giovedì 20 agosto 2020

I delitti della banda partigiana (seconda parte)

Corteo partigiano (Archivio Anpi Cremona)
Ben diversa la versione fornita dagli abitanti di Spinadesco, in occasione dell'arresto dei giustizieri di Subitoni nel 1951, su quanto accaduto nei primi mesi dopo la liberazione. Un gruppo di persone si sarebbe praticamente impadronito del paese, razziando tutto quanto avevano abbandonato i tedeschi in fuga e tutto quello che era possibile trovare, iniziando ad amministrare la giustizia favorendo la loro stessa parte politica a scapito delle altre. Ruberie, soprusi, gozzoviglie sarebbero stati all'ordine del giorno. Sarebbe stato questo gruppo, di cui avrebbe fatto parte anche “Martedè”, ad uccidere Ernesto Subitoni? Il giovane ufficiale della GNR era appena rientrato da Arona, dove era stato destinato, quando, secondo la versione circolante in paese, sarebbe stato ucciso in pieno giorno da quelli che un tempo erano i suoi compagni, davanti ad un centinaio di persone, senza un apparente motivo che non fosse quello politico. In pratica quelli che erano stati gli amici di una volta non gli avrebbero perdonato il fatto di essere passato dalla parte del nemico. Ma questa versione, come sappiamo, non coincide con la testimonianza di Virginio Lucini e con quanto dichiarato dagli stessi imputati al giudice Acotto durante l'istruttoria del processo.
Un mese prima, il 5 maggio 1945, era stato ucciso, probabilmente per mano di elementi giunti da Cremona, anche Giuseppe Grisoli, milite GNR con mansioni di guardia notturna a Villa Merli, che aveva sposato una ragazza di Spinadesco. Non si è mai saputo chi facesse parte di quel gruppo, a cui, peraltro, viene attribuito anche l'omicidio di “Martedè” avvenuto qualche giorno dopo. Le voci di paese sostengono che si trattasse di un delitto su commissione, perpetrato da uno dei cinque arrestati per l'omicidio Subitoni, ricompensato con la somma di 30 mila lire da parte di un misterioso individuo che Martedè” ricattava per presunti rapporti d'affari poco leciti intrattenuti con i tedeschi, di cui era venuto a conoscenza. Effettivamente i carabinieri, nel corso delle indagini, il 4 gennaio 1952 fermano questa persona, accusata di aver offerto 30 mila lire ad uno dei cinque detenuti per la soppressione di “Martedè”, dopo non essere riuscita a sopprimere personalmente il ricattatore sparandogli una fucilata andata a vuoto. Le 30 mila lire, peraltro, non sarebbero mai state versate. A detta dei testimoni questo “Martedè” doveva essere un personaggio decisamente losco, con la cattiva abitudine di entrare in negozi ed esercizi pubblici senza pagare il conto, ed avrebbe ridotto in fin di vita un venditore di cocomeri per la misera somma di 47 lire.
Negli stessi giorni a Spinadesco si diffonde la notizia che, con l'individuazione degli assassini di Subitoni, potrebbero essere assicurati alla giustizia anche gli autori, che si ritiene siano abitanti in zona, dell'uccisione dell'ingegnere Nino Mori, avvenuta a scopo di rapina. Ufficialmente Mori venne fucilato dai partigiani a Bresso l'8 maggio 1945, ma il settimanale “Oggi” della Federazione cremonese del partito democratico del lavoro in un articolo pubblicato il 6 gennaio 1946, offrì una diversa versione dei fatti. Non si sa esattamente quando e per quale motivo l'ingegnere Mori si sarebbe allontanato da Cremona ben prima del 25 aprile, ma di certo la mattina del 26 aprile partì in macchina dalla villa di Farinacci in via Roma, sul lungolago di Bellagio, che in quegli anni è sede del comando tedesco del colonnello Erich Bloedorn rappresentante del generale della Luftwaffe Wolfram von Richthofen, per essere poi bloccato da un gruppo di partigiani con i fucili spianati nei pressi di Sesto San Giovanni. Bellagio in quegli anni è sede delle ambasciate di quei paesi che hanno riconosciuto la Repubblica di Salò: l'hotel Gran Bretagna che durante il conflitto aveva cambiato nome in “Albergo Grande Italia” ospita le Ambasciate di Ungheria, Croazia, Bulgaria, Romania, Slovacchia e Giappone e in un’ala distaccata l’Ufficio del Cerimoniale degli Affari Esteri e il Sottosegretariato all’Aeronautica Militare mentre Villa Serbelloni e l’albergo Firenze sono occupati dal comando tedesco.
