia fotografia recuperata da Giorgio Levi nel 1953 e pubblicata sull'ultimo numero del glorioso settimanale “Sabato illustrato” diretto da Fiorino Soldi. Il nuovo statuto del circolo il 30 ottobre 1899 riconosceva alle donne il diritto di far parte dell'orchestra e dato che allora i componenti di un complesso musicale composto da dilettanti non solo neppure lontanamente potevano pensare di essere ricompensati, ma anzi, per farne parte, dovevano pagare una quota annuale, veniva fissata anche per esse una quota di iscrizione. Pagavano ben sei lire all'anno mentre gli uomini dovevano versarne la bellezza di dodici. Una cifra enorme, mitigata solo dal fatto che la società, ben comprendendo come non si potesse pretendere che dei musicisti dilettanti versassero un capitale simile in una volta sola, aveva deciso una rateazione fissata in dodici mesi, una lira per gli uomini e mezza per le donne. Anche a Cremona il circolo era nato, quasi in sordina, sull'onda dell'interesse crescente per il mandolino, cui verso la fine dell'Ottocento erano dedicati gruppi, ensemble, estudiantine e un gran numero di periodici specializzati. Nel 1896 del nucleo originario facevano parte Luigi Gaetani, Alfredo e Guido Manara, Michele D'Alessandro e Gian Francesco Poli che ne era direttore.
La costituzione ufficiale risale al 5 gennaio 1897. Le prove si tenevano in una angusta stanza di vicolo Bissone, oggi via Pecorari ma, alla ricerca di una sede adeguata, il neonato circolo aveva indirizzato una richiesta al teatro Filodrammatici, accolta dalla società nell'assemblea del 17 dicembre, che vi aveva visto la possibilità di riprendere quella vitalità che con il tempo aveva perso. Il nuovo circolo dovette ben presto farsi conoscere se già due anni dopo la sua costituzione andò a vincere un concorso nazionale a Lodi. Anima e guida del complesso era il maestro Gian Francesco Poli, al quale poi nel 1928, una volta venuta meno la presenza delle donne, il gruppo venne intitolato. Il maestro assegnava i posti e le parti senza che gli esecutori potessero opporvisi e senza il suo permesso le parti non potevano essere trasportate all'esterno. Era anche vietato eseguire brani del repertorio in concerti non proposti dal circolo, pena l'immediata esclusione dal sodalizio. 
La vittoria a Lodi nel 1901
All'inizio il complesso, oltre ai mandolini, comprendeva anche fiati, pianoforte e contrabbasso ma poi nel 1901 il maestro volle costruire una formazione meno ibrida, rigorosamente a plettro, introducendo la mandola contralto, il quartino di mandolino per sostituire il flauto, e il mandolone basso, fatto realizzare a Napoli dai Vinaccia su suo disegno: strumenti destinati poi a far parte di ogni formazione a plettro. Lo stesso Poli, d'altronde, aveva aperto una piccola fabbrica nell'ex teatro Alfieri di via Villa Glori dove, inseme all'amico Aristide Cavalli, a sua volta proprietario di un negozio in cui si vendevano libri e strumenti, nel 1895 aveva per qualche tempo costruito mandolini e chitarre. Il circolo dapprima si dedicò all'esecuzione di brani di autori locali, poi, grazie al maestro Poli, il repertorio divenne più impegnativo con autori come Cherubini, Mozart, Beethoven, Cimarosa, Donizetti e Ponchielli. Anche gli spettacoli, che in un primo tempo alternavano esecuzioni musicali a intrattenimenti con giocolieri e attori comici, divennero più qualificati ed il compito di creare uno stacco a metà serata venne affidato al quartetto di plettro, dove peraltro in questo primo periodo, si esibivano solo uomini. I mandolinisti e le mandoliniste si esibivano al teatro Filodrammatici, al Politeama-Verdi e al Concordia-Ponchielli. Ma erano soprattutto i concerti fuori città a Casalbuttano, Casalmaggiore, Busseto, Piacenza ad accrescerne la fama.
La svolta arriva con la partecipazione al concorso nazionale di Lodi, dove ottiene la prima vittoria ex aequo con il gruppo di Mortara. Il cronista presente in sala ha parole di autentica ammirazione: “I mandolinisti suonano magistralmente, ripeto la parola che corre di bocca in bocca, non dei molti
cremonesi che trepidanti assistono alla gara, ma dei lodigiani e dei forestieri. Quando poi hanno finito il loro pezzo a scelta - la sinfonia della Lina del grande Ponchielli - per l'ampio teatro scoppia un applauso frenetico. In questo momento se lo potessi andrei a baciare Cecco Poli, tutti i mandolinisti e le mandoliniste gentili e brave”.
In occasione del discorso funebre per la morte del maestro Poli tenuto da Uberto Novati al teatro Ponchielli il 30 aprile 1928, vengono riepilogati i grandi successi ottenuti dal Circolo ai concorsi mandolinistici nazionali ed internazionali. “Giornate indimenticabili, di lavoro e di entusiasmo
costituivano il miraggio perseguito durante una intera annata, l'ambito premio allo studio e alle fatiche del maestri e dei discepoli. Era caratteristico il suo mutismo, nelle ore precedenti l'esecuzione in un concorso, che a vittoria ottenuta si tramutava in affettuosa espansione e in gioia giovanile. Tre soprattutto sono le vittorie memorabili conseguite a Trento (1904), Monaco (1906) e a Bona (1908) in Africa. Trento: non fu soltanto una vittoria artistica, fu la consacrazione dello spirito patriottico del Circolo. Si andò a Trento perchè era Trento e ci si andrà col cuore traboccante di amore e di feste. Dolce è ricordare l'accoglienza fraterna dei cittadini e quella affettuosa del maestro Gottardi, padre di quella Silvia che doveva più tardi sfidare carcere e patibolo nel nome d'Italia, e nel giorno seguente. L'ansia della gara, il corteo sfilante sotto la pioggia di fiori, l'ebrezza del trionfo, il giardino Scotoni illuminato con lampade tricolori. Monaco consacrò la fama artistica del circolo. Nella città del lusso e del piacere, Gian Francesco Poli affermò la supremazia della sua orchestra e del suo metodo. «Voi ci avete dato una lezione che non dimenticheremo mai più», così dissero gli altri direttori al nostro Maestro. Il Gran Premio di Monaco ebbe un eco profonda tra tutte le estudiantine francesi e spagnole. Bona: fu un sogno, la principessa lontana che ognuno va a cercare una volta in sua vita. Un concorso in Africa. Pensate! Il mare, le palme, le moschee.
Il gruppo a Parigi nel 1912
Per parecchi mesi non si parlò d'altro. Poi furono il viaggio, la partenza sul piroscafo fra tuoni e fulmini. La nausea e il mal di mare si ripercosse sul fisico e sul morale di molti. Ma nel secondo giorno i raggi del sole brillavano sul mare e la calma e la fiducia rinacquero negli spiriti. Il Maestro, che durante il viaggio non si era mai mosso dalla cabina, salì con me sul ponte il terzo giorno prima che spuntasse l'alba. Non dimenticherò mai più l'incanto di quell'ora in cui non era giorno ancora e non era più notte. Poi sfolgorò il sole, apparve la città. Ed anche a Bona la battaglia fu vinta”.
L'ultima vittoria dovette essere particolarmente emozionante, se lo stesso sindaco Dario Ferrari, si sentì in dovere di inviare due messaggi ai musicisti cremonesi in trasferta. Il primo era indirizzato alla presidenza del Circolo: “Poichè ancora poche ore ne separano dal ritorno fra noi della valorosa falange dei distinti cultori dell'arte musicale ascritti a questo Circolo, valorosa falange che per merito di chi la guida e di ciascuno dei suoi componenti, ha riconsacrata a Bona, nella lontana Algeria, i titoli legittimi della sua incontestabile rinomanza, sente il bisogno questa Civica Magistratura, che da parte sua giungano alla nobile schiera, brillantemente vittoriosa, i suoi rallegramenti vivissimi”. Dopo aver affermato che “niuno appartenente alla città nostra ha mai dubitato dell'esito trionfale del nuovo arduo cimento, in che volle misurarsi questo Circolo” assicura che “la certezza anticipata del trionfo non scema, né attenua la compiacenza, di cui tutti sono compresi, compiacenza legittima ed elevata, che accende di entusiasmo il cuore di ogni concittadino”. Il secondo messaggio era invece indirizzato allo stesso maestro Francesco Poli: “Quanti apprezzano il culto dell'Arte musicale e lo tengono in onore ammirano ben a ragione ed esaltano l'opera veramente geniale, che Ella per straordinario intuito ed irrisistibile vocazione consacra all'incremento artistico di questo Circolo, del quale Ella è vanto e decoro. Consenta pertanto che non mi appaghi di esprimere i sentimenti della cittadinanza e della civica Magistratura a tutti coloro che contribuirono con la loro valentia al nuovo trionfo riportato nel
recentissimo concorso internazionale di Bona, ma rivolga a lei, valoroso Maestro - che tale debbo nomarla - la mia parola che è l'eco di un coro imponente di laudi sprigionatesi in questi giorni dalle vecchie mura della nostra Cremona. E' giusto che tanto valore d'ingegno ottenga il meritato guiderdone, il quale in tal caso si estrinseca e concreta nel plauso che incondizionatamente le viene tributato dalla universalità dei concittadini e dalla Civica Magistratura, in nome della quale le porgo insieme ai miei personali e particolari i sensi del più vivo compiacimento”. L'orgoglio era legittimo. Basti pensare che nella giuria del concorso internazionale di Bona figuravano Jules Massenet e Camille Saint-Saëns. Dopo altri premi nel 1909 al concorso internazionale di Boulogne sur Mer, nel 1910 il Circolo riesce ad organizzare dal 14 al 16 maggio un concorso internazionale aCremona, vinto dalla Mandolinata Ateniese. Nel 1911 il gruppo ottiene un'altra vittoria a Torino e nel 1912 vince a Bergamo e a Parigi. Nel 1928 scompare il maestro Francesco Poli e il timone del gruppo passa a Pietro Feroldi, già direttore della banda cittadina che porta l'ensemble mandolinistico, costituito da 35 elementi, a vincere ancora un primo premio nella categoria “eccellenza” al concorso di Bergamo. Ma negli anni seguenti le esibizioni del gruppo si diradano e le poche serate di spettacolo sono condotte insieme alla sezione filodrammatica. Dopo il 1931 l'attività si arresta e il complesso di fato si scioglie, nonostante il consiglio avesse istituito nel 1929 una scuola di strumenti a plettro, con lo scopo proprio di incrementare l'attività della sezione mandolinistica, ormai intitolata a Francesco Poli. Ma sarà solo dopo la conclusione della guerra, nel 1948, che vi sarà l'occasione di riportare in vita il complesso con il maestro Stefano Valerani. Ma le donne mandoliniste ormai sono sparite: al concorso di Wiesbaden, dove nel 1950 vince il terzo premio, si presentano 31 esecutori maschi. Il gruppo proseguirà nell'attività fino al 1965 con un quintetto di mandolinisti, ma sarà il canto del cigno.


