Che
cosa ha ispirato generazioni di cremonesi e di lombardi ad attribuire
nomi vernacolari a 283 specie di uccelli, che da soli rappresentano
quasi il 60% dell'avifauna nazionale, individuandone con freschezza e
spontaneità le caratteristiche più salienti, ed inserendo ogni
specie nell'habitat che
le era più consono? E' quando cerca di spiegare il nuovo libro di
Riccardo Groppali “Uccelli e dialetti. La natura osservata dal
popolo” edito da Cremonabooks, analizzando oltre 5000 nomi
vernacolari di dei territori provinciali. Sono stati nella
maggioranza dei casi la voce, i canti e i richiami ad esercitare la
fantasia dei nostri progenitori, con nomi sia strettamente
onomatopeici oppure
che si ricollegavano a rumori già ben noti nella vita del passato,
come è il caso, ad esempio, del Porciglione che, per il suo richiamo
simile al grugnito di un maiale, viene in cremonese chiamato Grügnet.
Altre volte sono state le dimensioni degli uccelli, verificate dopo
la loro cattura, a
suggerirne il nome, come nel caso della Beccaccia e del Beccaccino,
chiamati indifferentemente Becàcia.
Un gabbiano |
Oppure ancora l'habitat naturale
nel quale erano stati osservati, con definizioni scientificamente
ineccepibili, come è nel caso del Canareccione, che vive nei
canneti, chiamato dai cremonesi Canaröla, o per il Passero d'Italia,
che nidifica sotto i tetti, detto Bèca-cop. L'attenta osservazione
in natura degli elementi più vistosi della corporatura o del
piumaggio ha fatto sì che venisse chiamato Bucàsa il Succiacapre,
per la sua ampia bocca, altre volte è stata la somiglianza con gli
uccelli domestici e più conosciuti, come i polli, che ha suggerito
di chiamare la Gallinella d'acqua Galinèta, oppure la convinzione
che specie diverse preferissero un cibo specifico che in determinate
zone fosse più disponibile, nel caso di insettivori come il
Forapaglie che i cremonesi,
convinti
si cibasse di miglio, chiamavano Bèca-mèi. In pratica tutti gli
uccelli erano oggetto di caccia, con metodi che oggi definiremmo di
“bracconaggio” e quindi solo ciò che si presentava come
inconsueto, poteva meritarsi un nome particolare. Analizzando le
singole specie, come ha fatto Riccardo Groppali, è interessante
vedere quando è stato applicato un criterio piuttosto che l'altro.
Prendiamo ad esempio, la Strolaga, un uccello nuotatore che nidifica
nell'Europa settentrionale ed è presente nelle nostre zone solo
d'inverno durante le migrazioni: per definire il tipo minore i
cremonesi si sono rifatti al suo richiamo gracchiante e l'hanno
chiamata Gir, senza prendere
in considerazione il suo vero nome. Lo svasso maggiore, prima
presente solo durante le migrazioni ed ora invece abitante consueto
delle paludi ferme, e il Tuffetto, sedentario, più di altri hanno
sollecitato con le loro abitudini la fantasia dei cremonesi: dal
momento che nuotano vengono chiamati Nudéen e Nudée gros lo svasso
maggiore; vanno sottacqua, e dunque diventano Sotaquìi; si immergono
con una specie di tuffo e possono raggiungere il fondo, cosicchè
diventano Fundéen, ma frequentano anche piccole pozze d'acqua, per
cui nel cremonese orientale il Tuffetto è Puciaröl da
pùcia, pozzanghera. Il verso Piuu dello svasso piccolo e quello
uit-uit del Tuffetto avrebbero originato il cremonese Fisòl, anche
se Valerio Ferrari, preferirebbe una derivazione dal latino fusulus,
cioè piccolo fuso, per la forma affusolata che questi uccelli
assumono durante il volo.
Il martin pescatore |
Dal latino aspergere potrebbe derivare
anche il nomignolo Pèrtga attribuito nel cremonese orientale al
Tuffetto, a ricordare che l'immersione di questi uccelli è talmente
rapida da provocare schizzi d'acqua. Smàrga chiamano invece i
cremonesi la Nitticora o Garzetta: deriverebbe dal greco smarageo,
che significa rumoreggio, riferito allo strepito emesso dalle colonie
di aironi durante la nidificazione. Ma la presenza nei riproduttori
di piume sottili e allungate, utilizzate nella confezione di
cappellini nel secolo scorso, ha dato origine anche da un'altra serie
di denominazioni derivanti dal latino medievale garza, cioè lana
cardata, oppure gaxia e gasum, canapa di ottima qualità, per la
somiglianza di questi materiali con il piumaggio ornamentale di
questi uccelli, che nel cremonese hanno spinto a chiamare Sgarzèta
bianca la Garzetta, Sgàrs rùs l'airone rosso, Sgàrsitì il
tarabusino.
