martedì 5 aprile 2016

L'ultimo degli Stradivari


Joseph Wechsberg musicista cecoslovacco, avvocato, gastronomo, scrittore ma soprattutto giornalista del prestigioso “New Yorker”, dopo aver ottenuto la cittadinanza americana nel 1944, nel settembre del 1950 fu inviato dal settimanale “Epoca” a Cremona sulle tracce degli ultimi eredi di Stradivari. Ne uscì un reportage di straordinaria efficacia e l’umanissimo ritratto di due grandi appassionati di musica e liuteria, l’avvocato Mario Stradivari e lo studioso Renzo Bacchetta, sue guide in uno straordinario visita notturna al teatro Ponchielli e nelle vie deserte della città, fino alla lapide del grande liutaio. Ma anche la critica disincantata ad una città inconsapevole ed ingrata, il racconto malinconico ed appassionato di un grande giornalista che si confronta con quanto è rimasto del mito.

di Joseph Wechsberg
Mario Stradivari e Renzo Bacchetta
Era alto e massiccio, aveva un volto scavato con un gran naso aquilino e la fronte altissima: camminava lievemente curvo in avanti, a passi lunghi e lenti. Portava un abito troppo largo e un cappello dalle falde amplissime.
«Au revoir, au revoir!» mi gridò improvvisamente, con voce profonda di basso, togliendosi il cappello con spagnolesca grandezza. «Mi scusi» disse poi, «ma io mi confondo sempre quando parlo francese. A ogni modo bienvenu, bienvenu! Ho incontrato Maddalena e mi ha detto di lei. Quella sciocca avrebbe anche potuto farla attendere nel mio studio. Venga, si accomodi e sia benvenuto nella casa di Stradivari». Spiegai con una certa esitazione lo scopo puramente sentimentale della mia visita. Stradivari mi guardò sbalordito e poi, alzatosi, m’afferrò la mano con estremo calore. «Accidenti a Maddalena! Ma perchè non mi ha detto che lei non era un cliente? Non mi entusiasma ricevere clienti dopo le sei di sera. Ecco perchè le lancette del mio orologio segnano sempre le sei: per ricordare a tutti che rappresentano la fine della mia giornata di lavoro. Ma non accade spesso che venga a trovarmi un ammiratore di Antonio Stradivari. Prima della guerra, sì, qualcuno c’era sempre, ma ormai nessuno più se ne cura.
Stradivari aprì un cassetto enorme, frugò tra un mucchio di carabattole, e alla fine portò alla luce una statuetta in bronzo, che raffigurava un uomo seduto su una sedia con un violino tra le mani. Sulla base era scritto: Antonio Stradivari. «Eccolo qua», disse Mario Stradivari, dando un colpetto sulla spalla della statua. «La gente dice che ho ereditato il suo nasone, la fronte, la bocca piegata all’ingiù e le dita molto lunghe. Ridicolo!». E gettò la statua sulla scrivania, dove essa giunse con un gran tonfo. «Un tipico caso illusorio», riprese agitando le braccia. «Quella stupida statuetta fu fatta da Miccheri, uno scultore cremonese, che si regolò, per modellare la figura, sul celebre quadro di Hamman, quadro che, come lei saprà, è opera di pura fantasia. Non esiste nessun quadro di Antonio Stradivari e quindi nessuno può veramente dire che faccia avesse il nostro amico.
Stradivari si alzò e indicò la fotografia ovale, in cornice, di un vecchio signore dignitosissimo, dagli stessi occhi ridenti e dallo stesso sorriso comprensivo del mio ospite. «Mio padre» disse. «Si chiamava Libero ed era il miglior avvocato di Cremona. Il suo studio era questo stesso studio. Lui pure era un grande oratore. Lo chiamavano la Sirena del Foro di Cremona per la sua voce, che sembrava quella di un vapore che ululi nella nebbia. Papà faceva parte della Giunta Municipale e quando pronunciò un discorso al Palazzo del Comune i giornalisti non si presero il disturbo di salire le scale del palazzo per andarlo a sentire. Si erano solo accertati che le finestre del salone fossero aperte e così poterono sentire comodamente il discorso dal caffè sottostante, prendendo appunti tra un bicchiere di vino e l’altro».
Stradivari mi mostrò un’altra fotografia del padre in età più giovanile, in compagnia di tre signori. Dedussi dagli abiti che i quattro portavano che la foto risaliva agli inizi del secolo. La dedica sotto la foto diceva: «Al mio sempre grande amico Libero Stradivari il suo Giacomo Puccini».
