lunedì 4 agosto 2014

Il cercatore di tesori nascosti

Giuseppe Bodini

Sulle rive del Po, tra Pomponesco e Guastalla, verso la metà dell'Ottocento girava una storiella. Si raccontava che un vecchio in punto di morte avesse rivelato ai suoi cinque figli scapestrati che nell'unico appezzamento di terreno che avrebbe loro lasciato in eredità era nascosto un grande tesoro. Per tre anni i figli vangarono senza sosta quel terreno senza trovarvi nulla, ma in compenso lo resero il più produttivo della zona. Non diventarono ricchi, ma da quel momento si dedicarono con profitto alla coltivazione della terra. Una parabola forse un po' banale, ma il fatto che circolasse tra la gente indica che vi era ancora qualcuno riottoso ad accettare la rigorosa disciplina del lavoro. Uno di questi era sicuramente Giuseppe Bodini, nato a Grontardo il 23 giugno 1821, numismatico, bibliofilo, maestro elementare, arrotino e violinista, ma anche occultista e vagabondo. Uno “strano”, insomma, nel ricordo dell'immaginario popolare. Quando morì a Pescarolo, il 26 dicembre 1889, lasciò un breve manoscritto “Dei tesori nascosti” dove in una quarantina di fitte pagine egli disserta di leggende plutoniche e magia naturale, dà consigli sui modi per scoprire e per “levare” tesori e ne segnala addirittura la presenza di ben ventotto, sparsi qua e là lungo la riva sinistra del Po cremonese e casalasco. Il manoscritto dovrebbe essere posteriore al 1845, l'anno più recente in cui da quelle parti, secondo Bodini, sarebbe stato interrato un tesoro. Eppure, almeno fino al 1867, la sua esistenza dovette essere abbastanza regolare: sposato con Teresa Guindani, cucitrice, tre figlie, Catterina, Maria e Giuseppina, un lavoro da maestro elementare, per cui aveva passato gli esami il 20 novembre 1863. Ma con il 20 ottobre 1867 la sua vita cambia: la Giunta di Gambara con ogni probabilità non gli rinnova l'incarico di maestro e inizia per lui l'esistenza vagabonda del “muléta” e del suonatore occasionale. Una fotografia ingiallita del 17 agosto 1873 lo ritrae vestito goffamente mentre indica in modo vistoso il suo violino con lo sguardo che scruta nell'obiettivo. Ma a quel tempo Bodini era già famoso per quell'altra sua attività, giudicata dai malevoli non troppo cristallina, di esperto numismatico con la passione per le scienze occulte, come lascerebbe intendere una cartolina postale in un cui un numismatico, alla ricerca di notizie su certe monete d'oro trovate in una pentola dissotterrata in un campo di Castelnuovo del Vescovo, chiede al parroco di Pescarolo come si possa rintracciare Bodini, “el muleta”.
Possiamo immaginare che l'interesse del nostro maestro per un tema così insolito sia stato risvegliato dalle numerose dicerie sui tesori nascosti provenienti dallo stesso ambiente rustico e popolare in cui viveva. Alcune di queste voci non facevano che ripetere stancamente e senza alcuna fantasia gli echi di immagini e temi fiabeschi: una classica «pignatta di marenghini» si diceva, ad esempio, fosse sepolta nel campo dell'organo di Gadesco e in altre località di quei dintorni la fantasia popolare segnalava la presenza di stivali, fiaschettti, bauli, casse, paioli stracolmi di monete d'oro. Bodini raccolse poi anche notizie che affondavano le loro radici in remote tradizioni leggendarie, come quella sul “tesoro del Re di Spagna” nascosto a “Belvedere”, diffuse dal barbiere e tessitore di “Ca' de' Ghinzani”, Francesco Pagliari. Ma Bodini citò, anche se in modo più generico, tra i suoi testimoni anche un paio di altri personaggi appartenenti al medesimo microcosmo rurale: un “fittabile” di “Pievedelmona” ed un “cavalaro” di “Bonamerzo”. Fu da loro che il nostro apprendista cercatore apprese le segrete ubicazioni, le entità (espresse sempre in lire cremonesi) e le date di interramento dei tesori.