Arriva Buffalo Bill

Buffalo Bill, al secolo William Frederick Cody, ex colonnello dell’esercito degli Stati Uniti, leggenda vivente dell’epopea americana della Frontiera, arrivò a Cremona la mattina del 18 aprile 1906 alla testa del suo gigantesco circo equestre per un evento che, in ogni città d’Europa dove aveva dato spettacolo, aveva suscitato sorpresa ed entusiasmo, mobilitando folle oceaniche. Da quando, intorno al 1883, aveva lasciato il circo Barnum, dove si era esibito con la carabina ed una mezza mandria di cavalli selvaggi, per mettere insieme la sua colossale compagnia, Buffalo Bill era entrato nel cuore e nella fantasia degli abitanti del Vecchio Continente, che avevano conosciuto la sua storia più attraverso i romanzi di avventura che i libri o i giornali. Nel 1870, quando aveva appena ventiquattro anni, era già eroe leggendario, tanto che il popolare scrittore Ned Buntline ne aveva fatto il protagonista di un suo romanzo, “Il re della frontiera”, che venne venduto a milioni di copie. Due anni dopo era già stato protagonista, peraltro con scarsa fortuna, in un dramma di avventure del West scritto appositamente per lui. Dunque l’attesa per questo spettacolo, che si annunciava come il più accattivante del tempo, era spasmodica. Fin dai primi di marzo la stampa locale aveva iniziato a seguire le vicende del grande circo sbarcato a Marsiglia il 4 marzo per la prima rappresentazione. In Italia, di tappa in tappa, la gigantesca troupe era poi passata a Roma per poi risalire al Nord. Da ogni location venivano inviati dispacci alla stampa per tenere al corrente il pubblico degli spostamenti del circo. Le rappresentazioni, costituite da un vero e proprio spettacolo da circo equestre in cui erano impegnati uomini e cavalli, furono precedute da un battage pubblicitario come non si era mai visto in Italia. Un lancio all’americana che era già di per se stesso uno spettacolo, al punto che la gente accorreva persino ad assistere allo scarico dei materiali alla stazione ferroviaria ed al montaggio dell’arena, un’ampia tribuna coperta capace di contenere dodicimila posti nelle città più piccole, e sino a ventimila in quelle più grandi, che poteva essere allestita in tre ore. Tempi e tecnologie assolutamente nuove per quegli anni. Il circo, nelle città come Cremona, sostava una sola giornata, ma la sua perfetta organizzazione, che fu uno degli aspetti che più colpirono la fantasia degli spettatori italiani, consentiva in poche ore dall’arrivo del treno di avere l’intera struttura a disposizione. Il circo viaggiava su quattro convogli separati costituiti nel complesso da cinquanta vagoni appositamente predisposti, che giungevano a destinazione ad un’ora di distanza l’uno dall’altro, il tempo necessario a scaricare i materiali.
La troupe di Buffalo Bill

