E' una fredda mattina di settembre del 1238. Cremona è ancora avvolta nella prima nebbia autunnale, quando Frate Rolando sale sul suo asino, nonostante il dolore che gli procura la gotta. Esce dal suo convento di San Guglielmo e si dirige lungo la strada per Brescia. Viaggia da solo, anche se da qualche mese la campagna è battuta in lungo e in largo dagli eserciti delle città ribelli all'imperatore. Deve raggiungere Brescia, cinta d'assedio dal 3 agosto dalle truppe di Federico II, dove il sovrano lo attende. Per Federico le cose si stanno mettendo male. I bresciani si stanno difendendo con i denti e con le macchine da guerra costruite dal loro ingegnere, Clamandrino, consapevoli delle conseguenze che una vittoria imperiale produrrebbe sulle sorti della Lega Lombarda. Ormai si sta avvicinando l'inverno e la pioggia rende difficoltosi i movimenti degli assedianti. Dopo qualche giorno Federico, bruciate le macchine e levate le tende, vista l'inutilità dei suoi sforzi, si sarebbe ritirato con tutto l'esercito nella fedele Cremona. Ad attendere il frate domenicano sotto le mura di Brescia c'è anche Teodoro di Antiochia, una delle personalità più interessanti e discusse della corte di Federico, che assolve una pluralità di compiti diversi: è filosofo, matematico, medico, traduttore. L'imperatore, questa volta, gli ha affidato un compito ingrato: sfidare in una disputa teologica il più grande cacciatore di eretici del suo tempo, il domenicano Rolando da Cremona. Appartengono entrambi a quella corte stravagante ed eterogenea formata da astrologi, alchimisti, filosofi, medici e scienziati di cui ama circondarsi Federico, destando le preoccupazioni di papa Gregorio IX, che vi vede la prefigurazione del regno dell'Anticristo. Ne fanno parte, a vario titolo, Davide di Dinant, già cappellano di Innocenzo III, condannato per il suo panteismo al concilio di Sens del 1210; Adamo da Cremona autore di un trattato di medicina militare, il De regimine et via itineris et fine peregrinancium; Gualtierio d'Ascoli maestro a Napoli e autore di uno Speculum artis grammatice; Teodoro di Antiochia traduttore dall'arabo del trattato di falconeria di Moamin; Roffredo di Benevento giudice della Curia imperiale; Riccardo di San Germano cronista formatosi a Montecassino; i poeti italo-bizantini Giorgio da Gallipoli, Giovanni da Otranto, Giovanni Grasso e Michele Scoto. Quest'ultimo conosce molto bene Rolando, che aveva incontrato anni prima a Bologna al suo ritorno in Italia dopo una parentesi a Toledo dove si era recato per tradurre, dall'arabo al latino, testi scientifici e astrologici. Era stato proprio Michele Scoto a suggerire a Federico di mettere periodicamente a confronto il parere di esperti nelle varie materie per essere in grado di possedere tutti gli strumenti necessari per ben governare. Le cronache raccontano concordemente che, durante l'assedio di Brescia, Federico II aveva organizzato dispute di ogni materia, compresa quella a cui si sta recando frate Rolanddo. Non sappiamo come si articolò nei dettagli la sfida, anche se, a giudicare da quanto racconta il maestro generale dei Domenicani Umberto da Romans, Teodoro, che solo qualche tempo prima aveva ammutolito con i suoi sofismi due confratelli, ne uscì sonoramente sconfitto. D'altronde Teodoro, approdato alla corte di Federico qualche anno prima del 1230 con il compito di filosofo di corte, come scusante poteva dire di aver avuto in sorte il destino di scontrarsi con il più temibile frate domenicano dei suoi tempi, vero spauracchio di tutti gli eretici.
Nel
1229 Rolando da Cremona, nato nel 1178, aveva ricevuto la prima
cattedra universitaria di teologia assegnata a un frate domenicano
dal
vescovo di Parigi, Gugliemo di Auvergne, in occasione di uno sciopero
dei maestri secolari.
Uno dei tratti salienti della sua biografia, secondo le testimonianze
dei confratelli, fu senza dubbio l’impegno antiereticale. Alla
lotta contro l’eresia si dedicò con irruenza e impegno
instancabile. Rolando ha un’idea
chiara della missione dell’ordine: i frati sono nati per combattere
gli albigesi (ordo fratrum predicatorum contra albiensum locustas est
statutus). La notte debbono pregare e contemplare, ma giunto il
giorno il loro compito è pugnare contra ephesi bestias.