Fu però grazie a Bodini se quel vasto e disperso patrimonio di leggende orali e notizie ritrovò improvvisamente vita. Il maestro di Grontardo riuscì infatti a collegare la gran massa di informazioni sui tesori nascosti, che giorno dopo giorno raccoglieva nei paesi adagiati lungo le rive del Po, con il suo personale patrimonio di conoscenze e saperi estraneo alla cultura tradizionale di quell'ambiente. Il suo bagaglio culturale, decisamente eclettico e disordinato, dove la conoscenza del francese e del latino si mescola all'interesse per le materie esoteriche, fa poi il resto: le confidenze raccolte e le chiacchiere intessute di mistero, trovano riscontro nelle dottrine occulte assorbite dai testi degli autori del passato che gli erano capitati tra le mani e che, in certi casi, egli stesso aveva trascritto di suo pugno con la pazienza di un antico amanuense, come è il caso del "Trinum magicum sive secretorum magicorum opus" di Cesare Longino edito a Francoforte nel 1673, dove si affronta il tema dei patti col demonio, da lui tradotto a Grontardo nel 1843. E così la gran massa di notizie locali che le sue formidabili antenne avevano captato viene inserito piuttosto al centro di quella galassia dove stanno i testi della tradizione occulta con i quali il maestro di Grontardo era entrato in contatto.
Ma vediamo quali sono i suggerimenti del nostro maestro per cercare e trovare i tesori nascosti. I tesori di cui l'opera parla non sono quelli “che noi possiamo avere presso di noi, perché di questi - non merita descrizione”, ma “quelli che si nasconde con secretezza e “dei quali si ignora il preciso luogo”. Nella ricerca Bodini si affida a strumenti d'indagine e di verifica “che oltrepassano l'ordine naturale” e che lui stesso definisce “cose stravagante”: un misterioso arsenale fatto di “segni”, “secriti” e “buone calamite”. In questo scenario perdono qualsiasi significato le tecniche di ricerca tradizionale, perchè, scrive Bodini, quando i tesori “è molto tempo che son nascosti e trascurati vengono posseduti da certi spiriti” e perciò “non si possono levarli se non con modi operanti sopranaturalmente”. L'esito non è però scontato e il rischio di fallire nell'impresa costituisce anzi l'eventualità più probabile, cosicchè: “alfin di molte fatiche non si possono levarli; e potrebbero succedere quasi ai più bravi del mondo”. Per assicurasi il risultato il risultato, tuttavia, è necessario tracciare al suolo cerchi magici, osservare attentamente i mutamenti di stato di liquidi versati in un'ampolla, fabbricare una “palla simpatica” ripiena delle più incongrue sostanze, e via dicendo. Ad indicare la presenza di un tesoro sepolto può venire in aiuto, però, qualche segnale: “I tesori nascosti da qualche tempo e che sono trascurati perchè non sono alla mente da nessuna persona; danno alcuni segni, come sono, che si sente o si vede una chioccia coi pulcini a crotolare; e allora e segno che in quel luogo vi e nascosto un tesoro: e tal volta si e veduto una polla grigia, e questo è segno che vi e nascosto un tesoro misturato oro ed argento. Ale volte si sono veduto l'ombra d'un soldato, ed all'ora è segno che è un tesoro nascosto ad un tempo di sacheggio. Alle volte si è veduto delle torcie acese la quale parevano/ che fosser sostenute da diversi personaggi ed e perche sono tesori guarnati in tempo di notte al lume di torcia: E si possono vedere molte altre cose stravagante a tenor delle diverse positure che incombenza le circostanziali fenonomistiche”.