La compagnia contava in tutto circa 800 persone, di cui soltanto una decina di donne, di una dozzina di razze differenti: pellerossa delle diverse tribù, messicani, cowboys che avevano prestato servizio nel glorioso Settimo Reggimento Cavalleria degli Stati Uniti, cavallerizzi inglesi, arabi, zuavi, giapponesi, beduini del deserto, cosacchi. Buffalo Bill si portava dietro ben seicento cavalli di cui un centinaio erano adibiti al solo trasporto dei materiali dalle stazioni ferroviarie al luogo in cui veniva eretto il tendone capace anche di ventimila posti, per alzare il quale servivano 1.300 pioli, 4 mila pali, 30 mila metri di corde, 20 mila metri quadrati di tende, oltre 10 mila pezzi vari in legno e ferro ed un area di almeno 40 mila metri quadrati. Nella cucina da campo venivano consumati giornalmente 800 chili di carne, mille di pane, 400 di patate, 60 chili di burro, 150 di zucchero, 700 chili di agrumi, e 320 litri di latte e mille di the e caffè. Le derrate alimentari, cucinate e servite da 8 cuochi, 3 macellai e 10 camerieri, erano acquistate regolarmente nelle città dove il circo sostava. La cucina, dove troneggiava un enorme padellone di due metri di diametro, era alimentata da una caldaia a vapore con cui si provvedeva a preparare il the o il caffè e ad alimentare la tavola calda collocata nell’adiacente refettorio dove prendevano i pasti gli artisti, le maestranze, operai e tecnici. Il biglietto per lo spettacolo costava 2 lire; 4 per i posti numerati, 5 e 8 per i posti riservati. I ragazzi al di sotto dei 10 anni pagavano metà: per il tempo erano prezzi alti e sproporzionati.
Il primo vagone, con la squadra addetta alla pubblicità, giunse a Cremona una quindicina di giorni prima della rappresentazione: una carrozza ferrovia riappositamente costruita nelle officine di Stock on Trent, con scritte dipinte in oro su fondo bianco, dove era ricavato lo studio del direttore, il maggiore John Burke, e da cui partivano gli addetti alle affissioni di migliaia di manifesti, cartelloni e stampati di ogni tipo. Non vi fu vetrina di negozio o magazzino su cui non campeggiasse un’immagine di Buffalo Bill, affissa dopo che l’organizzazione aveva acquistato la bellezza di cinque quintali di farina bianca con cui fabbricare la colla necessaria. Manifesti molto “americani”, dai colori vivaci, di ogni misura, con varie scene e un quadro multiforme di varia umanità, una vera e propria lezione di ambiente e costume, la rappresentazione di un Far West mitizzato e fantastico. Ma anche pagine di quel romanzo storico di cui il colonnello William Cody era stato protagonista di rilievo con le sue gesta vere o leggendarie e quei personaggi che con lui avevano fatto la storia dell’America. Su uno di questi manifesti appariva Buffalo Bill con un cappellaccio in stile messicano che montava un maestoso cavallo con la criniera sciolta al vento, su un altro cartellone le macabre danze degli indiani attorno ad una capanna incendiata, oppure l’immagine di un soldato con una divisa fiammante che guida due focosi destrieri, o ancora quella dei pellerossa all’assalto di una sgangherata carovana di pionieri. I giornali dedicavano centinaia di righe a questa pubblicità che lasciava esterrefatti per sua meticolosa ricostruzione della realtà. Perciò quando venne il gran giorno, già dalle due del mattino del 18 aprile, con un freddo ancora pungente, una folla strabocchevole era già assiepata dietro le transenne, posizionate davanti allo scalo merci e si dovettero chiamare i Carabinieri per evitare il peggio. Il primo dei quattro treni della carovana arrivò da Mantova alle 3 e l’ultimo alle 4,35. Alle 5,45, una volta completato lo scarico, un primo drappello della troupe si diresse all’Ippodromo, situato dove oggi è piazza Castello per iniziare ad erigere il tendone mentre alla stazione i veterinari procedevano alla visita dei cavalli, ad iniziare da quelli da tiro destinati a trainare i carri con il materiale.
Buffalo Bill con Toro Seduto
Un migliaio di persone era già in attesa anche all’Ippodromo, per assistere all’arrivo della lunga teoria di carri, carrozze e cavalli che aveva iniziato a snodarsi dalla barriera di porta Milano: uno spettacolo che, ancora prima di andare in scena, dava prova della grande abilità con cui tutto il personale era impegnato nel manovrare quella moltitudine di animali senza un solo colpo di frusta. Poco prima dell’inizio dello spettacolo, a mezzogiorno, la pista era ormai pronta e molti della compagnia si riversarono in città con i loro splendidi costumi variopinti. Per il momento non si fece vedere solo Buffalo Bill, vero mattatore della scena, rimasto nel suo carro a dare gli ultimi ritocchi ai preparativi. Alle 14,30, nella grande arena a forma di rettangolo in cui si erano assiepate almeno 12 mila persone, al suono della marcia suonata dalla banda di cowboys, fecero il loro ingresso i primi drappelli di indiani a cavallo, cui seguirono altri gruppi preceduti dai loro capi avvolti negli abiti tradizionali dai grandi piumaggi, a cavallo di piccoli destrieri focosi. Seguì l’entrata in scena di moltissimi cowboys nelle loro camicie rossoscuro e si diede inizio al primo dei grandi caroselli del circo con la rappresentazione di alcune delle più famose battaglie dell’epopea americana: l’apparizione di Buffalo Bill fu accolta da una standing ovation. Poi seguirono i messicani con i loro sombrero e i caratteristici ponchos a righe multicolori. Dopo varie evoluzioni a cavallo i messicani ci cimentarono con i lazos che portavano agganciati alla sella. Seguirono quindi i lancieri in uniforme della guerra di secessione, i leggendari rough riders della guerra ispano‐americana, un gruppo di cosacchi del Caucaso nelle ampie zimarre ed i fucilieri americani, infallibili nell’uso della carabina. Lo spettacolo venne replicato la sera, poi le attrezzature vennero smontate e durante la notte la carovana partì per Piacenza.