Festa partigiana alle colonie padane (Archivio Anpi Cremona)
Mori si fermò, mostrò i documenti cercando di giustificarsi, ma il fatto di provenire proprio da Cremona, feudo di Farinacci, di guidare un'automobile con disponibilità di carburante e di avere un regolare permesso di circolazione non bastò a convincerli.Venne dunque fatto scendere dall'auto e portato in un vicino edificio scolastico, adibito temporaneamente a luogo di raccolta, in quanto i prigionieri potevano liberamente ricevere visite ed intrattenersi con i familiari. La notizia dell'arresto si diffuse a Sesto e giunse alle orecchie anche di una cremonese, una certa Adalgisa Sandri, che dal 1930 gestiva un piccolo albergo nella località della cattura e conosceva personalmente l'ingegnere Mori. La donna ottenne dunque con una certa facilità il permesso di incontrare il detenuto, che gradì molto la visita e chiese di poter avere qualcosa da mangiare, diverso dal rancio abituale fornito ai detenuti.
Nel frattempo da Sesto San Giovanni avevano telefonato al CLN di Milano chiedendo istruzioni sul da farsi, ma la risposta in un primo tempo era stata tale da non ammettere repliche: Mori era un gerarca troppo conosciuto e doveva essere giustiziato al più presto. Ma, mentre stava per scadere il termine stabilito, in soccorso di Mori al CLN di Sesto si presentarono due persone, un uomo ed una donna, Celeste Ausenda ed Arturo Amigoni, entrambi di “Giustizia e Libertà”, i quali fecero presenti alcune circostanze che suscitarono qualche dubbio in seno al tribunale rivoluzionario che aveva pronunciato la sentenza capitale, e l'esecuzione venne procrastinata in attesa che da Cremona giungessero ulteriori chiarimenti. Nel frattempo Mori rimase chiuso nella sua camera in carcere, l'albergatrice cremonese due volte al giorno gli portava uova e pane secondo le sue richieste. Il primo giorno trascorse tranquillo: Mori era convinto che presto la sua posizione sarebbe stata chiarita e tutto si sarebbe concluso nel migliore dei modi. Ma nei giorni successivi la sua certezza si incrinò ed il terzo giorno accusò forti dolori addominali, tanto che la donna dovette portargli del laudano per lenire il dolore. Il settimanale cremonese “Oggi”, attingendo le notizie da testimoni locali, racconta come si svolsero successivamente i fatti: “Intanto il C.L.N. di Milano aveva potuto mettersi in relazione con quello di Cremona. La cosa fu aggiustata rapidamente: il tribunale popolare milanese revocava la sua sentenza; Mori veniva reclamato dal C.L.N. di Cremona, il quale l'avrebbe fatto rinchiudere in carcere per deferirlo alla Corte straordinaria d'assise. Milano inviò a mezzo di alcuni armati giunti in macchina, gli ordini opportuni a Sesto; ove si presero le disposizioni del caso. Mori era abbattutissimo e piangeva, quando vennero a portargli la notizia che stavano per tradurlo a Cremona. L'annuncio lo consolò. Ringraziò l'albergatrice che lo aveva assistito, prese in consegna alla porta una grossa borsa in pelle che al momento dell'arresto gli era stata sequestrata e che conteneva 150.000 lire e si avviò con la scorta armata. Fiancheggiato da due partigiani, si assise sul seggiolino posteriore della macchina. A fianco del conducente era un altro armato.
E qui comincia il dramma. Testimoni oculari raccontano che l'auto si avviò a piccola velocità alla volta di Milano; ma non aveva percorso che poche centinaia di metri, quando svoltò bruscamente in una stradicciola laterale che finiva nei campi. Qualcuno, incuriosito, si avviò in bicicletta verso la stessa direzione e potè così, da lontano, assistere alla scena. La macchina si era fermata mezzo chilometro lontano dalla provinciale. Mori venne costretto a scendere. Uno dei suoi accompagnatori gli fece deporre sull'automobile la ricca borsa ch'egli portava sotto il braccio. In quel momento Mori intuì la sorte che gli era riservata e piangendo e gridando disperatamente, tentò di commuovere gli armati. Essi furono irremovibili e tentarono, con la violenza, di spingerlo contro un albero. Il terrore fece compiere a Mori un gesto insensato: tentò di darsi alla fuga. Uno degli armati, imbracciato il mitra, sparò una raffica che lo fece cadere. Era soltanto ferito. Urlando, egli si contorceva al suolo. Uno della squadra, allora, si avvicinò al caduto e lo colpì reiteratamente al capo con il calcio dell'arma. Poi risaliti sulla macchina, la fecero retrocedere sino alla strada provinciale e partirono rapidamente alla volta di Milano.