Una pagina del manoscritto

“Per scoprire un tesoro – scrive Bodini – dovete portarvi nel luogo dove si sospetta che vi sia nascosto un tesoro, e lì dovete avere una bottiglia d'acqua santa, colla qual dovete far un circolo, vuotandola bel bello acciò sia abbastanza; guardano di non lasciar nepur un dito di sito senza avervi versato l'acqua, che se lasciate un poco di sito asciutto, per quello vi passano gli spiriti maligni; e dovete guardar bene prima di far il circolo, di circondarvi dentro il tesoro che sospettate che vi sia”: Segue poi la fabbricazione di tre croci e la lettura di alcune formule magiche scritte in alfabeto greco con il compito di muovere le croci verso il tesoro. Diversamente andrebbe bene anche un anello d'oro benedetto.
Bodini manifesta una predilezione particolare per le ore della notte, il tempo che di solito è riservato alle suggestioni oniriche e all'indeterminatezza dei sogni. Ma questo ribaltamento temporale, determina anche un rovesciamento dei valori “diurni” del lavoro, per cui, ad esempio, una volta muniti della zappa per cercare il tesoro, accade che “la prima zappata che darete sorge una figura, ed allora non si deve prendersi paura, ma anzi dovete farvi coraggio e parlargli, e dirgli - dalla parte di Dio zappatì - e sporgergli il Zappone, e se lo rifiuta, tornare ancora a sporgervelo sino che lo ha tolto, dicendo sempre 'Dalla parte di Dio' e nessuno non deve buffare, cioe non ridere ne far scherzi nemen parlare senza bisogno; tolto che avrà il Zappone la detta figura, stando tutti serij, vedrete che in un momento discuarcierà il Tesoro”. Qui insomma è l'ombra che deve faticare al posto dell'uomo.

Può però sorgere qualche complicazione: “E vi averto ancora che nel lasciarvi, la detta figura se la caso vi avesse di dire 'vigneret o manderet', ditegli 'non vengo e non mando' perche se gli dite 'vignerò', alora entro otto giorni morirete o la mano morirete entro un anno e un giorno: e se gli dite 'manderò', vi moriranno tutti i vostri di casa, dunque e meglio dirgli 'non vengo e non mando' per esser salvi tutti”. Potrebbe darsi anche il caso che le ombre siano più di una, che si sentano strepiti, rumori, lampi e grida con raffiche di vento, ma “se siete bravi Maghi dovete star franchi, perche stando franchi, la figura che parlerà viu suggerirà el preciso modo che dovere addoperare per levare il tesoro che vi siete intramessi di levare”. Se quindi, da un lato, per riuscire a dissotterrare un tesoro è necessario, come scrisse Bodini, dar prova di essere dei “bravi Maghi”, anche per nasconderlo nel più sicuro dei modi dovranno osservarsi delle precise prescrizioni rituali, le quali potranno persino comportare l'esecuzione di sacrifici umani. Bodini stesso affronta con parole esplicite questo argomento: “vi sono stati di quelli che guarnando il Tesoro hanno ucciso una persona e poi ve l'anno sotterrata in cima, e nel mentre che la sotterrava vi hanno detto: Tu tenderai a questo Tesoro”. Nel manoscritto di Bodini però l'evocazione del tema dei sacrifici umani compiuti per “guarnare” i tesori ricompare solo come pura menzione di un mito fondante.