Buffalo Bill sollecitato dalla fortuna che sta avendo il circo da poco inventato da Phineas Barnum, aveva deciso nel 1883 di mettere in scena assieme all’attore drammatico Nate Salsbury il selvaggio West, le battaglie tra Indiani e uomo bianco, il lavoro dei pony express, la caccia ai bisonti. Lo spettacolo, che si chiamerà “Wild West Show”, non è una semplice rappresentazione, ma qualcosa di emozionante, gigantesco, indimenticabile. Due i punti centrali dello spettacolo: la messa in scena della battaglia di Little Big Horn del 1876 e l’episodio del “primo scalpo per Custer”, nel quale Buffalo Bill vendica la sconfitta della battaglia uccidendo un indiano, Mano Gialla, capo dei Sioux Odlaga, e prendendogli lo scalpo. Dopo aver subito modifiche e ingrandimenti, e aver aggiunto storie di guerrieri di tu ti i tempi e le latitudini, il “Wild West Show” è pronto per raccontare anche all’Europa e all’Italia il selvaggio West e la storia della Frontiera americana. La “macchina” dello spettacolo si fa organizzatissima: gli spostamenti di questa carovana gigantesca, che prevede centinaia di figuranti e migliaia di cavalli, vengono effettuati la notte, in modo da poter mettere in scena lo show ogni giorno in una città diversa. Dello spettacolo fa parte, per un certo periodo, anche il leggendario capo Sioux Toro Seduto e sono presenze costanti l’infallibile tiratrice
La tiratrice Annie Oakley
Annie Oakley, tra l’altro anche la sua amante da anni, l’inseparabile cavallo Brigham e la mitica la diligenza Deadwood, sopravvissuta a mille avventure, trasformata in uno del personaggi del suo circo. Dopo esibizioni da tutto esaurito negli Stati Uniti, lo show si trasferisce in Europa. La prima volta nel 1887, in Inghilterra, in occasione del giubileo della regina Vittoria con i capi sioux Giacca Rossa, Piccolo Toro, Manzo Tagliato, Cane Povero e altri 97 indiani in buona parte ammalatisi durante la traversata. In Italia passerà per ben due volte, nel 1890, per un tour in cinque città e poi nel 1906, per una tournée lunghissima che toccherà numerose città, per ben 119 spettacoli. Quando arriva in Italia per la prima volta, nel 1889, Buffalo Bill è preceduto dalla fama conquistata a Parigi, dove partecipa con suo spettacolo all’Expo universale. Sbarca a Napoli, dopo le difficoltà dovute a malattie e vaiolo incontrate in Spagna, ma alla prima si ritrovano duemila persone con biglietto vero e duemila con biglietto falsificato. Le cronache dicono che il vero spettacolo quel giorno fu la litigata fra quattromila persone. Dopo Napoli, Cody va a Roma da papa Leone XIII: i suoi indiani si prendono beffe dei costumi delle guardie svizzere e lui non vuol visitare il Colosseo. «Troppo pietrame», dirà. Nella seconda tournée, però, il colonnello Cody non è più quello di prima: ha compiuto 60 anni il 26 febbraio, porta il parrucchino, si fa quattro colossali bevute al giorno, litiga con la moglie Louisa Frederici al punto di chiedere il divorzio. Tuttavia è ancora un mito. E quando il successo del circo comincia a declinare Buffalo Bill passa al cinema. Dal 1913 al 1915 gira alcune pellicole prodotte dall’inventore Thomas Alva Edison, sulle storie degli indiani. Per una di queste il set scelto sarà lo stesso della famosa battaglia di Wounded Knee, luogo di un eccidio compiuto nel 1890 da truppe americane contro sioux inermi.


venerdì 19 giugno 2015

Il viaggio dell'Imperatore Ferdinando I


“Inesprimibile è la gioja di questi abitanti, felicitati dalla vista tanto desiderata delle Augustissime LL. MM. L'Imperatore e l'Imperatrice”. Con queste parole la “Gazzetta della Provincia di Cremona” del 26 settembre 1838 dava notizia della visita alla città di Ferdinando I, reduce dall'incoronazione solenne a re di Lombardia e di Venezia avvenuta qualche giorno prima, il 5 settembre, nel Duomo di Milano, salutata da 101 colpi di cannone e dal suono a distesa di tutte le campane. La visita, avvenuta il 22 e 23 settembre, è stata immortalata, come le altre che hanno interessato le principali città del Lombardo Veneto, nella splendida serie di acquerelli realizzata da Eduard Gurk, pittore di corte. In realtà, nonostante le cronache del tempo, l'accoglienza dei cremonesi fu piuttosto tiepida. Ad iniziare dall'arco trionfale che avrebbe dovuto accogliere il sovrano all'ingresso della città proveniente da via Brescia, affidato all'architetto Luigi Voghera che, per realizzarlo, utilizzò materiale di magazzino già adoperato per la Fiera in Contrada del Pubblico Passeggio. Aldilà degli avvisi con cui la Congregazione Municipale emanava le disposizioni più minute per non lasciar nulla all'improvvisazione, Voghera candidamente ammetteva che “adoperando le tavole già intelajate dell'Arco che già si erigeva a lato del Casino colle rispettive aggiunte di un Ordine, decorando l'Attico superiore con statue di tavole dipinte...si può ottenere ancora una cosa decente”. Per tempo, d'altronde, l'amministrazione cittadina aveva provveduto a diramare indicazioni di vario tenore, fin dal 30 luglio, quando nel primo avviso pubblico affisso ai muri si leggeva che anziché spese inutili, “uniformandosi alle intenzioni veramente paterne dell'Attefatta Mesta sua”, si dovessero proporre: “La riforma del piano ed altre opere di ristauro e decorazione al Civico Palazzo per renderlo atto anche ai Pubblici Mercati coll'erogazione di una somma di oltre lire 60.000. e giusta il disegno dell'architetto Luigi Voghera; l'erezione di un Arco di Trionfo, Spettacolo teatrale, e luminaria generale per la città, nella quale dovranno distinguersi segnatamente i Pubblici Stabilimenti, erogandosi per questi la somma di lire 150.004; Il pagamento di una dote di lire 150 cadauna a favore di quattro giovani di ciascuna delle otto parrocchie della città e Corpi Santi, che sieno povere, di morale condotta, native di questa città e Corpi Santi, e che passino a matrimonio entro l'anno, in cui seguirà il desiderato arrivo; duplicare il sussidio a putti i poveri che godono elemosina a carico dell'Istituto Elemosiniere, per la settimana in cui seguirà l'arrivo suddetto; accordare una lira austriaca a tutti i giornalieri che accedono alla Casa d'Industria nel giorno dell'arrivo dell'Altefatta Maestà sua; contribuire la somma di lire 2000, per una volta tanto a vantaggio dello Stabilimento de' ragazzi discoli diretto dal sacerdote Ferdinando Manini, continuare l'annuo sussidio di lire 500 per un sejennio a favore delle Scuole di Carità”. Altri provvedimenti erano per la verità meno nobili: si vietava, ad esempio, il transito delle “navazze d'uva” per la stagione della pigiatura dal 22 al 24 settembre, si raccomandava di imbiancare, decorare e illuminare le facciate delle case interessate dal passaggio del corteo regale, soprattutto quelle poste “nelle contrade Porta Ognissanti, Valverde, Forcello, Dell'Aquila, San Domenico, Maestra, Speciana, Ginnasio e Teatro”. Minuziose istruzioni venivano impartite ai nobili proprietari di carrozze per formazione del corteo che avrebbe accompagnato l'imperatore in città, allo spettacolo teatrale e “nel corso notturno che avrà luogo dall'Ave Maria a mezza notte” mentre “rimangono esclusi i calessi a due o quattro ruote condotti da un sol cavallo, ai quali non sarà permesso di recarsi sullo Stradale conducente all'Arco fuori della Porta Ognissanti nell'epoca del ricordato faustissimo arrivo”.
L'imperatore Ferdinando I

