Compie
un secolo la più terribile delle pandemie di influenza, la Spagnola,
che all’inizio del 1918 fece la sua comparsa provocando milioni di
morti nel mondo: tra il 1918 e il 1920 sterminò tra 25 e 50 milioni
di persone, dopo averne contagiate circa un miliardo. Recenti stime
parlano addirittura di 100 milioni di morti, cinque volte di più di
quanti ne uccise la famigerata peste nera del 1348. Il nome
“spagnola” deriva dal fatto che quando iniziò a diffondersi ne
parlarono principalmente i giornali del paese iberico, questo perché
la Spagna non era coinvolta nel primo conflitto mondiale e dunque la
libertà di stampa non era soggetta ai limiti della censura di
guerra. Del resto, annunciare che una misteriosa epidemia stava
falcidiando popolazione e soldati non poteva avere un impatto
positivo sul morale delle truppe, già logore da anni di durissima
guerra di trincea. Per questo i giornali del tempo enfatizzavano i
fatti della guerra, soprattutto in Italia dove si stava combattendo
la battaglia del Piave, definendo l'epidemia “influenza dei tre
giorni” e indicandola semplicemente come uno strano morbo. Fino a
quando nell'estate del 1918 l'influenza esplose in tutta la sua
virulenza, accompagnandosi con gravissime complicazioni a livello
polmonare che furono responsabili della maggior parte dei decessi. Si
ritiene che in Europa fu introdotta dai soldati americani, sbarcati
in Francia nell'aprile del 1917 per partecipare al conflitto, perchè
il primo focolaio fu un forte in Kansas o un altro in Texas, dove
vennero colpiti 1.100 soldati.
Il
nostro paese fu uno di quelli più colpiti dall'influenza spagnola;
il tasso di mortalità è stato secondo solo a quello russo, dove le
condizioni climatiche estreme aggravarono ulteriormente la
situazione. Si stima che in Italia il morbo colpì oltre 4 milioni e
mezzo di persone, uccidendone tra le 375mila e le 650mila. Un numero
impressionante, se si considera che all'epoca la popolazione italiana
era composta da 36 milioni di cittadini. A Cremona, secondo Mario
Levi, sarebbero morte 1621 persone ma, per il silenzio che per mesi
circondò la misteriosa malattia, potrebbero essere state molte di
più.
Un
primo accenno indiretto del morbo si ha, però, solo in un'inserzione
pubblicitaria dal titolo “Tifo e 'grippe' spagnola” su “La
Provincia” del 25 settembre dove si consiglia l'acquisto di un
“Assorbi polvere” sulla scorta di un articolo pubblicato sul
Corriere della Sera del 19 firmato dal medico capo municipale di
Milano sulle norme igieniche da adottarsi per evitare le malattie:
“Tutte le nostre Signore ne faranno certamente tesoro e si
provvederanno, senza indugio, di un Assorbi Polvere Ideale, perchè
questo è l'unico apparecchio che nella sua semplicità e praticità
riunisce tutti i requisiti necessari allo scopo. Difatti esso
disinfetta gli ambienti, assorbendo istantaneamente polvere e microbi
senza diffonderli nell'aria, e non solo pulisce rapidamente ed in
modo perfetto pavimenti, mobili plafoni e pareti lucide ecc. ecc. ma,
in virtù del preparato speciale di cui è imbevuto, conserva e rende
più brillanti tutte le superfici lucide; è quindi non solo
igienico, ma anche pratico, utile ed economico”. Il prezzo di un
tale portento? 15,50 lire con bastone e 14,75 per l'apparecchio a
forma di spazzola per i mobili. Il 1 ottobre, mentre si registravano
già i primi morti, usciva un trafiletto dove si diceva semplicemente
che, date le “eccezionali condizioni del momento” era stato
varato un decreto legge che concedeva ai prefetti la facoltà di
fissare i prezzi massimi “dei medicinali di maggior uso”, “allo
scopo di ovviare ai gravi danni derivati alla pubblica salute dai
prezzi eccessivamente elevati dei medicinali”.
Ma
la spagnola uccideva. Lo sapeva bene un povero prete di campagna, don
Gioachino Bonvicini, parroco del piccolo borgo di Ognissanti,
trecento anime, quasi tutti contadini, che in questo lembo di pianura
assiste attonito alla repentina scomparsa dei suoi parrocchiani. A
tal punto spaventato da scriverlo nel suo “Diario”. Le poche
notizie che si hanno dell'influenza sono frutto in un passaparola e,
stante il silenzio degli organi competenti, acquistano quasi la
dimensione di un misterioso flagello biblico che si accompagna alla
guerra ed all'annata agricola compromessa dalla pioggia, che continua
a cadere copiosa.