Il maestro di Grontardo asserisce anche di avere notizie precise della presenza di 28 tesori nascosti nei paesi attorno. Si inizia, ovviamente, da Grontardo: un “gran tesoro” sarebbe stato sepolto nel 1780 a pochi passi dalla torre dell'oratorio della Madonna della Strada; un altro, nascosto nel 1827, sarebbe sepolto dietro la muraglia “verso mattina”del cimitero di San Basiglio. Nella cascina di San Giovanni del Deserto “dalla parte verso monte” a pochi passi dall'ingresso della stalla, “andando verso la porta”, sarebbe stato sepolto un tesoro nel 1827, così come in un edificio chiamato “Purga, appresso alla scala di dentro” nel 1770. A Scandolara Ripa d'Oglio, nei pressi di un ponte di pietra “alle colonne della vianova distante un tiro di schioppo dalla strada di Persico” sarebbe stato nascosto nel 1782 un “bel tesoro”, ed un altro nel 1834 a pochi passi da un crocifisso dipinto sul muro di fianco ad una portella “all'oratorio detto Senigola della parte verso monte” a Pescarolo. Sulla strada per Cicognolo a pochi passi da una cappelletta affiancata da una roggia vi sarebbe dal 1831 un tesoro di 50.000 lire cremonesi, ed addirittura un “gran tesoro” vicino alla cascina Fenile di Sant'Antonio di Pessina Cremonese, sulla strada diretta a Stilo de' Mariani (1815); un altro sarebbe nascosto nel cimitero di Pieve Delmona e, nello stesso comune, “a due o tre tiri di schioppo” da un filare di gelsi, posto dietro una roggia, nei pressi della cascina Cà del Lupo, ve ne sarebbe un latro nascosto nel 1842. E sempre nella cascina Torre Nuova un fattore di nome Console vi avrebbe nascosto un tesoro nel 1820. Poco distante da una fontana coperta “con muri pitturati” nei pressi di un'edicola dedicata alla Madonna di Caravaggio sulla strada per Gabbioneta, sarebbe stato nascosto un tesoro nel 1832; nel territorio di Binanuova, a pochi passi da un'edicola detta “Morti della Muracca”, sulla riva dell'Oglio distante due campi dalla cascina Casamento ad poco più di un chilometro da Gabbioneta, vi sarebbe un tesoro nascosto nel 1840. Dal 1771 sarebbe nascosto un tesoro nei pressi del muro dell'oratorio di San Damaso “dalla parte verso mezzo giorno” ad Alfiano Vecchio, frazione di Corte de' Frati ed un fiaschetto con il manico rotto, ma contenente monete, sarebbe nascosto nella muraglia della cascina Cà dell'Ora che costeggia la strada. Un altro sarebbe sepolto ad un braccio di distanza da un chiodo piantato in un pioppo nel cimitero delle “Ciaveghe di S. Matè”, una località che non è stato possibile identificare con nessuna delle attuali. Uno stivale pieno d'oro sarebbe stato nascosto nel 1830 ad un tiro di schioppo dalla località Posta di Cicognolo ed un tesoro sarebbe nascosto a pochi passi dall'oratorio della Madonna Sgarzonara, tra Vescovato, Gadesco e Cà de' Sfondrati. Altri tesori, di cui però il nostro maestro non specifica né l'importo né la data in cui sarbbero stati nascosti, sono indicati a Belvedere, a San Pietro nel comune di Gadesco, in una non meglio specificata cascina Cantarana, a Cà de' Marozzi , alla cascina Malongola nel comune di Malagnino, nel campo dell'organo a Gadesco, in un campetto a Villarocca, in un'edicola a San Salvatore, Bonemerse, e in un prato nei pressi della cascina Sidolo nel comune di Cicognolo, dove sarebbero nascosti un cassone e sete piccoli paioli per la bollitura dei bozzoli pieni di monete.