Il
suono gracchiante uach emesso dalla Nitticora durante la notte ha
dato Quach nel cremonese, e i chech acuto del tarabusino che ricorda
il belato di una capretta, ha originato il cremonese cavrèta, ma
anche Centòs, per la poca carne rispetto alla quantità delle ossa.
L'alzavola è una verità di anatra molto comune ma in cremonese
viene chiamata Gàaver, un termine derivante probabilmente dal latino
gavia, utilizzato per indicare i gabbiani o altri uccelli acquatici,
oppure dalla base prelatina gaba o gavia percorso d'acqua o letto di
fiume. In ogni caso gàaver è un termine che viene utilizzato
anche
per indicare le persone rozze e maleducate. Resta da capire se questo
sia dovuto all'abitudine di questi uccelli di alzarsi in voli
improvvisi e verticali dall'acqua per allontanarsi da una minaccia, e
questo sia stato interpretato dai cacciatori come un gesto di
maleducazione!
Il porciglione |
Il suo particolarerichiamo
“chich crich” potrebbe invece averla fatta chiamare Grilét nel
cremonese orientale. La conformazione della coda del maschio del
Codone gli ha valso nel cremonese il nome di Cùa lùnga, ma anche
Fourbesòon e Còl Lònch, mentre Cüciaròon è detto il Mestolone,
per la conformazione dei becco simile a un grande cucchiao. Còo vèrt
è invece il germano reale, mentre il fischione, dal suo fischio
“ui-uuu” è detto Pìu e il maschio della marzaiola, sempre a
causa del suo raspante “prrt” origina a Cremna l'onomatopeico
ruchèt e, per la sua somiglianza al rumore di una sega, reseghèt.
Rasegòt, per la seghettatura del becco, è chiamato lo smergo
minore, ma anche pescarett e pesèra, ma anche Gàavera pusadùura la
più piccola pesciaiola, che si tuffa in verticale come se si dovesse
immergere in un pozzo. Anche
i rapaci diurni hanno goduto di una particolare fortuna, anche se poi
la poiana ha finito per prevalere su tutti gli altri, con una certa
confusione, per cui Pujanòn è stato chiamato il nibbio bruno, il
falco di palude, Pujàana de làch o falchetòn. Sgrifòn, dal
dialettale sgrìfa, era chiamato il grifone, poi completamente
estinto, ma un tempo presente al punto che il consumo della carne di
avvoltoio veniva consigliato per combattere l’emicrania e
l’epilessia, e i suoi escrementi venivano fatti annusare alle
partorienti per accelerare il travaglio. Il consumo di carne di
nibbio era suggerito, invece, anche contro la gotta, l’applicazione
del suo fegato serviva a guarire alcune malattie degli occhi e quella
del suo grasso contro i dolori muscolari. Il grasso di falco, oltre
che nella cura degli occhi, veniva utilizzato per combattere alcuni
tumori e la sua carne contro malattie cerebrali, mentre l’assunzione
dello sterco favoriva la sudorazione. L’abitudine del gheppio a
nidificare nelle cavità degli edifici urbani monumentali è
all’origine nel cremonese della denominazione di falchèt da tur.
Tra i galliformi, ancora oggi molto apprezzati dai cacciatori per la
loro carne, ricordiamo la starna, detta nel cremonese Cutùrn, dal
latino coturnix, cioè quaglia.
Il rampichino |
Nomi
curiosi si hanno anche tra i limicoli, gli uccelli che vivono
tendenzialmente nelle paludi, caratterizzati da zampe allungate, ma
con richiami e conformazione del becco spesso molti differenti. Ad
esempio la voce lamentosa della pavoncella “pii-ui” viene
ricordata a Cremona con Suìga. Il chiurlo maggiore viene chiamato
invece cïu-cïu, ma anche cürlèt, dalla somiglianza tra il suo
richiamo e il cigolio del verricello del pozzo, con lo stesso nome
vernacolare. Anche l'avocetta viene chiamata in due differenti modi:
vocéta, con riferimento al dialetto gùcia, per il becco sottile da
ricordare un ago, oppure bechinsö per la curvatura verso l'alto
estremamente caratteristica. La provenienza lontana durante le
migrazioni di uccelli che ricordano piccoli tacchini ha dato il nome
a Cremona ai chiurli maggiori, chiamati pulina de màar e minori,
pulinèta de màar, ma un uccello così comune con il gabbiano, ha
invece generato il nome di cucài per il suo verso, mentre il più
scuro mignattino viene designato megnanèen, richiamando gli abiti
scuri da lavoro dei calderai. Interessante il termine dialettale
utilizzato per indicare la colombella, pertezaròol, che avrebbe
origine nel rumore prodotto da uno stormo di colombelle affamate che
si posa su una quercia, privandola in breve tempo di tutte le ghiande
come se fosse battuta dalle pertiche di chi staccava i frutti dagli
alberi, chiamati pertegaròi. Riccardo Groppali ricorda che il sangue
del colombaccio, applicato caldo veniva usato contro le piaghe agli
occhi, era un ingrediente di cataplasmi contro le ustioni, mentre per
uso interno, se estratto da un esemplare nutrito con fave, era
utilizzato contro i calcoli renali e le infiammazioni della vescica,
e cotto in aceto, contro la dissenteria. Interessante è anche la
vicenda del succiacapre, che si è ipotizzato usasse la grande bocca
per succhiare il latte alla capre, da cui il cremonese Ciöcia càvre,
o della vacche, da cui Tetavàch. Il termine deriva dal fatto che in
effetti la specie volava spesso nei pascoli per approfittare degli
insetti che vi erano abbondanti, sfiorando in questo modo il bestiame
e inducendo il sospetto che si cibasse del latte. La sua grande
apertura boccale ha suggerito ai cremonesi anche la definizione di
Saatòn, cioè grande ciabatta.