“30
settembre 1918 - annota don Bonvicini - Alcuni giorni or sono Priori
Caterina maritata Genevini Liderico è andata ad assistere l'ammalata
sua sorella Luigina a Vighizzolo che era in casa della maestra Amalia
Priori altra sua sorella, tutte e tre native d'Ognissanti, ma mentre
assisteva la sorella, si ammalò essa pure, e così si ammalò anche
la maestra Amalia, tre sorelle in casa ammalate, le quali sono ora
assistite alla parente Giuseppina maritata Farina, pure di
Ognissanti. La notte di venerdì 28 del mese. Mentre si faceva la
santa comunione per viatico alla Luigina, l'hanno fatto anche le
altre due sorelle. Ieri sera circa alle 11 di notte la Luigina è
morta da polmonia secca e tifo, e anche del male che si dice la
febbre spagnola, malattia della quale non ho mai sentito il nome e
che ora è diffusa in tante città d'Italia e altri luoghi. La morte
Luigina arrivata a casa da Milano circa otto giorni fa si è subito
ammalata, e nella notte passata è morta. A Milano la malattia è
assai diffusa, e mi diceva il parroco di Gazzo alla Pieve, dove
stamattina si è tenuta la congregazione foranea, che egli ha parlato
con uno che veniva da Milano che là in uno stabilimento di quattro
mila operai circa ve ne erano di più di mille ottocento ammalati, e
ve ne sono molti, tanto nei borghesi, quanto nei militari. A Parma si
dice che il male diminuisce. Qui ad Ognissanti vi sono varie donne e
giovani con tifo e condotte all'ospitale, e anche a casa a moglie del
maestro Pederneschi Vittorio alla quale in questa mattina ho fatto la
santa comunione. Di Dramagni vi sono all'ospitale per tifo tre donne,
e a casa alcuni uomini. Non basta adunque il grande flagello della
guerra, vi è anche quello di malattie contagiose. L'ospitale di
Cremona ha proibito l'entrata agli estranei. Quindi non si può più
visitare gli ammalati se non in caso estremo dal padre e dalla madre,
ma anche in questi casi si esigono tante prescrizioni. Ha detto poi
ancora il parroco di Gazzo che i medici per preventivo della malattia
prescrivono di bere vino e fumare”.
In presenza di una tale confusione,
mentre l'epidemia infuria, la giunta comunale il 4 ottobre
si decide ad emanare un comunicato
ufficiale in cui minimizza la portata dell'epidemia che “ha avuto e
mantiene sinora tra la popolazione civile di Cremona, in complesso,
un carattere assai mite. Infatti nella maggior parte dei casi si
presentano fenomeni morbosi tali per cui gli ammalati vengono
obbligati al letto soltanto per tre o quattro giorni”. E mentre
altrove la mortalità si presentava con una percentuale del 4-5%,
stando alla giunta, “in base alle chiamate ai medici condotti” la
mortalità sarebbe stata inferiore all'%. Tuttavia “a profitto di
tali ammalati riferibili alla popolazione povera, l'amministrazione
comunale avrebbe preferito poter tornare a usufruire dell'Ospedale
Ugolani Dati, ma siccome detto istituto nelle attuali contingenze non
può essere ceduto, si sta altrimenti provvedendo a cura
dell'Ospedale Maggiore occupando, se sarà il caso, locali di
pertinenza del Comune. Frattanto, a profitto di tutti, in genere, gli
ammalati, la Giunta sta dando ultime disposizioni per attuare un
venditorio-permanente di latte ad uso esclusivo degli infermi”.
L'amministrazione comunale non volle chiudere le scuole che “non
fanno viceversa che arrecare inutili cospicui danni ad altri vitali
interessi della collettività”. “Se poi si tien conto che certe
misure di carattere sensazionale, ma destituite di qualsiasi
fondamento scientifico, contribuiscono più che altro a diffondere il
panico che agisce come un debilitante fisico e quindi come una causa
di predisposizione a contrarre il morbo, la Giunta confida che, da
parte della stampa, dei medici e di tutti i cittadini di buonsenso si
vorrà, anziché invocare provvedimenti draconiani, fare piuttosto
opera per mantenere la calma fra la popolazione, e per diffondere
quei precetti di ben intesa profilassi individuale che già sono
apparsi su quasi tutti i giornali dei grandi e piccoli centri”.
Di quale fosse, in realtà, la
situazione, ci informa sempre, dalle pagine del suo diario, don
Gioachino Bonvicini: “21 ottobre 1918. In questi giorni in questi
paesi molti sono ammalati specialmente donne giovani ed anche uomini;
vi sono giovani ammalate da tifo ed altre da febbri dette spagnole,
che è influenza come è avvenuto in altri anni, morti fino a
quest'ora non ve ne sono. Alla Pieve S. Giacomo moltissimi sono gli
ammalati tra i quali il medico Tedoldi Amilcare il quale ha la
condotta di Sospiro e del ricovero, e lo stesso speziale, si dice che
il medico è ammalato gravemente. Andati alcuni in Comune per
domandare un medico pei suoi malati hanno risposto che non ne
trovano, hanno scritto anche a Mantova e non fu data risposta. Mi
diceva uno di Cremona ieri che là moltissimi sono i malati, e vi
sono colpite intere famiglie; nei giorni passati all'ospitale ne
morivano dai 60 ai 70 al giorno, ora sembra alquanto diminuito il
numero dai 25 ai 30. Mancano anche le medicine, e quelle che si danno
sono carissime, basti il dire che per un'oncia di olio d'origine
(ricino) ci vuole una lira, e a trovarne.