venerdì 1 agosto 2014

La disfida di Rolando da Cremona


E' una fredda mattina di settembre del 1238. Cremona è ancora avvolta nella prima nebbia autunnale, quando Frate Rolando sale sul suo asino, nonostante il dolore che gli procura la gotta. Esce dal suo convento di San Guglielmo e si dirige lungo la strada per Brescia. Viaggia da solo, anche se da qualche mese la campagna è battuta in lungo e in largo dagli eserciti delle città ribelli all'imperatore. Deve raggiungere Brescia, cinta d'assedio dal 3 agosto dalle truppe di Federico II, dove il sovrano lo attende. Per Federico le cose si stanno mettendo male. I bresciani si stanno difendendo con i denti e con le macchine da guerra costruite dal loro ingegnere, Clamandrino, consapevoli delle conseguenze che una vittoria imperiale produrrebbe sulle sorti della Lega Lombarda. Ormai si sta avvicinando l'inverno e la pioggia rende difficoltosi i movimenti degli assedianti. Dopo qualche giorno Federico, bruciate le macchine e levate le tende, vista l'inutilità dei suoi sforzi, si sarebbe ritirato con tutto l'esercito nella fedele Cremona. Ad attendere il frate domenicano sotto le mura di Brescia c'è anche Teodoro di Antiochia, una delle personalità più interessanti e discusse della corte di Federico, che assolve una pluralità di compiti diversi: è filosofo, matematico, medico, traduttore. L'imperatore, questa volta, gli ha affidato un compito ingrato: sfidare in una disputa teologica il più grande cacciatore di eretici del suo tempo, il domenicano Rolando da Cremona. Appartengono entrambi a quella corte stravagante ed eterogenea formata da astrologi, alchimisti, filosofi, medici e scienziati di cui ama circondarsi Federico, destando le preoccupazioni di papa Gregorio IX, che vi vede la prefigurazione del regno dell'Anticristo. Ne fanno parte, a vario titolo, Davide di Dinant, già cappellano di Innocenzo III, condannato per il suo panteismo al concilio di Sens del 1210; Adamo da Cremona autore di un trattato di medicina militare, il De regimine et via itineris et fine peregrinancium; Gualtierio d'Ascoli maestro a Napoli e autore di uno Speculum artis grammatice; Teodoro di Antiochia traduttore dall'arabo del trattato di falconeria di Moamin; Roffredo di Benevento giudice della Curia imperiale; Riccardo di San Germano cronista formatosi a Montecassino; i poeti italo-bizantini Giorgio da Gallipoli, Giovanni da Otranto, Giovanni Grasso e Michele Scoto. Quest'ultimo conosce molto bene Rolando, che aveva incontrato anni prima a Bologna al suo ritorno in Italia dopo una parentesi a Toledo dove si era recato per tradurre, dall'arabo al latino, testi scientifici e astrologici. Era stato proprio Michele Scoto a suggerire a Federico di mettere periodicamente a confronto il parere di esperti nelle varie materie per essere in grado di possedere tutti gli strumenti necessari per ben governare. Le cronache raccontano concordemente che, durante l'assedio di Brescia, Federico II aveva organizzato dispute di ogni materia, compresa quella a cui si sta recando frate Rolanddo. Non sappiamo come si articolò nei dettagli la sfida, anche se, a giudicare da quanto racconta il maestro generale dei Domenicani Umberto da Romans, Teodoro, che solo qualche tempo prima aveva ammutolito con i suoi sofismi due confratelli, ne uscì sonoramente sconfitto. D'altronde Teodoro, approdato alla corte di Federico qualche anno prima del 1230 con il compito di filosofo di corte, come scusante poteva dire di aver avuto in sorte il destino di scontrarsi con il più temibile frate domenicano dei suoi tempi, vero spauracchio di tutti gli eretici.

Nel 1229 Rolando da Cremona, nato nel 1178, aveva ricevuto la prima cattedra universitaria di teologia assegnata a un frate domenicano dal vescovo di Parigi, Gugliemo di Auvergne, in occasione di uno sciopero dei maestri secolari. Uno dei tratti salienti della sua biografia, secondo le testimonianze dei confratelli, fu senza dubbio l’impegno antiereticale. Alla lotta contro l’eresia si dedicò con irruenza e impegno instancabile. Rolando ha un’idea chiara della missione dell’ordine: i frati sono nati per combattere gli albigesi (ordo fratrum predicatorum contra albiensum locustas est statutus). La notte debbono pregare e contemplare, ma giunto il giorno il loro compito è pugnare contra ephesi bestias.