Partigiani ed abitanti di Sesto, accorsero per porgere qualche soccorso: non c'era più nulla da fare. Tra i presenti era il parroco di Sesto; il quale raccolse tutto quel che Mori aveva nelle tasche, sia per procedere ad un riconoscimento ufficiale sia per poter consegnare alla famiglia quanto possibile. Nel portafogli trovò tre immagini sacre. Da qui la convinzione del sacerdote che il morto fosse di sentimenti religiosi. Provvide a sue spese all'acquisto del feretro e fece seppellire la salma nel campo comune del Cimitero”.

Funerali dei partigiani caduti (Archivio Anpi Cremona)
Fin qui i fatti. I tre omicidi di Mori, Martedè e Subitoni vengono messi in relazione tra di loro in quanto in paese si diffonde la voce che tra i cinque arrestati per la soppressione di quest'ultimo vi sarebbe anche il responsabile dell'uccisione del gerarca, ed un altro coinvolto nello stesso delitto sarebbe stato denunciato a piede libero. Secondo questa ricostruzione uno stesso movente legherebbe dunque tra di loro i tre delitti: l'eliminazione di testimoni scomodi, in quanto depositari di segreti che, se rivelati, avrebbero potuto compromettere seriamente qualche personalità di spicco all'interno del C.L.N. Il fulcro della vicenda è la misteriosa borsa che portava con sè Nino Mori al momento dell'arresto. C'è chi parla di una borsa, c'è chi di una busta gialla. Mori l'aveva con sé al momento in cui da Bellagio, dove aveva pernottato nella villa di Farinacci, si dirigeva verso una località sconosciuta, non di certo a Cremona dove era assente da alcuni mesi. Si sa che l'ingegnere del regime dopo l'8 settembre avrebbe espresso la volontà di ritornare nell'esercito con il grado di maggiore del Genio: una comoda via d'uscita per svincolarsi in qualche modo dalle compromissioni con Farinacci riconquistando quella dignità militare che si era già guadagnato nella prima guerra mondiale con una medaglia d'argento ed altre decorazioni e con la partecipazione alla fondazione dell'Associazione dei combattenti cremonesi. Cosa poteva contenere quella borsa, di cui erano sicuramente a conoscenza i suoi carcerieri che l'avevano sequestrata e trattenuta per tutto il periodo della detenzione a Sesto, dal 26 aprile all'8 maggio 1945? Forse non c'erano solo 150 mila lire, ma qualcosa d'altro, decisamente più scottante, al punto da spingere il C.L.N. cremonese ad inviare a Sesto due discussi personaggi come erano Celeste Ausenda e Arturo Amigoni, militanti delle “Brigate Matteotti”, per trattare la consegna di Mori. E chi erano i partigiani venuti da Milano con gli ordini del C.L.N. meneghino per condurre il prigioniero a Cremona, ma in realtà con il preciso scopo di eliminarlo, trafugando la misteriosa borsa? A Spinadesco si sussurra che potessero essere gente del posto, veri e proprio sicari. Di certo si sa che Arturo Amigoni da Cremona, dove abitava in corso Pietro Vacchelli 21, si era trasferito con la famiglia a Milano due giorni prima dell'esecuzione di Mori, il 6 maggio del 1945, senza far più ritorno in città, come risulta da una nota della Questura del 23 luglio 1955 e da una successiva del 4 aprile 1957 (Ascr, Questura, fascicolo Sovversivi).

I delitti della banda partigiana (prima parte)

I partigiani entrano a Cremona (Archivio Anpi Cremona)
E' un caldo pomeriggio di giugno nei campi intorno a Spinadesco. Siamo nel 1945 e da poco è finita la guerra. In campagna regna una strana quiete. Virginio Lucini è solo un ragazzino, ha nove anni e si gode il sole dopo l'inverno, gira tra i viottoli con il suo compagno di giochi Umberto. Ad un tratto il silenzio è rotto da un fruscio tra l'erba già pronta per essere falciata, e dal vociare di alcuni uomini. C'è un ragazzo scalzo che corre trafelato in preda al terrore. Ogni tanto si volta verso quelli che devono essere gli inseguitori, poi scorge lungo il fosso un vecchio gelso. Lo raggiunge e vi si accovaccia cercando riparo, nascosto dall'erba. E' di nuovo silenzio, ma ad un tratto risuona secco un colpo di pistola. Virginio si volta istintivamente verso il gelso ai bordi del campo, ma vede solo un ragazzo allontanarsi in fretta. Non è certamente quello di prima, forse è uno degli altri che lo inseguivano. Virginio è spaventato, gli è sembrato di riconoscere almeno due di quei ragazzi, Gaetano Dosi e Carlo Mori di Spinadesco, e riferisce tutto ai carabinieri, che la sera stessa si recano sul posto e in un fosso, vicino al campo chiamato “Lazzari”, trovano riverso il cadavere di Ernesto Subitoni, tenente della Guardia Nazionale Repubblicana. Ha un foro di proiettile nella regione parietale, poco sopra il collo, e nella mano destra tiene stretta una rivoltella. Ma proprio questo particolare, supportato dal certificato di un medico del luogo, unito al fatto che il compagno di Virginio, Umberto Campanella, sottoposto ad interrogatorio neghi di aver assistito all'episodio, portano i carabinieri ad escludere un omicidio ed a propendere per il suicidio del giovane. L'inchiesta viene chiusa con un non luogo a procedere e l'episodio ben presto dimenticato.
