Ebrei in un quadro di Jan van Aick |
I rapporti tra le comunità ebraiche e
i cristiani furono sempre abbastanza tesi, nonostante che il duca di
Milano Francesco Sforza nutrisse per gli ebrei una particolare
predilezione. Già nel 1387 Gian Galeazzo Visconti aveva concesso ad
alcuni di essi di vivere entro i confini del ducato, purchè
risiedessero separati dai cristiani. Da Pavia, dove si insediò una
nutrita comunità, i mercanti ebrei si trasferirono nel cremonese e a
Soncino, dove peraltro erano già stati diffidati dal rimanere fin
dal 1393, fondarono una tipografia dalla quale uscì, nel 1488, una
superba edizione della Bibbia. Qualche anno prima, nel 1456, il duca
aveva emesso dei capitoli nei quali concedendo ospitalità alla
popolazione ebraica, fissava anche alcune norme di convivenza con gli
abitanti cristiani. Tra queste norme una, in particolare, faceva
obbligo agli ebrei di portare un distintivo e condannava nella
maniera più categorica i matrimoni con i fedeli dell'altra
religione. La vicenda che raccontiamo, tratta dai documenti
conservati all'Archivio di Stato di Milano, interessa proprio
quest'ultimo punto e, nella sua crudezza, ci offre uno spaccato vivo
e drammatico di quell'epoca.
Caracosa, la giovane ebrea figlia di
David di Castelnuovo Scrivia, nei pressi di Tortona, e moglie di
Salomon, banchiere di Viadana, era sicuramente molto bella. I
documenti e le lettere ducali che permettono di ricostruire la sua
storia non ne parlano, ma di lei si era perdutamente invaghito un
certo Filippo Gallina, cristiano che bandito da Pavia, aveva trovato
rifugio nel paese di Sale, in provincia di Alessandria.
Non sappiamo quando Filippo vide la
giovane ebrea per la prima volta. Certamente la conosceva, ma, viste
le proibizioni in vigore, nutriva la sua passione in segreto, da
lontano, passando in rassegna le varie possibilità per scavalcare i
regolamenti e far sua la ragazza. Quella mattina dell'autunno del
1468 decise di entrare in azione: il piano che lungamente aveva
architettato non poteva fallire. La storia che egli aveva costruito
per giustificarsi di fronte alla legge poteva benissimo reggere e la
sua parola valeva quanto quella dell'ebrea, e poi si sa, i cristiani
odiavano gli ebrei perchè usurai. Ne sapeva qualcosa anche il
vescovo di Cremona Giovanni Stefano Bottigella, originario di Pavia,
che contrasse un prestito di 8000 lire all'interesse del 30% ed
inoltre anche i nuovi regolamenti del duca non confermavano forse che
gli ebrei, per la loro colpa di aver crocifisso Cristo, erano
condannati alla servitù nei confronti dei cristiani?
Venuto a sapere che Caracosa, dopo
essersi recata a trovare il padre a Tortona, si era messa in viaggio
alla volta di Viadana ed era prossima a raggiungere Sale, Filippo
chiese al podestà che fosse arrestata per averlo tratto in inganno:
gli aveva infatti promesso che si sarebbe convertita al cristianesimo
e lo avrebbe sposato, ripudiando, insieme alla religione, anche il
marito. Ma qualcosa nel piano non funzionò. Fu riconosciuta
l'infondatezza delle affermazioni e la ragazza, dopo essere stata
liberata, potè raggiungere il marito. Ma le peripezia di Caracosa
non erano finite.