A Tolosa, dove
giunge nel 1230 per insegnare alla locale università, appena
istituita, diventa suo malgrado immediatamente protagonista. Il
legato del papa, Romano di Sant’Angelo, aveva fatto inserire la
fondazione dell’università tra le clausole che il trattato di
Meaux impose al conte di Tolosa nel 1229. Si trattava d’installare,
sotto l’egida della Santa Sede, un centro di studi che funzionasse
da focolaio della riconquista cattolica nel regno dell’eresia
catara. Ma Rolando in questo ruolo ebbe presto modo di distinguersi,
e non per prudenza e moderazione. Quando dal convento venne
denunciata pubblicamente la presenza di eretici in città vi furono
aspre reazioni da parte dei tolosani, i quali negarono fermamente le
accuse, ben consapevoli delle pericolose conseguenze che ne potevano
scaturire. Invece di farsi intimorire dalle proteste Rolando spinse i
confratelli a proseguire la battaglia con vigore. Lui per primo la
portò avanti viriliter et potenter. L’occasione si presentò pochi
giorni dopo le proteste. Avendo saputo che due uomini, da poco
sepolti, erano stati in realtà eretici, guidò intrepidamente i
frati, il clero e «alcuni del popolo»: in un’atmosfera di estrema
tensione disseppellirono e bruciarono, dopo una solenne processione
per le vie della città, i resti dei due defunti.
Tornato in
Italia, dal 1233, ricoprì incarichi inquisitoriali e non cessò di
lottare contro gli avversari della fede. Portava con sé l’esperienza
guadagnata sul campo e una forte consapevolezza di ciò che era il
suo dovere: opus Dei est impugnare hereticos et infideles. Ma il suo
eccessivo rigore gli costò un aggressione con sassi e armi mentre
predicava in piazza a Piacenza e nel tumulto rimase ucciso un monaco.
Nel 1244 ricevette l’incarico di istituire il processo per eresia
contro il temibile Ezzelino da Romano. Si
dedicò comunque ancora
all’insegnamento, sicuramente presso lo Studium domenicano di
Bologna, dove è ricordato quale lettore l’anno prima della
morte, che lo colse nel 1259.
Non stupisce
dunque che il temperamento battagliero di Rolando si rifletta
nell’opera principale. La Summa a lui ascrivibile contiene una
breve questione de zizania, che bene sintetizza il suo pensiero.
Seguendo una tradizione esegetica già consolidata nei padri la
zizzania della parabola neo-testamentaria allude agli eretici:
zizania sunt specialiter heretici. Ora, alcuni, che non posseggono
una retta fede (quidam qui non sunt recte fidei), sono soliti
affermare che gli eretici non debbono essere uccisi. Bisogna
lasciar crescere la zizzania fino alla mietitura (che avverrà con il
giudizio finale). Quindi Dio, secondo costoro, non vuole che gli
eretici siano bruciati (Dominus non vult ut heretici comburantur). Se
fossero uccisi non avrebbero la possibilità di pentirsi, suggerisce
inoltre una glossa di Agostino.
Non sono pure
speculazioni astratte. È qui registrato un orientamento che merita
di essere discusso e confutato. A sostenerlo sono individui concreti
(quidam qui non sunt recte fidei) e le obiezioni di costoro paiono di
una certa serietà e non occasionali, lasciano pensare a tesi usuali
e ripetute nel tempo (solent dicere, “sono soliti dire”). Ma è
anche chiaro che a sostenerle si è ormai fuori dal solco della
Chiesa (non sunt recte fidei). Il Concilio Laterano IV ha scavato un
fossato non più colmabile. Con argomenti simili a quelli qui
menzionati un’esegesi “tollerante” della parabola evangelica
era rimasta viva fino al declinare del XII secolo. Rolando risponde
con durezza ai suoi oppositori. La glossa, ci dice, va interpretata e
Agostino, oltretutto, ha in seguito cambiato opinione. Se anche non
l’avesse fatto bisogna credere alle scritture e alla chiesa più
che ad Agostino (magis credo novo et veteri Testamento et toti
ecclesie quam Augustino). L’importante è capire bene, senza
precipitazione, cosa sia zizzania e cosa frumento. Quando ciò sia
manifesto nulla impedisce che gli eretici siano tolti dal mondo “con
la falce della sentenza giudiziaria”. La possibilità di pentirsi
va data a chi è ancora nel dubbio, ma l’eretico ostinato deve
essere ucciso. Può solo essere causa di corruzione: il frumento muta
in zizzania, ma non accade il contrario. E nemmeno si deve aspettare
la fine dei tempi: i mietitori della parabola sono gli angeli, è
vero, però anche i vescovi e i poteri secolari sono “angeli di
Dio”, in quanto suoi nunzii e ministri. L’angelo vescovo deve
tagliare la zizzania con la falce della sua sentenza di scomunica,
mentre l’angelo potere secolare fornisce l’appoggio del gladio
materiale. Certo, bisogna procedere con cautela, evitando forme
dannose di eradicazione. Ad esempio, la scomunica dei prìncipi, i
quali potrebbero trarre con sé molti seguaci, e in genere delle
moltitudini, rischia di risolversi in un danno per la chiesa.