Sei anni dopo, però, quando ormai i fatti di Spinadesco sono un lontano ricordo, accade qualcosa di inaspettato. La sera del 10 dicembre 1951 a breve distanza da Cavatigozzi, sulla via Milano, un commerciante col proprio furgone viene bloccato da un'auto messa di traverso sulla carreggiata da cui scendono quattro giovani con il voto coperto da fazzoletti, che gli intimano di consegnare tutto il denaro che ha con sé. Non c'è discussione, ed i quattro rapinatori ripartono alla volta di via Eridano dove, con lo stesso stratagemma, rapinano Augusto Peri, 53 anni, residente in viale Po, sottraendogli anche l'auto su cui viaggia, una Topolino giardinetta, che poi viene ritrovata in una stradina lungo il Po a Piacenza, priva degli pneumatici e con i sedili smontati.
Viene arrestato con l'accusa di concorso in rapina Pietro Viganò, ex comandante di zona del CLN dal maggio 1945 che, nel corso dell'interrogatorio, si lascia sfuggire alcune frasi relative all'episodio di Spinadesco, che spingono gli inquirenti a ritenere fondata la versione fornita a suo tempo dal piccolo Virginio Lucini. L'inchiesta viene immediatamente riaperta e, il 29 dicembre, vengono arrestati Zemiro Foina, 27 anni, abitante in via Manini 14, Gaetano Dosi, 25 anni di Spinadesco, Carlo Mori, 30 anni, anch'egli di Spinadesco, e Pietro Viganò, 37 anni in quanto esecutori materiali dell'omicidio avvenuto il 5 giugno 1945 e Francesco Carini, 31 anni, residente in via Passera, in qualità di mandante. In effetti Foina, Dosi e Mori confermano di aver ricevuto dal comandante del CLN Francesco Carini l'ordine di arrestare il tenente della GNR Enrico Subitoni, che una donna aveva visto in paese. E' un ordine strano, perchè solo Mori risulta aver militato nella Sap Ghinaglia dal 2 marzo 1943 al 25 aprile 1945, mentre degli altri due non si sa nulla. Comunque sia i tre si recano all'abitazione di Subitoni che, avvertito del loro arrivo, riesce a fuggire calandosi da una finestra. Tuttavia viene inseguito attraverso i campi per circa una paio di chilometri fino a quando, nascosto dietro un gelso, viene sorpreso alle spalle da Foina e freddato con un solo colpo di pistola alla nuca. Foina, poi, lo getta nel fosso dopo avergli messo in mano una delle due pistole che porta con sé, volendo con questo simulare un suicidio.
Nel corso dell'istruttoria, condotta dal giudice Pietro Acotto, il pubblico ministero ritiene che Foina abbia agito spinto solo dall'odio personale, ma l'ipotesi vien ritenuta “assurda” in quanto l'esecuzione di Subitoni avrebbe le caratteristiche di una vera e propria azione politica e, di conseguenza rientrerebbe nella lotta antifascista, volta a prevenire il ricostituirsi di questo movimento. Mentre gli altri imputati vengono assolti con formula piena per non aver commesso il fatto a Foina, che conferma di essere l'autore materiale dell'omicidio negando solo il fatto di aver gettato il cadavere di Subitoni nel fosso, viene dunque riconosciuto il diritto di usufruire dell'amnistia per i reati di tipo politico.
Tuttavia, fin dal momento dell'arresto dei cinque, nonostante l'assoluto riserbo mantenuto dagli inquirenti nello svolgimento dell'inchiesta, Spinadesco ha iniziato ad interrogarsi su quel delitto che qualcuno, fin dal 1945, ha cercato in tutti i modi di occultare. Vi è un tarlo che rode la comunità, cattivi pensieri che emergono dalle nebbie della coscienza collettiva. Perchè avrebbe dovuto suicidarsi un giovane appena tornato dal servizio militare senza aver mai svolto attività politica? E perchè un medico, non si sa di dove, sarebbe stato terrorizzato da minacce di morte al punto da stilare un certificato falso? E perchè i carabinieri, per la prima volta, non ammettono i giornalisti nei loro uffici?