Arriva dunque l'attesa giornata. Gli “Eccelsi viaggiatori” provenienti da Brescia erano già stati accolti trionfalmente al loro passaggio da Robecco d'Oglio, “festeggiati con concenti di bande musicali, con archi di trionfo, con apparati di verzura, di tappeti, di fiori; salutati ovunque al Loro passaggio dagli unanimi applausi e dalle benedizioni dell'accorrente popolazione, non trattenuta dall'imperversar della pioggia”. La stessa scena si ripete a Cremona dove arrivano verso le 13,15 del 22 settembre durante una breve schiarita “al suono de' sacri bronzi, fra le giulive acclamazioni d'una affollata moltitudine, e con un prolungato seguito di carrozze di gala, con che questi devoti sudditi mossero a far Loro corteggio fuori della città sino al bell'arco trionfale preparato con iscrizioni analoghe per cura del Municipio”. Ferdinando I e la moglie Maria Anna di Savoia vennero ricevuti al primo ingresso di palazzo Ala Ponzone, dove poi avrebbero alloggiato, dal Vicerè Ranieri Giuseppe d'Asburgo-Lorena, dall'arciduca Luigi e dal governatore della Lombardia Franz de Paula von Hartig che li avevano preceduti, dalle autorità civili, militari e religiose, dai rappresentanti dei vari istituti d'istruzione e di beneficenza, raccolti nel palazzo dal marchese Giuseppe Sigismondo Ala Ponzone. Il generale maggiore Francesco Weigelsperg, cavaliere dell'ordine militare siciliano di San Giorgio della Riunione presentò le autorità militari che “ebbero esse l'onore di tributare l'espressioni della loro fedeltà e profonda venerazione a piedi dell'ottimo Monarca, che, volgendo loro parole umanissime, lasciò impressi in ogni animo sentimenti di gaudio e riconoscenza”. All'esterno del palazzo, frattanto, si era radunata una grande folla, “ed essendosi ripetutamente compiaciute le LL.MM. Col mostrarsi dall'Imperiale appartamento di far pago il voto della sottoposta immensa folla, che ivi tenea fissi gli sguardi, raddoppiavano le acclamazioni del giubilo a quella graziosa degnazione”.
Dopo il pranzo nel pomeriggio Ferdinando I, accompagnato dalla delegazione, fece visita al Liceo, dove, ricevuto dal direttore e dai professori “gl'intrattenne, coll'affabilità e perspicacia che gli è propria, degli importantissimi oggetti di pubblica istruzione, ed esaminò con particolare attenzione i gabinetti di fisica e di storia naturale, degnandosi di manifestare l'alta Sua soddisfazione”. Seguì la vista all'Orfanotrofio, appena aperto da don Ferdinando Manini l'anno prima nella casa donata da Gaetano Archetti nell'attuale via Antica Porta Tintoria, dove fu salutato con il canto dell'inno popolare dagli organai schierati sulla porta, “E complimentato ed introdotto dai Nobili Direttore ed Amministratore, avvicinandosi la M. S. benignamente agli Alunni espresse la Sovrana Sua compiacenza nel vederli in florido stato di salute. Poi s'informò con paterna sollecitudine dei loro esercizj di religione, dell'istruzion loro, del trattamento che hanno nel Pio Luogo, soggiungendo parole di gratissimo conforto e d'approvazione alle relative risposte”.
La giornata dell'imperatore si concluse con una visita all'Ospedale, “ove presa parimente cognizione di tutte le particolarità riguardanti il regime di quello stabilimento e la cura ed assistenza degli ammalati si degnò di far lieto il Medico provinciale, il Direttore e gli altri cooperatori di elementissime espressioni d'aggradimento. Nell'unitovi Ospizio degli Esposti giunse graditissimo alla M.S. I il canto dell'Inno popolare per parte d'un numeroso coro di picciole trovatelle”.
L'imperatrice Maria Anna di Savoia

Nel frattempo l'imperatrice Maria Anna di Savoia, accompagnata dalla sua gran dama Landgravia Giuseppa di Fürstenberg-Weutra, principessa del Liechtenstein, dal gran ciambellano conte Maurizio Dietrichstein e dal podestà conte Crotti aveva fatto visita al collegio della Beata Vergine, “ed aggradendo i veduti saggi dell'istruzione ivi data, e rivolgendo detti di bontò e di materno amore alle istitutrici ed alle alunne, riempì le une e altre di contentezza”. La sera venne illuminata a festa l'intera città e in particolare il palazzo comunale, il palazzo Schizzi ed i principali uffici e istituti pubblici, nonché il teatro Concordia, direttamente a spese della Congregazione municipale. La giornata si concluse con altre due iniziative benefiche. “L'una è del sig. marchese Giulio Stanga, il quale per dimostrare la sua devozione verso le LL.MM. E festeggiarne la venuta a Cremona in modo accetto all'umanissimo loro cuore, s'è obbligato a far ricoverare in questi Orfanotrofi a tutte sue spese dieci fanciulli e cinque fanciulle, che si doveano nominare nel fausto giorno dell'arrivo delle LL.MM. dalla classe degli orfani più bisognosi e da quella degli abbandonati da genitori e privi d'ogni appoggio, col diritto di rimanere nel Pio Luogo finchè abbiano raggiunta l'età d'essere licenziati a norma de' Regolamenti. L'altra move dall'Istitutore e dai Direttore degli Asili di Carità per l'infanzia in Cremona, che, intesi a celebrare il memorabile avvenimento, procurati nuovi mezzi per le largizioni de' pii offerenti, hanno aperto in questo fausto giorno un terzo Asilo, tramandandone memoria ai posteri mediante iscrizione da scolpirsi in lapide”.
L'arco trionfale