A Tolosa, dove giunge nel 1230 per insegnare alla locale università, appena istituita, diventa suo malgrado immediatamente protagonista. Il legato del papa, Romano di Sant’Angelo, aveva fatto inserire la fondazione dell’università tra le clausole che il trattato di Meaux impose al conte di Tolosa nel 1229. Si trattava d’installare, sotto l’egida della Santa Sede, un centro di studi che funzionasse da focolaio della riconquista cattolica nel regno dell’eresia catara. Ma Rolando in questo ruolo ebbe presto modo di distinguersi, e non per prudenza e moderazione. Quando dal convento venne denunciata pubblicamente la presenza di eretici in città vi furono aspre reazioni da parte dei tolosani, i quali negarono fermamente le accuse, ben consapevoli delle pericolose conseguenze che ne potevano scaturire. Invece di farsi intimorire dalle proteste Rolando spinse i confratelli a proseguire la battaglia con vigore. Lui per primo la portò avanti viriliter et potenter. L’occasione si presentò pochi giorni dopo le proteste. Avendo saputo che due uomini, da poco sepolti, erano stati in realtà eretici, guidò intrepidamente i frati, il clero e «alcuni del popolo»: in un’atmosfera di estrema tensione disseppellirono e bruciarono, dopo una solenne processione per le vie della città, i resti dei due defunti.
Tornato in Italia, dal 1233, ricoprì incarichi inquisitoriali e non cessò di lottare contro gli avversari della fede. Portava con sé l’esperienza guadagnata sul campo e una forte consapevolezza di ciò che era il suo dovere: opus Dei est impugnare hereticos et infideles. Ma il suo eccessivo rigore gli costò un aggressione con sassi e armi mentre predicava in piazza a Piacenza e nel tumulto rimase ucciso un monaco. Nel 1244 ricevette l’incarico di istituire il processo per eresia contro il temibile Ezzelino da Romano. Si dedicò comunque ancora all’insegnamento, sicuramente presso lo Studium domenicano di Bologna, dove è ricordato quale lettore l’anno prima della morte, che lo colse nel 1259.
Non stupisce dunque che il temperamento battagliero di Rolando si rifletta nell’opera principale. La Summa a lui ascrivibile contiene una breve questione de zizania, che bene sintetizza il suo pensiero. Seguendo una tradizione esegetica già consolidata nei padri la zizzania della parabola neo-testamentaria allude agli eretici: zizania sunt specialiter heretici. Ora, alcuni, che non posseggono una retta fede (quidam qui non sunt recte fidei), sono soliti affermare che gli eretici non debbono essere uccisi. Bisogna lasciar crescere la zizzania fino alla mietitura (che avverrà con il giudizio finale). Quindi Dio, secondo costoro, non vuole che gli eretici siano bruciati (Dominus non vult ut heretici comburantur). Se fossero uccisi non avrebbero la possibilità di pentirsi, suggerisce inoltre una glossa di Agostino.
Non sono pure speculazioni astratte. È qui registrato un orientamento che merita di essere discusso e confutato. A sostenerlo sono individui concreti (quidam qui non sunt recte fidei) e le obiezioni di costoro paiono di una certa serietà e non occasionali, lasciano pensare a tesi usuali e ripetute nel tempo (solent dicere, “sono soliti dire”). Ma è anche chiaro che a sostenerle si è ormai fuori dal solco della Chiesa (non sunt recte fidei). Il Concilio Laterano IV ha scavato un fossato non più colmabile. Con argomenti simili a quelli qui menzionati un’esegesi “tollerante” della parabola evangelica era rimasta viva fino al declinare del XII secolo. Rolando risponde con durezza ai suoi oppositori. La glossa, ci dice, va interpretata e Agostino, oltretutto, ha in seguito cambiato opinione. Se anche non l’avesse fatto bisogna credere alle scritture e alla chiesa più che ad Agostino (magis credo novo et veteri Testamento et toti ecclesie quam Augustino). L’importante è capire bene, senza precipitazione, cosa sia zizzania e cosa frumento. Quando ciò sia manifesto nulla impedisce che gli eretici siano tolti dal mondo “con la falce della sentenza giudiziaria”. La possibilità di pentirsi va data a chi è ancora nel dubbio, ma l’eretico ostinato deve essere ucciso. Può solo essere causa di corruzione: il frumento muta in zizzania, ma non accade il contrario. E nemmeno si deve aspettare la fine dei tempi: i mietitori della parabola sono gli angeli, è vero, però anche i vescovi e i poteri secolari sono “angeli di Dio”, in quanto suoi nunzii e ministri. L’angelo vescovo deve tagliare la zizzania con la falce della sua sentenza di scomunica, mentre l’angelo potere secolare fornisce l’appoggio del gladio materiale. Certo, bisogna procedere con cautela, evitando forme dannose di eradicazione. Ad esempio, la scomunica dei prìncipi, i quali potrebbero trarre con sé molti seguaci, e in genere delle moltitudini, rischia di risolversi in un danno per la chiesa. Richiede dunque una speciale licenza papale. Ma un consiglio cittadino può bene essere scomunicato. Ancora una volta siamo proiettati sul terreno dei concretissimi conflitti italiani. L’insegnamento del maestro, lungi dall’isolarsi nell’empireo della teoresi, offre indicazioni pratiche e operative su come affrontare i casi quotidiani del tempo: le lotte dei partiti e le resistenze delle autorità civili.