I partigiani a porta Venezia (Archivio Anpi Cremona)
Si diffonde la voce che, in realtà, partendo dall'indagine su Ernesto Subitoni, gli inquirenti potrebbero riaprire anche il caso della fucilazione dell'ingegnere Nino Mori, avvenuta a Bresso l'8 maggio 1945, e sarebbero sulle tracce dei due esecutori materiali, uno già arrestato e l'altro individuato ma ancora a piede libero, che l'avrebbero ucciso a scopo di rapina. Ma riemerge dalla memoria anche un altro delitto avvenuto a Spinadesco nell'estate del 1946, quando venne tratto a riva dal Po, nei pressi di Stagno Lombardo, il cadavere di un uomo identificato successivamente con “Martedè”, il soprannome dato ad un contadino di Spinadesco che, dopo essere stato un fervente fascista, si era rifugiato a combattere con i partigiani in montagna, conquistandosi quella fama che poi, nel dopoguerra, gli aveva consentito di rivestire una posizione politica di rilevanza nel comune. Chi poteva averlo ucciso, e per quale motivo? Paolino Luigi Martedei, più conosciuto come Paolo, era nato il 24 gennaio 1901 a Motta Baluffi ed era stato congedato definitivamente dall'esercito, dove aveva prestato servizio in fanteria, il 12 agosto 1939. Il 14 giugno 1944 era entrato nella formazione partigiana “Bersani” che operava nella zona di Piacenza, in cui aveva militato fino al 28 aprile 1945. Risiedeva con la moglie Angela Bernuzzi nella cascina Cavecchia di Spinadesco. Il suo cadavere venne rinvenuto nelle acque del Po nei pressi di Stagno Lombardo l'8 giugno 1946.
Indubbiamente nei giorni immediatamente successivi alla liberazione la situazione è particolarmente confusa. Francesco Carini, in qualità di comandante del Corpo Volontari della Libertà della Sap Ghinaglia, l'11 maggio 1945 invia un dispaccio in cui invita tutti i partigiani a sottostare ai suoi ordini: “Tutti i partigiani di passaggio o che si fermassero temporaneamente nella zona di Spinadesco devono sottostare agli ordini del Comandante il Corpo Volontario della libertà unico capo riconosciuto e approvato dal C.L.N. Chiunque trasgredisse a questa disposizione verrà punito”. (Ascr. Archivio Anpi, busta n.46). Nessuno degli implicati nell'omicidio di Ernesto Subitoni figura tra i partigiani che hanno guidato in paese l'insurrezione del 25 aprile. Lo stesso Carini, in una relazione inviata il 12 luglio 1945 al Presidente del CLN provinciale, specifica che la rivolta è nata spontaneamente da parte di un gruppo ristretto di persone: Mario Poli, Mario Lazzari, Annibale Zanni e Giovanni Lampugnani. Attendendo il momento avevano distribuito volantini a stampa, opuscoli e giornali, del tipo “L'Italia combatte”, “L'Avanti”, “L'Unità”, “il Volontario S.A.P.” e “L'edificazione socialista” forniti dapprima da Arnaldo Feraboli e poi da Ettore Ghidelli della Sap Ghinaglia, entrambi di Cremona. Al momento dell'insurrezione son questi gli attivisti che costituiscono ed insediano a Spinadesco il Cln provvisorio, “indipendente dal fattore politico”, sottolinea Carini, che riesce a raggruppare intorno a sé un buon numero di giovani in modo da costituire il Corpo Volontario della libertà armato, guidato dallo stesso Carini, con il compito di “ottenere con qualsiasi mezzo: il fermo ed il disarmo dei fascisti repubblicani del luogo, il fermo ed il disarmo di diversi soldati tedeschi in ritirata, la costituzione del servizio di polizia per il buon mantenimento dell'ordine e la sorveglianza del passaggio di qualche elemento sospetto; emanando ordini ritenuti indispensabili per il buon andamento della vita civile del Paese e per lo scopo prefisso inerente alla liberazione desiderata; provvedere alle materie prime relative all'alimentazione della popolazione”.