Oltre la malattia i giorni passati sono
stati con grandi piogge, il melicotto sulle aie marcisce, ne hanno
ancora nei campi da raccogliere e le pannocchie che sono in terra,
che sono ancora molte ancora, queste vanno a male. I poveri vedono
tutta la loro speranza che consiste nella raccolta del melicotto
andar fallita. Sono stati fortunati quelli che l'hanno raccolto in
tempo. La semina del frumento non è ancora cominciata, ed è passato
San Luca che il proverbio dice: chi non ha seminato balucca. Anche
questa semina la si teme infelice, perchè mi hanno detto che la
semina fatta sul tardo non dà quella rendita che dovrebbe dare”.
“La calma è il segreto di ogni
successo”, ammoniva ancora il giornale il 5 ottobre, assicurando
l'andamento benigno dell'epidemia, che però, contrastava di fatto
con le precauzioni adottate in tutta la provincia per evitare il
contagio, “data la natura dell'infezione, la quale, rapida nel
diffondersi, si trasmette anche a mezzo di individui apparentemente
sani”. A complicare il quadro l'impossibilità di utilizzare al
massimo l'ospedale Ugolani Dati, già impegnato nel soccorso dei
soldati ammalati, e la mancanza di medicinali e disinfettanti, di cui
si inizia a parlare dopo una decina di giorni dall'insorgenza
dell'epidemia, quando la farmacia dell'Ospedale si trova sprovvista
del chinino necessario a fronteggiare l'emergenza. E' proprio verso
la metà del mese che iniziano ad affiorare i primi dubbi in merito
alle dichiarazioni rassicuranti fornite dal medico provinciale
Alessandro Prati, secondo cui in alcuni comuni colpi per primi la
spagnola “è già in via di decrescenza, mostrando tendenza a
presentare, abbastanza breve, il periodo di massimo sviluppo”. La
polemica infuria e l'Ospedale Maggiore è costretto ad ammettere di
avere quasi esaurito i 7,155 chili di chinino a disposizione il 1
ottobre, e di avere scorte di “sali di chinina” fino al 31
dicembre, residuo degli acquisti fatti nell'anno precedente, ma di
aver già dato avvìo alle pratiche per le nuove forniture. Ed un
anonimo funzionario di un ufficio pubblico denunciava: “E' bene si
sappia che se non fosse stato per l'opera intelligente e
soccorritrice dei sanitari che tutto hanno sacrificato e sacrificano
per combattere l'influenza, l'ufficio locale d'igiene ben poco o
nulla ha fatto e fa per evitare la diffusione dell'epidemia
specialmente nelle case popolari. Nientemeno detto ufficio ha anche
negato al disinfezione di alcuni uffici governativi dove, per
l'affollamento di persone che lavorano in locali ristretti,
giornalmente si registrano casi di malattie epidemiche con decessi. E
che cosa vogliono aspettare questi signori che ne muoiano degli altri
prima di provvedere ad una curata disinfezione dei locali medesimi?”.
Il 17 ottobre l'ennesima pubblicazione di “precetti igienici contro
l'epidemia influenzale” suona quasi una resa: “La diffusione
generale di questa malattia dominante, e la impotenza della autorità
sanitarie ad isolarne i focolai oramai troppo numerosi, debbono
convincere la cittadinanza che solo la osservanza spontanea,
diligentissima dei singoli cittadini e delle singole famiglie a
precetti igienici ed alle disposizioni profilattiche possa affrettare
la fine dell'epidemia conciliando nel modo più efficace l'interesse
privato e quello della pubblica salute”, Ma ormai l'interesse di
tutti è concentrato altrove, alla battaglia di Vittorio Veneto
iniziata il 24 ottobre con l'avanzata delle truppe italiane che
porterà alla vittoria. Anche don Bonvicini dal suo piccolo
osservatorio non parla più della moderna pestilenza. Ne fa solo un
accenno qualche giorno dopo, in occasione della festa di
Sant'Omobono, quando si accorge di non avere a disposizione cantori
ed organista. Ma ormai il peggio è alle spalle.
“13 novembre. Già aveva fatto
conoscere la mia intenzione, ma in questo giorno è venuto il sole
dopo tanti giorni piovosi. Tutti avevano il melicotto sull'aia già
guasto per le lunghe piogge e tutti sono corsi per far asciugare il
frutto delle loro fatiche di tutta l'estate, ma conoscevano che era
andato alla malora. In paese quattro canterine erano ammalate della
così detta spagnola ed obbligate al letto; il maestro Paderneschi
Vittorio è stato colto da questo male e quindi non poteva venire a
suonare l'organo. Venute le 10 vado fuori con la messa, 7 o 8 donne
soltanto. Cosa doveva fare? Ho dovuto dir messa bassa”.
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