La mattina del 23 settembre alle nove il corteo imperiale si trasferì in Cattedrale per la messa solenne, ospitato sotto un baldacchino preparato nel presbiterio; alle 10 dal balcone di palazzo Ala Ponzone assistettero alla sfilata delle truppe che costituivano la guarnigione della città, con la successiva presentazione di tutto il corpo degli ufficiali. Alle 11 fu la volta dei nobili ad essere ammessi alla presenza dell'imperatore, a mezzogiorno il gruppo “si recò a visitare la casa di Ricovero, e si occupò con sapiente ed amorosa premura di tutti i più importanti oggetti relativi all'andamento di essa, interrogando con somma bontà i ricoverati, assaggiandone gli alimenti, e degnandosi di manifestare al Direttore del Pio Luogo la piena Sua approvazione”. Fu poi la volta dell'Ospedale dei Fatebenefratelli e della Casa d'Industria, “successivamente l' Augustissimo Sovrano si trasferì a visitare gli Asili di Carità a San Sepolcro, e quivi fu accolto dagli applausi degl'innocenti bambini in esso raccolti, dai genitori di questi che s'erano affollati alla Casa, e dei moderatori dell'Istituto. La M.S. si degnò di manifestare l'Alta Sua approvazione per la maniera, onde que' fanciulletti sono educati, e di aggradire che cantassero l'Inno nazionale, aggiungendo il Pio Monarca che, essendo cari all'Altissimo i voti di quegli innocenti, si facessero cantare per lui”. Dopo la visita agli asili Ferdinando I si recò alla basilica di San Sigismondo per ammirarne gli affreschi, “facendo tralucere continui saggi di squisito gusto dalle sue osservazioni”. Nel frattempo la moglie “che tanto si compiace di dedicare le sue cure ad utilità de' Luoghi Pii, in compagnia della Gran Maggiordoma, di S.E. il Gran Coppiere marchese Ala Ponzoni e del podestà sig. conte Crotti, visitava dapprima il Civico Spedale, poscia l'Orfanotrofio femminile, indi lo Stabilimento delle figlie di carità, e prendeva notizia de' più minuti particolari delle istruzioni rispettive, consolidando que' luoghi d'espressioni d'incoraggiamento e d'approvazione. E nell'Orfanotrofio aggredì pure un esperimento d'istruzione delle alunne nelle materie del catechismo, di storia sacra, e di grammatica”. I rappresentanti degli istituti scolastici e degli asili ebbero l'onore di essere invitati a pranzo insieme a nobili dall'imperatrice che, al termine, ricevette le nobili dame, prima di trasferirsi con tutto il seguito alla casa della provvidenza per le femmine. E la sera tutto il codazzo imperiale in carrozza lungo le principali contrade cittadine illuminate a giorno, tra due ali di folla che faceva “risuonare ad ogni istante con entusiasmo grida clamorose d'esultanza”. Scena che si ripete ancora al teatro Concordia “ove all'apparire dell'Augusta coppia una giuliva universale commozione ha fatto prorompere il numeroso concorso in prolongati plausi, ripetuti poi e cresciuti ognora più al rispettoso saluto, ed all'Inno nazionale cantato in apposita scena, con che ha avuto principio il teatrale spettacolo”. Ancora giubilo e folla al ritirarsi dei sovrani a palazzo Ala Ponzone ed anche alla partenza il giorno successivo, quando l'illustre corteo lasciò alle 8 la città diretto a Mantova. “Immensa folla si accalcava nelle contrade ove passavano le LL. MM. per bearsi nuovamente della loro vista, e ripetea con vivissimi applausi le dimostrazioni della devozione e venerazione sua per gli Augustissimi ed Amatissimi Sovrani, facendo voti al cielo, perchè li conservi a lungo all'ossequio ed all'amore dei Loro Sudditi”. La stessa imperatrice, d'altronde, prima di partire aveva lasciato in dono 300 fiorini alla Casa della Provvidenza per le fanciulle.

Che Ferdinando I fosse particolarmente gradito ai suoi sudditi è confermato dall'epiteto “Il buono” con cui è noto. Ferdinando Carlo Leopoldo Giuseppe Francesco Marcellino d'Asburgo-Lorena nasce a Vienna il 19 aprile 1793, primogenito dell'imperatore Francesco I e della sua seconda moglie Maria Teresa dei Borbone di Napoli. La dieta di Presburg (l'attuale Bratislava) del 1830 lo riconosce re d'Ungheria. Il 27 febbraio 1831 sposa la principessa Marianna di Savoia, figlia del re di Sardegna Vittorio Emanuele I. Con la morte del padre, avvenuta il 2 marzo 1835, ne eredita la corona; conseguentemente, nel 1836, è incoronato re dello Stato di Boemia, con il nome di Ferdinando V e, nel 1838, del regno Lombardo-Veneto. Ereditato il trono imperiale, Ferdinando I d'Austria concede un'amnistia a tutti i prigionieri politici; una seconda amnistia è concessa nel 1838, a Milano, in occasione dell'incoronazione. L'insurrezione viennese del 1848 lo costringe a promettere, il 25 aprile, la costituzione, ma quando ne rende pubbliche le linee direttrici, e cioè l'istituzione di una camera alta formata da notabili parzialmente nominati dal sovrano, ed una camera bassa eletta in base al censo, la protesta torna a sollevarsi da parte di studenti, operai e guardia civica.La paura della piazza inferocita, giunta a protestare fin davanti alla reggia, lo fa decidere alla concessione dell'elezione di un'assemblea costituente con il sistema del suffragio universale. Prudenzialmente, il 19 maggio si trasferisce a Innsbruck e, qualche settimana dopo, annuncia lo scioglimento della Legione Accademica, un'organizzazione studentesca. Riesplode l'insurrezione e Ferdinando, il 2 dicembre, abdica in favore del nipote Francesco Giuseppe, non avendo egli avuto figli. Insieme a Marianna si ritira a Praga, nel castello di famiglia, dove muore all'età di ottantadue anni, il 29 giugno 1875. Quella di Ferdinando I d'Austria è una figura di regnante sui generis: basso, magro, malaticcio, affetto sin dalla nascita da una serie di scompensi che gli conferiscono un aspetto sgradevole ed un'espressione ebete, oltre a limitazioni mentali, è il risultato di generazioni di matrimoni fra parenti stretti. Ma, nonostante tutto ciò, apprende diverse lingue straniere, impara a suonare il pianoforte e studia con passione e profitto araldica, agricoltura e tecnica. Negato per la politica, tanto da affidarsi del tutto ad una Conferenza di Stato formata principalmente da Metternich, oltre che da suo fratello Carlo Francesco, dal conte Franz Anton Kolowrat Liebensteinsky e da suo zio l'arciduca Luigi d'Asburgo-Lorena, è più portato per le arti e la contemplazione, temi che più si addicono al suo animo puro e nobile. Ferdinando I d'Austria ama ripetere che durante tutto il suo regno ha firmato una sola condanna a morte: persino il capitano Franz Reindl, che il 9 agosto 1832 attenta alla sua vita, viene da lui graziato e la sua famiglia sostenuta economicamente durante il periodo di carcerazione. Per queste sue qualità la gente ama definirlo "Ferdinando il Buono". La sua ingenuità è stata scolpita in un breve dialogo con Metternich, mentre i due si trovano ad assistere ai tumulti di popolo. I termini sono pressappoco i seguenti: "Principe Metternich, perché tutta quella gente urla tanto?", e Metternich: “Fa la rivoluzione, maestà". E l'imperatore: "Si, ma ne ha il permesso?".