Verzelletti commemora il 25 Aprile (Archivio Anpi Cremona)
Dopo il 25 aprile, “il momento più delicato che richiedeva lo sforzo massimo anche a costo di una qualche vita”, il CLN provvisorio decide di sciogliersi per dar vita il 6 maggio al CLN regolare, costituito dalle rappresentanze dei cinque partiti maggiori. Ne fanno parte il comunista Francesco Carini, presidente; il socialista Quinto Salvini, il democristiano Mario Galli, Dino Andreani per il Partito d'Azione ed il liberale Luigi Spigaroli, che poi si dimette per ragioni personali senza essere sostituito. Prime azioni del nuovo CLN sono la nomina del sindaco, l'ex partigiano Annibale Zanni, e il lancio di una sottoscrizione pubblica per i poveri del paese, per le famiglie dei caduti in guerra e gli internati in Germania, che consente di raccogliere oltre 222 mila lire, di cui 86 mila effettivamente destinate allo scopo, e le restanti 136 mila depositate su un libretto di risparmio per le altre eventuali necessità. Carini nella sua relazione parla di “esito felice” per i cinque punti in cui si è articolata l'attività del CLN, fino al disarmo dei partigiani, avvenuto entro luglio, ed il conferimento di pieni poteri al sindaco. Sottolinea le difficoltà dell'approvvigionamento alimentare, di un mercato nero alimentato dalle nuove libere associazioni e dai consorzi che ricordano ancora le defunte federazioni fasciste, ma non accenna ad episodi di esecuzioni sommarie di fascisti. La relazione è controfirmata dal comandante di zona Pietro Viganò. Viceversa un messaggio del Capo di Stato Maggiore del CLN Gianni Bianchi inviato l' 8 maggio al Questore e per conoscenza al Prefetto, informa dell'esistenza di un corpo di Polizia giudiziaria formato da ex fascisti, impadronitisi della caserma e delle armi del Fronte della Gioventù di Sesto Cremonese, che si è incaricato autonomamente di mantenere l'ordine e sollecita gli organi competenti a ripristinare la legalità.

(1. continua)

venerdì 14 agosto 2020

L'esordio cremonese di Tazio Nuvolari

Tazio Nuvolari nel 1920
Quella mattina del 20 giugno 1920 gli sportivi cremonesi si erano svegliati all'alba e porta Venezia, già alle 6, brulicava di gente, come in un giorno di mercato. Al foro boario, però, nel recinto destinato al bestiame, non ci sono le vacche e si sente un insolito crepitìo: scoppi improvvisi, rombi di motori tirati al massimo, e zaffate di benzina. Regna una gran confusione, gente che va e viene, che urla e impreca, in preda all'agitazione. Tra gli ultimi, febbrili, preparativi del IV Circuito Internazionale motoristico di Cremona, nessuno ha tempo di badare a quel ragazzo minuto che trascina impacciato una moto Della Ferrera Corsa da 600 cm. E' la prima gara a cui si è iscritto, anche se non è più giovanissimo. Pur avendo già una certa dimestichezza con i motori, è stato richiamato alle armi come “autiere” e ha guidato autoambulanze della Croce Rossa, camion e vetture che trasportano gli ufficiali, tra le prime linee e le retrovie del fronte orientale. Gli anni sono così passati e solo da qualche giorno ha ottenuto la licenza di pilota di moto da corsa per poter partecipare alla sua prima gara. Si è innamorato delle moto che era poco più di un bambino, quando lo zio Giuseppe lo aveva fatto sedere in sella a una motocicletta e gli aveva insegnato a guidarla. Poi, il 5 settembre 1904 aveva assistito per la prima volta a una corsa automobilistica, il Circuito di Brescia, che si disputava su un tracciato stradale che toccava anche Cremona e Mantova. Aveva visto in azione Vincenzo Lancia, Nazzaro, Cagno, Hémery, Duray, gli assi dell’epoca, ed era rimasto affascinato dallo spettacolo della velocità. Da allora è passato qualche anno, nel 1917 il ragazzo si è sposato ed ha già un figlio, Giorgio. Ed è proprio col nome dato al figlio, che si iscrive alla gara: Giorgio Nuvolari, da Mantova. Il suo primo nome è Tazio, e fra qualche anno darà filo da torcere a tutti quanti, fino a diventare quello che Ferdinand Porsche definirà “il più grande corridore del passato, del presente e del futuro”. Per ora, però, deve accontentarsi.
Alla stessa gara è iscritto un altro Nuvolari, Gottardo, suo cugino. La prova si articola su due categorie: 600 cmc e 1200 cmc. Tra i 45 partecipanti iscritti vi sono anche altri piloti cremonesi: Ettore Cavalleri e Giuseppe Guindani nella classe 600, e Oreste Perri nella 1200. “Non sfugge, guardando questo elenco – scrive il cronista de “La Provincia” - così ricco di «assi» del motociclismo l'intimo compiacimento per una così vasta accolta di campioni, garanzia sicura di un grande successo tecnico-sportivo del IV Circuito Cremonese. E che questo grande successo debba veramente assistere la manifestazione cremonese non è dubbio se noi ricordiamo qui quel senso di impressione vaga e profonda che le macchine in prova hanno lasciato in noi. Ieri sul circuito come tanti piccoli rettili magnetici si son provate e riprovate le macchine. Ogni guidatore ha fatto in un senso e nell'altro il circuito, ha ascoltato il palpito fremente del cuore della macchina in moto, ha provato le curve, i rettilinei, s'è lanciato a velocità che faceva rabbrividire. I colossi di 1200 cm., cioè le «Indian», tutte rosse. Le «Harley Davidson», le «Henderson», e le altre di minore categoria come le «Gilera», le «Borgo», le «Della Ferrera», le «Motosacoche», le «Frera» hanno raggiunte velocità fantastiche da lasciare perplessi i più provati a questi exploits motociclistici».