Rolando, il domenicano inquisitore, frequenta la stessa corte di Federico animata da altri personaggi decisamente fuori dal comune. Tra questi un ruolo da protagonista ebbe certamente Michele Scoto. Lo stesso Dante lo definisce “mago”, anche se probabilmente le arti magiche erano utilizzate da Michele per allietare la vita del re di Sicilia. Walter Scott, l’autore di Ivanhoe, riporta che Michele Scoto era in grado con una bacchetta magica di far suonare le campane di Notre-Dame dalle grotte di Salamanca e le sue abilità di mago sono ricordate anche nella letteratura italiana da Boccaccio, Fazio degli Uberti e Teofilo Folengo. L'immagine di un Federico che, servendosi di maghi e astrologi, controlla gli eventi della storia fu utilizzata per sottolineare il carattere diabolico della sua corte anche se poi i suoi collaboratori, nonostante le loro arti divinatorie, non riuscirono ad impedire la sconfitta di Parma del 1247. Allo stesso Michele si attribuisce quella profezia secondo cui Federico II sarebbe morto sub flore, per cui l'imperatore non entrò mai a Firenze; tuttavia il sovrano svevo morì effettivamente sub flore, ma a Castelfiorentino in Puglia il 13 dicembre 1250.
A Michele Scoto succedette nel 1238 nel ruolo di astrologo di corte Teodoro di Antiochia, approdato presso Federico un decennio prima forse durante un’ambasciata in Armenia, forse per i legami con il sultano d'Egitto. Ottenne dall'imperatore favori e benefici, fra cui un feudo in Sicilia, ma desiderava disperatamente di tornare a casa e morì suicida dopo aver tentato di fuggire oltremare, disobbedendo ai voleri del suo signore. Teodoro è designato, nei documenti imperiali, oltre che con il titolo generico di magister, con quello di philosophus: il suo ruolo era quello di filosofo dell'imperatore (imperialis philosophus), che non aveva precedenti nelle corti occidentali ma trovava paralleli nella società islamica. A corte si faceva uso, innanzi tutto, della sua conoscenza dell'arabo: nel 1240 egli scrisse per conto dell'imperatore una lettera in arabo all'emiro di Tunisi; nello stesso anno o poco prima tradusse dall'arabo in latino un trattato di falconeria, o meglio di medicina dei rapaci, conosciuto con il nome di Moamin e destinato a un largo successo in Europa. A Teodoro, in quanto medico, si richiese di preparare uno sciroppo per l'imperatore e il suo entourage (1240); egli mandò una scatola di zucchero di viola a Pier della Vigna, insieme a una lettera con cui ne raccomandava l'uso; redasse per l'imperatore un Regimen sanitatis in forma epistolare, che si aggiungeva a quelli indirizzatigli da Adamo da Cremona e da Pietro Ispano. Sono noti inoltre i suoi scambi di problemi matematici con Leonardo Fibonacci da Pisa e di problemi geometrici con Judah ben Salomon ha-Cohen : con il primo la corrispondenza avvenne in latino, con il secondo in arabo.