la notte che piazza Roma bruciò


Era il 21 giugno del 1875, centoquarant'anni fa, quando la giunta comunale, dopo una lunga discussione, pose le basi per la realizzazione dei giardini pubblici di piazza Roma sull'area occupata fino a pochi anni prima dalla basilica e dal convento di San Domenico. Uno dei più discussi interventi urbanistici della storia cremonese. Prova ne sia il lungo dibattito che precedette la decisione, di fronte alla vista del grande vuoto lasciato dalle macerie. Nessuno dei 62 progetti concorrenti al concorso artistico bandito dal Comune con un premio di tremila lire aveva soddisfatto i committenti: si prevedeva di riutilizzare parte dell'area nella zona adiacente le case Anselmi e Pagliari, per la costruzione di un edificio scolastico, e parte con la sistemazione di un giardino pubblico. Ma l'idea era poi caduta dopo le rimostranze di un gruppo di autorevoli cittadini, fra cui Libero Stradivari, Ettore Sacchi, Luigi Ratti, Luigi Monteverdi e Stefano Bissolati. L'impasse era stato poi superato dall'ingegnere Ruggero Manna che, supportato da numerosi amici, aveva proposto il progetto di un giardinetto provvisorio da allestire in occasione della Fiera di Settembre.
Già all'indomani della decisione fu affidato l'incarico al giardiniere Giuseppe Barozzi che vi lavorò per tutto il mese di agosto in modo che agli inizi di settembre fosse pronto il giardinetto, che occupava la prima parte di piazza Roma, dove attualmente sorge il monumento ad Amilcare Ponchielli. La realizzazione fu accettata molto bene dalla cittadinanza, tanto che l'assessore Vacchelli aveva indirizzato una lettera di ringraziamenti a Ruggero Manna: “Uno dei divertimenti più belli e simpatici che ha avuto la nostra Fiera, fu senza dubbio quello da V.S. Ideato, coll'improvvisato giardinetto in piazza Roma. Con tale opera che V.S. propugnò con quella forza di volontà che è dote degli animi eletti ed ancora pieni di giovinezza, e condusse a termine con tanto zelo, abnegazione e sapere V.S. ha sciolto un problema purtroppo da molti ancora ritenuto insolubile a Cremona, di fare cioè un giardino a simpatico ritrovo e con una spesa così mite. Di tutto questo mi è dolce il poter dire che Cremona va debitrice a V.S. Soltanto e che ne serberà la più indelebile memoria e riconoscenza, e mi tanto più caro il sapere di essere con ciò l'interprete dei sentimenti dell'intera cittadinanza. Accolga V.S. In particolare i ringraziamenti della Giunta comunale e della commissione divertimenti per la fiera 1875 e mi creda con distinta stima e considerazione”. 
Frattanto proseguiva il dibattito sul futuro dell'area man mano che proseguivano le demolizioni. Vennero rispolverati nuovamente vari progetti, fra cui quello dell'ingegnere Vincenzo Marchetti, che prevedeva portici con negozi e la risistemazione dei fabbricati già esistenti per le scuole comunali intorno al giardinetto “square”. A superare le indecisioni ci pensò l'ingegnere Signori che a nome del consiglio comunale si rivolse ai fratelli Roda, architetti specializzati nel settore che già avevano realizzato il parco del Valentino a Torino. Il nuovo progetto tecnico divideva il giardino in due parti: una, destinata in particolare per l'ascolto e la partecipazione a spettacoli musicali, con un chiosco in legno che potesse accogliere le bande ed in gruppi musicali in genere, si estendeva verso sud ed era costituita “da una larga piantata di umus montana”, disposta in filari regolari distanti l'uno dall'altro quattro metri con un viale ellittico; l'altra parte invece sarebbe stata adibita specificatamente a giardino, con un vasto tappeto verde anch'esso di forma ellittica, dolcemente ondulato, ornato con varie piante per offrire ombra, oltre che per abbellire; altri due prati erbosi e una scogliera alta un metro e mezzo nell'angolo nord est dell'area completavano il disegno del giardino che doveva poi essere tutto circondato da una siepe di viva “thja” appoggiata a fili di ferro zincato. Quest'ultima venne poi sostituita con una cancellata in ferro sostenuta da uno zoccolo in muratura. Si lasciava uno spazio libero a ridosso delle case Anselmi e Pagliari per l'eventuale costruzione di un fabbricato. Il preventivo era di 30.000 lire che poi, a consuntivo, passarono a 38.000. Sia il progetto tecnico che il preventivo delle spese furono approvati a si diede subito inizio alle pratiche per il prestito finanziario da parte della banca Popolare, che si protrassero a lungo, mentre continuavano i lavori demolizione e dispianamento. In ottobre iniziarono così i lavori per il giardino, che finalmente poteva sorgere in veste completa e definitiva come oggi lo vediamo, se si escludono alcuni particolari introdotti con il restauro di Andreas Kipar nel 2002. Ad esempio, la bellissima e gigantesca magnolia che ancora oggi possiamo ammirare nell'aiuola piccola vicino alla fontana delle Naiadi fu donata al Comune in quegli anni dal signor Augusto Pizzamiglio e come lui, tanti altri cittadini facoltosi donarono molte piante di diverse varietà per decorare il giardino. Più tardi si tentò anche di installare delle voliere che potessero accogliere volatili di varie specie, tra cui anche delle aquile, e delle gabbie che solo per poco tempo ospitarono un gruppo di mufloni. Il giardino vero e proprio fu terminato nel maggio 1879 e tutta l'area, con la cancellata e le cinque entrate con la goda per la musica fu pronta e sistemata durante l'estate,compresi i vasi ornamentali sul cui piedestallo rimase, a ricordare la presenza dell'antico complesso di San Domenico, la scarna epigrafe di Bissolati.