Nuvolari sulla "Della Ferrera" del 1920
Purtroppo l'esordio di Tazio Nuvolari non è dei più felici. Si ritira dopo pochi giri per rottura meccanica, e di suo cugino Gottardo non si sentirà più parlare. La vigilia della corsa, peraltro, è funestata da un incidente mortale provocato dalla temerarietà di un pilota che investe ed uccide un addetto al circuito. Vince Carlo Maffeis, su una Bianchi 600, tutti ritirati i cremonesi in gara. “Vero è che l'eroe della giornata, Carlo Maffeis, che era partito con la macchina più minuscola per compiere la più grande performance, è il mago della motocicletta e nel segreto della sua grande competenza è riposto gran parte del suo valore di guidatore. Ma questo non può scusare a sufficienza la dèbacle delle grosse macchine, perchè ricordiamo il secondo arrivato nella categoria dei 600 cmc, Rossi di Lugano, che partecipò con una macchina da turismo comune, una Motosacoche commerciale, il quale, ha fatto una media di poco inferiore a quella di Bordino, primo nella categoria dei 1200 cmc.”.
La cronaca della gara: “Alle sette e mezza i guidatori sono allineati agli ordini del rag. Macoratti, cronometrista ufficiale. Non partono Ceresa, sofferente per l'incidente della vigilia, Cavalleri di Cremona per non aver presentato la macchina la sera precedente, e Capitani, Schena, Poli per i 600 cmc e Bernia, Lugarini, Perri nei 1200 cmc. I giri del circuito si susseguono brevemente. Al primo giro, ore 8,14, cioè in 43 minuti, Rossi passa primo, seguito da Mancini, De Leonardis, Bianchi, Maffeis e dagli altri, macchine pesanti, e macchine leggere che si susseguono pazzamente, assordando tutto il vastissimo rione con la sinfonia dei motori frementi. Cominciano i primi ritiri, per incidenti. Sono Della Ferrera, Wincler che è caduto, Napuzo, Donati, Forti, Malvisi che hanno guasti irreparabili alle macchine.
Al secondo giro Carlo Maffeis è in testa con tre minuti di vantaggio. Anche qui nuovi ritirati: Donati, Guindani di Cremona, Forisi, Oggero, Robbo, Amerio, mentre Mancini, Maffeis, Miro, Domenico Malvisi, Rossi sono obbligati a compiere affrettate riparazioni che provocano la perdita di minuti preziosi, tanto bene guadagnati sin qui con una condotta di gara onorevolissima. Siamo ormai alla fine. Alle 9.50 minuti Carlo Maffeis giunge trionfante, accolto dai più vivi applausi dal pubblico. Poi giungono gli altri mentre il capitano Nelli è costretto a ritirarsi per improvvisa mancanza di benzina. In totale sono giunte 20 macchine al traguardo, Di queste 12 appartengono alla prima categoria, e 8 alla seconda. C'è da compiacersi di tutto questo, perchè, unito al risultato tecnico della prova, come abbiamo detto sopra, è molto. Il Circuito di Cremona ha pronunciato un severo monito agli uomini che vogliono guidare macchine e a chi si accinge alla costruzione di modelli perfetti. Un monito che da tempo si attendeva e solo il circuito cremonese, nel modo come è stato organizzato e come si è svolto, poteva e doveva dire.
Diano quindi piena lode agli organizzatori (la US. Cremonese, ndr) e restiamo sicuri che il successo attuale sarà sprone per iniziative con generi che tanto contributo recano alla causa dell'industria motociclistica. Nel 1920, con la presenza di 20 macchine straniere, di grande potenzialità, una modesta, ma elegante, ma sicurissima Bianchi di due cilindri con cilindrata di 494 cmc. riesce a conquistare il primato con sicurezza. E' una tappa questa, per la produzione italiana, che presagisce ad essi i più rosei destini!”.
Tazio Nuvolari non si dà per vinto e nel 1924 torna al Circuito di Cremona per vincerlo a bordo di una Norton. Ma intanto si era già fatto conoscere anche come pilota di auto vincendo la sua prima gara il 20 marzo 1921, a Verona, alla guida di una Ansaldo Tipo 4 cs. Si trattava di una competizione regolaristica (la Coppa Veronese di Regolarità) ma, come inizio, non c’è male. Con la stessa vettura Tazio prende il via altre tre volte nel 1921, ottenendo due piazzamenti e un ritiro.