Richiede dunque una speciale licenza papale. Ma un consiglio
cittadino può bene essere scomunicato. Ancora una volta siamo
proiettati sul terreno dei concretissimi conflitti italiani.
L’insegnamento del maestro, lungi dall’isolarsi nell’empireo
della teoresi, offre indicazioni pratiche e operative su come
affrontare i casi quotidiani del tempo: le lotte dei partiti e le
resistenze delle autorità civili.
Rolando, il
domenicano inquisitore, frequenta la stessa corte di Federico animata
da altri personaggi decisamente fuori dal comune. Tra questi un ruolo
da protagonista ebbe certamente Michele Scoto. Lo stesso Dante lo
definisce “mago”, anche se probabilmente le
arti magiche erano utilizzate da Michele per allietare la vita del re
di Sicilia. Walter Scott, l’autore di Ivanhoe, riporta che Michele
Scoto era in grado con una bacchetta magica di far suonare le campane
di Notre-Dame dalle grotte di Salamanca e le sue abilità di mago
sono ricordate anche nella letteratura italiana da Boccaccio, Fazio
degli Uberti e Teofilo Folengo. L'immagine di un Federico che,
servendosi di maghi e astrologi, controlla gli eventi della storia fu
utilizzata per sottolineare il carattere diabolico della sua corte
anche se poi i suoi collaboratori, nonostante le loro arti
divinatorie, non riuscirono ad impedire la sconfitta di Parma
del 1247. Allo stesso Michele si attribuisce quella profezia secondo
cui Federico II sarebbe morto sub
flore,
per cui l'imperatore non entrò mai a Firenze; tuttavia il sovrano
svevo morì effettivamente sub
flore,
ma a Castelfiorentino in Puglia il 13 dicembre 1250.
A
Michele Scoto succedette nel 1238 nel ruolo di astrologo di corte
Teodoro di Antiochia, approdato presso Federico un decennio prima
forse durante un’ambasciata in Armenia, forse per i legami con il
sultano d'Egitto. Ottenne
dall'imperatore favori e benefici, fra cui un feudo in Sicilia, ma
desiderava disperatamente di tornare a casa e morì suicida dopo aver
tentato di fuggire oltremare, disobbedendo ai voleri del suo signore.
Teodoro è designato, nei documenti imperiali, oltre che con il
titolo generico di magister,
con quello di philosophus:
il suo ruolo era quello di filosofo dell'imperatore (imperialis
philosophus),
che non aveva precedenti nelle corti occidentali ma trovava paralleli
nella società islamica. A corte si faceva uso, innanzi tutto, della
sua conoscenza dell'arabo: nel 1240 egli scrisse per conto
dell'imperatore una lettera in arabo all'emiro di Tunisi; nello
stesso anno o poco prima tradusse dall'arabo in latino un trattato di
falconeria, o meglio di medicina dei rapaci, conosciuto con il nome
di Moamin
e destinato a un largo successo in Europa. A Teodoro, in quanto
medico, si richiese di preparare uno sciroppo per l'imperatore e il
suo entourage
(1240); egli mandò una scatola di zucchero di viola a Pier della
Vigna, insieme a una lettera con cui ne raccomandava l'uso; redasse
per l'imperatore un Regimen
sanitatis
in forma epistolare, che si aggiungeva a quelli indirizzatigli da
Adamo da Cremona e da Pietro Ispano. Sono noti inoltre i suoi scambi
di problemi matematici con Leonardo Fibonacci da Pisa e di problemi
geometrici con Judah ben Salomon ha-Cohen : con il primo la
corrispondenza avvenne in latino, con il secondo in arabo.
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