Tra le varie proposte per la sistemazione di piazza Roma era emersa l'esigenza di realizzare la costruzione di un edificio che potesse ospitare il mercato generale o quello dei bozzoli, oppure che potesse accogliere la fiera annuale settembrina e in ogni caso che fosse dotato di un vasto porticato che potesse essere adibito ad esposizione, costituendo un importante centro di informazione commerciale e artigianale per la città. All'interno di questo fervore di attività e di ricerca di novità, nel corso del 1879 era nata l'idea di organizzare una “Esposizione industriale-artistica” per l'anno successivo, in contemporanea con il Concorso Agrario regionale del 1880. L'apposito comitato si mise alla ricerca di una sede idonea, visitando i palazzi Dati di via Palestro, l'Ala Ponzone, il palazzo vescovile, il Seminario in via Villa Glori, il palazzo Trecchi ed i locali del Ginnasio, Liceo ed Istituto Tecnico, trovandoli tuttavia inadatti allo scopo. Fino a quando da Ferdinando Podestà venne presentata una soluzione alternativa per la realizzazione di un edificio in legno da edificarsi sul lato nord del giardino di Piazza Roma che, pur eccedendo i limiti di spesa previsti, venne accettata con riserva e dopo una crisi all'interno dello stesso comitato organizzatore. Si pensò di occupare l'area rimasta libera in piazza Roma dopo l'allestimento dei giardini pubblici che, del tutto inutilizzata, stava andando in rovina. Il progetto prevedeva che l'armatura e le decorazioni dell'edificio fossero in legno e ferro, l'ossatura in legno, le fondamenta e i dadi di sostegno in muratura, utilizzando eventualmente anche il materiale della cinta a secco che copriva l'area rimasta libera dei giardini. Il palazzo avrebbe occupato una superficie di circa tremila metri quadrati dei 5000 ancora disponibili, con cortili, giardini e una cancellata di protezione, che dividesse i tre corpi frontali sporgenti dell'edificio dai giardini pubblici. Così il giornale “Interessi Cremonesi” del 22 agosto 1880 lo descriveva: “I visitatori troveranno un disposizione logica-semplice dei locali, senza troppi giri e rigiri: tre ampi saloni al pian terreno e tre al piano superiore, collegati da un terzo salone, due tettoie eleganti, quattro cortiletti a giardino. L'intero edificio è in legno: i dadi di sostegno in muratura. Al piano terreno le tre sale sono divise da una fila di eleganti colonnette di sostegno: quelle della sala di mezzo (la più vasta) sono in ghisa, di un disegno svelto e grazioso, e fuse nella fonderia Tesini-Podestà. Al piano superiore invece l'armatura sostiene il soffitto. Le tappezzerie sono dei più svariati e graziosi colori. Alle finestre in alto si ammirano tendine sciolte di paglia, al basso tende di tela. Lo scalone è comodo, largo e in adatta posizione nella galleria centrale, in cui vi sarà pure il servizio di caffè. Una elegantissima scala a chiocciola in ghisa servirà a rendere più comoda la circolazione. A mezzo dello scalone un amplissimo specchio rifletterà la folla che salirà al piano superiore. I tre corpi di fabbricato che, come appare nella prospettiva qui unita, si avanzano verso il giardino, verranno poi riuniti da una tettoia che si sta costruendo, e che non appare quindi nel disegno, e che attraversa i due cortili laterali e i due giardinetti. L'entrata al palazzo è alla destra (guardando il disegno) l'uscita alla sinistra (c.s.). L'apertura che appare segnata nel corpo principale servirà per l'ingresso di S.M. Il Re, se verrà a visitare la mostra. Gli oggetti di decorazione sono in zinco, le colonnette e l'elegante ringhiera e balaustra dello scalone in ghisa, il tutto venne fuso espressamene nella fonderia Podestà.

Si era giunti alla vigilia dell'apertura della Mostra Industriale-artistica quando, la notte tra il 29 e il 30 agosgo 1880, la città fu colpita da un violento uragano: un vento impetuoso soffiava incessantemente, portando sferzanti scrosci di pioggia che si riversavano nelle strade della città tra lampi e tuoni. Improvvisamente il buio della notte fu rischiarato da un immenso incendio che, tra fiamme altissime e vapori biancastri, in poco più di un'ora distrusse completamente il palazzo dell'Esposizione. Le faville furono disperse dal vento a grande distanza e il fuoco si propagò rapidamente alle case vicine, minacciando le proprietà Anselmi, Pagliari e Bellini, e il teatro Ricci poco distante. I volontari e le forze dell'ordine accorsi sul posto, non poterono fare altro che costatare la distruzione del palazzo e di adoperarono quindi per circoscrive l'incendio cercando di proteggere le abitazioni. “La notte dal 29 al 30 agosto del 1880 – scriveva il “Corriere Cremonese” - rimarrà memorabile negli annali della storia di Cremona. In quella notte orribile, temporalesca. Uno spaventevole incendio incendio distrusse uno degli edifici più simpatici, più eleganti che fossero stati costruiti nella nostra città: l'edificio destinato all'Esposizione industriale-artistica, fabbricato appositamente con tanti dispendio nella Piazza Roma. Alle 4 ¼ del mattino si svilupparono le prime fiamme e alle 5 ½ il fabbricato era completamente distrutto. Ma tutto non finì lì. Le fiamme aiutate da un vento impetuosissimo innalzandosi ad un'altezza prodigiosa si gettarono contro le vicine case Anselmi, Pagliari e Bellini e vi appiccarono fuoco producendo guasti rilevanti. Era uno spettacolo orrendo. Una colonna di fuoco della larghezza di circa cento metri si stendeva sopra il gruppo di case che circondano il teatro Ricci e che corre da piazza Roma alla chiesa di S. Agostino, suscitando negli abitanti di queste una panico indescrivibile. Tizzoni ardenti, pezzi grossissimi di cartone incatramato accesi volavano al di sopra delle dette case trasportati dalla furia del vento, ad una distanza enorme, cadendo poi sui tetti con grave pericolo di incendio. E' così che al tetto del teatro Ricci si apprese pure il fuoco che però venne subito spento mercè il pronto soccorso dei cittadini edella truppa: e che anche al vicino albergo d'Italia si fosse pure in pensiero per un lieve principio d'incendio. Intanto in poco più di mezz'ora distrutto il grandioso palazzo, cui riuscì inutile ogni tentativo per salvarlo almeno in qualche parte, l'opera dell'autorità e dei cittadini si rivolese tutta sulle tre vicine case in preda alle fiamme; e dopo due ore di lavoro e di sforzi inauditi il fuoco in queste veniva completamente spento. Il veto e la pioggia non cessarono un solo istante durante il disastro che distruggeva un fabbricato che formava l'orgoglio della nostra città. L'intero comitato ordinatore della mostra e le autorità municipali e governative erano sul luogo al primo annunzio dell'incendio: la truppa, i carabinieri accorsero pure a prestare opera volonterosa, ma era inutile. L'ampio fabbricato tutto avvolto nelle fiamme non permetteva di accedere interamente, sicchè si dovette assistere col cuore straziato allo sfasciarsi di un fabbricato che ogni cittadino cremonese guardava con una certa compiacenza“.

Sulle cause dell'incendio fiorirono le ipotesi. Secondo gli uomini a guardia del palazzo, alloggiati al piano superiore, le fiamme si sarebbero sviluppate da una delle tende del piano inferiore che, sbattuta dal forte vento, si sarebbe infiammata venendo a contatto con una lampada a gas, propagando il fuoco al soffitto del piano inferiore. Più inquietante un'altra ipotesi, formulata in forma anonima da un giornalista del “Corriere di Cremona”: il pavimento del piano terreno era formato da assi bucate per permette una migliore ventilazione dell'ambiente, sotto le quali erano stati ammassati in quantità enorme i trucioli prodotti dalla lavorazione del legno durante i lavori per la costruzione del palazzo. Se qualcuno degli uomini di guardia avesse trasgredito al divieto di fumare, avrebbe potuto facilmente causare quella scintilla che avrebbe scatenato l'incendio. Più maliziosamente vi era chi osservava che il palazzo sarebbe stato assicurato per 75.000 lire presso l'Assicurazione Generale di Venezia e che 55.000 lire fossero state liquidate al Podestà, che aveva rinunciato a sua volta al compenso di 15.000 lire dovuto dal Comitato che gli erano state versate in precedenza. Lo spegnimento dell'incendio richiese una grande dispendio di uomini e di risorse: 119 volontari, tra brentadori e cittadini, e 217 uomini delle forze militari, più altri della Vigilanza urbana e della Polizia lavorarono incessantemente per molte ore, con l'aiuto di alcune macchine fornite dal Comune e da alcune ditte, utilizzando tredici botti grandi e 19 piccole per il trasporto dell'acqua.