La Pasqua ebraica in una miniatura |
Una volta a Viadana, Filippo tornò
alla carica facendola nuovamente arrestare e conducendola prigioniera
a Mantova, dove fu salvata, questa volta, dall'intervento del
marchese Ludovico Gonzaga, grande protettore degli ebrei. Da una
lettera spedita da Vigevano il 14 febbraio 1469, veniamo però a
sapere che la rocambolesca vicenda era giunta ad un epilogo
inaspettato, con l'intervento anche del vescovo di Cremona Bottigella
che prestando fede alle accuse rivolte alla ragazza, l'aveva fatta
rinchiudere nel convento cremonese di San Benedetto in attesa che
tutta la faccenda fosse chiarita. Evidente nessuno si era sognato di
credere alla parole della sventurata ragazza. Da questo momento la
corrispondenza si fa fitta: da una parte l'ebreo Madius (Meir) di
Castelnuovo si appella al duca, perorando i diritti di Caracosa e,
poco dopo, anche il padre e il marito della ragazza gli si rivolgono
esponendogli nuovamente i fatti e, tra l'altro, pregandolo di
provvedere perchè riceva cibo casher, mentre è segretata
in convento a Cremona. Lo stesso duca esorta il vescovo di Cremona a
non forzarla alla conversione e a comportarsi conformemente alla
legge. Dall'altra il vescovo sostiene di non aver in alcun modo
forzato la giovane ad entrare in convento. Iniziano frattanto a
diffondersi voci sul presunto battesimo della fanciulla che avrebbe
preso il nome cristiano di Arcangela. Ma gli ebrei non demordono e si
organizzano: contravvenendo alle disposizioni ducali che impediscono
loro di mostrarsi in pubblico ed esercitare il commercio nei giorni
della Passione di Cristo, il venerdì santo ed il sabato successivo
inscenano una clamorosa protesta sotto le finestre del palazzo
vescovile e davanti alle grate del convento di San Benedetto dove
Caracosa, ormai divenuta Arcangela, è rinchiusa. Incoraggiano con
grida la ragazza, la invitano a resistere e cantano anche un
motivetto di vago sapore anticlericale che fa “hora che mai che
fora sum, non voglio essere più monicha”. Immediata e veemente la
reazione del vescovo: tutti gli ebrei cremonesi devono essere
arrestati con l'accusa di voler plagiare la ragazza. Ma il
rappresentante del duca a Cremona non si lascia trarre in inganno:
convoca immediatamente il vescovo il 16 marzo e da questo viene a
sapere che Caracosa è stata effettivamente battezzata da un laico e
non con acqua benedetta, ma con semplice acqua di fonte. Il 30 marzo
piovono sul tavolo del duca anche le lettere delle monache di San
Benedetto che affermano che la ragazza ebrea si è convertita
spontaneamente e le illazione e le proteste dei suoi parenti sono
senza alcun fondamento. Ma una missiva spedita nel frattempo
dall'arcivescovo di Milano ad un chierico cremonese non lascia dubbi:
Caracosa è stata battezzata con la forza ed il duca vuol vedere
chiaro nella faccenda. Ordina pertanto che la ragazza venga portata a
Milano dove l'arcivescovo stesso ne sonderà la volontà. Il vescovo
Bottigella tentenna, non ritiene giusto che si dubiti così della sua
versione deo fatti quando, alla data del 13 aprile 1469 i sovversivi
ebrei che avevano manifestato contro di lui girano ancora impuniti
nella città!
A questo punto l'atteggiamento fermo
del duca sembra vacillare. Dalle lettere traspare una certa
incertezza: accontentare le richieste del vescovo o mostrarsi
benevolente nei confronti degli ebrei implicati nella faccenda? E di
Caracosa-Arcangela, che farne? L'affaire Caracosa sta diventando una
patata bollente con cui diventa facole scottarsi.
Dai documenti d'archivio non sappiamo
se la ragazza fu portata effettivamente a Milano, e tra le
alternative che si presentavano al duca, questi scelse di dare un
colpo al cerchio e uno alla botte. Fece dunque arrestare dal podestà
di Cremona gli ebrei implicati nella protesta il 29 aprile 1469, dal
momento che non poteva sottrarsi avendo violato una sua disposizione,
ma li liberò il 6 giugno. Lasciò che fosse il commissario da lui
incaricato ad appurare il vero svolgersi dei fatti e si limitò ad
ordinare al vescovo di non forzare la conversione nell'abbracciare la
nuova religione.
In un'altra lettera della stessa data,
lo stesso commissario affermava di aver condotto l'inchiesta con la
massima meticolosità e correttezza e, di conseguenza, la pratica
poteva considerarsi archiviata.
Ancora il 10 agosto l'arcivescovo
milanese, probabilmente non del tutto convinto, stava ancora
indagando, ma il destino di Arcangela era ormai segnato: l'11
settembre, scrivendo al commissario di Parma, il duca confermava che
Caracosa era oramai diventata cristiana a tutti gli effetti, il
processo si era volto regolarmente e la ragazza, in attesa che il
padre pagasse una dote di 250 ducati, sarebbe stata sistemata in un
convento col nome, ormai definitivo, di Arcangela. Il nuovo marito
sarebbe stato un cristiano. Pertanto la vicenda si concluse con la
ratificazione del battesimo di Caracosa con il nome di Arcangela
avvenuto nel frattempo e del suo matrimonio con un cristiano: di
conseguenza, il padre, che aveva abbandonato Castelnuovo Scrivia per
stabilirsi a Parma, ricevette ordine di fornire alla figlia una dote
nuziale pari a quella data alle altre figlie rimaste ebree. Il
governatore di Castelnuovo, data per acquisita la conversione della
ragazza, obbligò il comune a consegnarle la cifra promessa, a suo
tempo, se si fosse fatta cristiana.
Un’eco dell'episodio clamoroso della
controversa conversione di Caracosa di Tortona si sentì anche a
Fiorenzuola d'Arda nel 1469, quando il padre della ragazza, Davide,
venne obbligato a rifondere al castellano di Fiorenzuola le spese
contratte in occasione delle nozze della ragazza.
Ebrei francesi in un'incisione del XVIII secolo |
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