Lo storno |
Ma
vi sono altre centinaia di nomi per identificare anche gli uccelli
più piccoli e comuni, che dimostrano la grande attenzione riservata
all'ambiente ed ai suoi abitanti da parte dei nostri progenitori. Un
patrimonio, anche linguistico, che rischia di essere dimenticato,
anche a causa delle profonde alterazioni subite in questi ultimi anni
dalla campagna. Scrive infatti Groppali: “Il modello monocolturale
basato sul mais, oppure le risaie con acqua molto bassa e
frequentemente asciutte, l'eccesso di fertilizzanti che contaminano
le acque superficiali e i fossi che le contengono solo per un breve
periodo dell'anno, l'impiego crescente di sostanze biocide che
danneggiano l'avifauna direttamente o indirettamente (privandola del
cibo), l'eliminazione dei margini dei coltivi e delle siepi o filari,
la cancellazione dei prati e delle marcite, l'espansione edilizia
(con digestori e nuovi insediamenti) e delle infrastrutture, hanno
contribuito alla banalizzazione dell'ambiente e alla rarefazione di
gran parte delle specie che erano tipiche della campagna fino a non
molti anni fa. Per tutti questi motivi in Europa l'avifauna è
danneggiata per il 42% del suo patrimonio complessivo proprio
dall'intensificazione delle pratiche agricole. Una delle
trasformazioni recenti e di maggior importanza nell'agricoltura di
pianura è la cancellazione progressiva della dotazione arborea e
arbustiva al margine dei coltivi: così in gran parte della Marca
Trevigiana tra 1960 e 1990 sarebbe stato eliminato dal 70 al 90% del
sistema d'alberature tra i campi, e nel Parco Cremonese del Po (ampio
2.430 ettari e collocato tra città e fiume) tra 198 e 2002
l'eliminazione di siepi e filari ha superato il 45%. Le conseguenze
sull'avifauna di questa formidabile banalizzazione ambientale sono
state estremamente negative: confrontando nella Valpadana interna
aree a coltivazione intensiva ampie e
con differenti quantità d'alberi e arbusti lungo i bordi dei campi,
studiate ogni mese per un anno, in quella più ricca di tali elementi
sono state censite 52 specie con 2.456 individui, e in quella priva
di vegetazione legnosa al margine dei campi rispettivamente 13 e 182.
Un paragone che non richiede commenti”.
Non
hanno mai goduto invece di grande simpatia i rapaci notturni, in
quanto si credeva che il loro canto portasse sfortuna. In particolare
era ritenuta portatrice di morte la civetta per l’attrazione
esercitata dalla luce sugli insetti notturni e, di conseguenza, anche
sul loro predatore. In passato, essendo scarsa l’illuminazione e
molta la miseria, la luce veniva mantenuta accesa solo in caso di
grave necessità, come può essere quello della stanza in cui
accudire un malato grave. Questo faceva affluire numerosi insetti che
si affollavano presso la finestra, ben presto seguiti dalla civetta
che se ne cibava, e dal momento che spesso le cure precarie erano
infruttuose, la credenza popolare volle che il verso dell’uccello
costituisse un funesto presagio. La civetta, però, era anche
utilizzata per la cattura di altri uccelli, spinti dal fatto che il
rapace notturno individuato come dormiente possa essere facilmente
scacciato dal proprio territorio. Questo ha favorito indubbiamente la
loro conoscenza originando nomi in vernacolo che identificano questa
funzione, come Uzelòon a Cremona per il gufo comune, per ricordare
le sue grandi dimensioni. Secondo la diceria popolare la cenere degli
occhi di gufo era l’ingrediente di un collirio usato per migliorare
la vista e il cervello veniva impiegato esternamente per curare le
piaghe e contro la scabbia.
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