Nel 1922, si trasferisce con la moglie e il figlio dal paese natale di Castel d’Ario a Mantova: effettua tre corse in moto a quanto è dato sapere e una sola in auto, il Circuito del Garda, a Salò, con un secondo posto assoluto, ancora alla guida di un’Ansaldo. Il 5 novembre 1922 arriva anche il primo successo sulle due ruote davanti al pubblico di casa, al Circuito di Belfiore, ai comandi di una Harley Davidson. l’anno seguente trionfa a Busto Arsizio ancora con una Norton e sale sul gradino più alto del podio del Giro dell’Emilia e del Circuito del Piave con una Indian.
È nel 1923, quando ormai ha trentun anni, che Tazio incomincia a correre con assiduità. Fra marzo e novembre prende la partenza 28 volte, 24 in moto e 4 in auto. Non è più, dunque, un gentleman driver, bensì un pilota professionista. In moto è la rivelazione dell’anno. In auto alterna piazzamenti e abbandoni ma non manca di farsi notare, se non con la Diatto, gioiello tecnologico da 2 litri prodotto dall'azienda torinese, certo con l’agile Chiribiri Tipo Monza, che l'8 febbraio aveva conquistato, con il tipo Ada, il record di velocità a Milano.
L’attività motociclistica predomina anche nel 1924: 18 risultati, contro 5 in auto. Questi 5 sono tuttavia ottimi: c’è la sua prima vittoria assoluta (Circuito Golfo del Tigullio, 13 aprile) e ce ne sono quattro di classe. In Liguria corre con una Bianchi Tipo 18 (4 cilindri, due litri di cilindrata, distribuzione bialbero); nelle altre gare, ancora con la Chiribiri Tipo Monza. Tazio è alla guida di questa vettura quando per la prima volta si batte con un avversario destinato a un grande avvenire, anche se non come pilota. È un modenese grande e grosso. Si chiama Enzo Ferrari. 
E arriva il 1925, anno in cui Tazio corre soltanto in moto, ma con un «intermezzo» automobilistico tutt’altro che insignificante. L’1 settembre, invitato dall’Alfa Romeo, prende parte a una sessione di prove a Monza, alla guida della famosa P2, la monoposto progettata da Vittorio Jano che fin dal suo apparire, nel 1924, ha dominato la scena internazionale. L’Alfa cerca un pilota con cui sostituire Antonio Ascari che poco più di un mese prima è morto in un incidente nel G.P. di Francia, a Montlhéry. Per nulla intimidito, Nuvolari percorre cinque giri a medie sempre più elevate, rivelandosi più veloce di Campari e Marinoni e avvicinando il record stabilito da Ascari l’anno prima. Poi, al sesto giro, incappa in una rovinosa uscita di pista. 

La macchina è danneggiata, il pilota è seriamente ferito, ma dodici giorni più tardi, ancora dolorante, torna a Monza, si fa imbottire di feltro e bendare con una fasciatura rigida, si fa mettere in sella alla fida Bianchi 350 e vince il G.P. delle Nazioni.
Anche il 1926 è interamente consacrato alla moto, la Bianchi 350, la leggendaria «Freccia Celeste» con la quale Tazio vince tutto ciò che c’è da vincere. Subisce anche tre incidenti, il primo dei quali sul circuito della Solitude, vicino a Stoccarda. Dopo un’uscita di pista a causa della nebbia, è raccolto privo di sensi, minaccia di commozione cerebrale, sospette fratture, shock traumatico. All’indomani sospetti e pericoli sono ridimensionati e Tazio riparte in treno per l’Italia, incontrando al confine un dirigente della Bianchi che sta recandosi a Stoccarda per rendersi conto esattamente dell’accaduto: le prime notizie, in effetti, erano molto allarmanti, un telegramma del console italiano esprimeva preoccupazione e pare inoltre che un giornale tedesco della sera fosse addirittura uscito con la notizia della morte del pilota
La sua popolarità è ormai molto vasta. Lo chiamano “il campionissimo» delle due ruote”. Ma l’automobile non gli esce dal cuore. E ci riprova, implacabile, nel 1927, anno in cui con una Bianchi Tipo 20 disputa la prima edizione della Mille Miglia arrivando buon decimo assoluto. Ma acquista anche una Bugatti 35 e vince il G.P. Reale di Roma e il Circuito del Garda.
È nell’inverno tra il 1927 e il 1928 che Tazio decide di puntare con piena determinazione sull’automobile. Su due ruote Nuvolari vinse 39 gare in poco più di 7 stagioni (5 vittorie al circuito del Lario, la sua corsa prediletta, su Bianchi 350, la sua moto preferita).