«Papà e Puccini erano intimi amici»; spiegò Mario Stradivari. «Gli altri due sono Giacosa e Illica, Illica volta la faccia dall’altra parte. E sa perchè? Gli mancava un orecchio e non voleva che si vedesse. L’aveva perduto in un duello. Era un tipo formidabile, Illica. Credo che abbia avuto trentadue duelli nella sua vita, il che è qualcosa anche per il librettista della Tosca. Lui, con Giacosa e Puccini avevano l’abitudine di venire qui ogni tanto, a bere, a fare della musica e cantare con papà, e con papà trascorrevano quasi tutta la notte girando per Cremona e facendo un tale baccano da svegliare la città».
Stradivari sospirò. «A quei tempi», disse, la gente spendeva tempo e ingegno per divertirsi. Su ora, venga nel mio appartamento a bere un bicchiere di vino. Aspetto un amico questa sera. Le parlerà di Antonio Stradivari, molto di più e molto meglio di quanto possa fare io».
Stradivariri con i ritratti di Rossini
L’appartamento di Stradivari è al secondo piano. La sua governante, una contadina dal viso aperto e un grembiule bianco, ci venne incontro in anticamera. Stradivari le disse di portarci qualcosa da bere e da mangiare, e presto. La donna assunse di colpo un’espressione infelice e protestò che l’avvocato le aveva per ben due volte assicurato che quella sera non sarebbe venuto a casa per cena. Stradivari, a questo, sollevò un baccano tremendo, e la governante corse via facendosi il segno della croce e mormorando che forse in casa si trovava un po’ di formaggio e di vino. L’avvocato mi condusse in un salotto spazioso e accogliente. Il ritratto di una donna, dipinto nello stile di Monna Lisa del Leonardo, dominava una parete. «Mia nonna, Lavinia Maini», disse Stradivari, indicando il quadro. «Doveva essere stata una gran bella donna. E questa», continuò volgendosi verso una fotografia, «è mia moglie. Era molto bella. Noi Stradivari sposiamo sempre delle belle donne». Stradivari sedette davanti a un grande piano a coda presso una finestra. Disseminati sopra, sotto e tutto intorno al piano, c’erano spartiti di opere e operette e montagne di canzonette, insieme con fogli da musica, alcuni bianchi, altri ricoperti di note scribacchiate a matita. Sulla parete presso il pianoforte, una fotografia con firma autografa di Verdi. Sull’altro lato della sala si vedevano due foto, entrambe, a quanto sembrava, di Rossini. Stradivari mi disse che una sola, in realtà, era di Rossini e m’invitò a capire quale fosse. Tentai, ma lui si mise a ridere, dicendo che m’ero sbagliato, come capitava a tutti. «Ecco, ora le mostro chi è l’altro», concluse. Si trasse un pettine di tasca e si acconciò i capelli in avanti fino a farli ricadere quasi sugli occhi, si allargò il nodo della cravatta e rialzato il bavero della giacca e assunta la stessa posa della foto, divenne l’immagine perfetta dell’autore del barbiere. Stradivari era chiaro, si divertiva un mondo.
Picchiarono alla porta e un ometto dallo sguardo intenso e penetrante, gli occhiali cerchiati d’osso e l’aria affannata, entrò col fiato grosso e una gran borsa rigonfia. Stradivari lo accolse con esuberante cordialità, e me lo presentò come il suo amico Renzo Bacchetta, professore alla Scuola Internazionale di Liuteria, oltre che giornalista noto e specialista cittadino di Stradivari. Quest’ultima prerogativa ebbe il potere di rattristare profondamente Bacchetta. «Oh, non creda che questo m’abbia reso popolare presso i Cremonesi!», disse. «Non sanno niente di niente, quanto a violini, e gliene importa ancora meno, tutto quello che conta, qui, è che il prezzo del formaggio resti alto..». Stradivari lo scosse energicamente per le spalle. «Niente piagnistei questa sera, Bacchetta», urlò. «Questo mio amico è venuto fin dall’America per sentire qualche gustoso scandalo sulla famiglia Stradivari».
L’ometto annuì. «Gli hai detto quello che è il vero scandalo?», domandò con voce amareggiata. «Che nessuno a Cremona possiede un solo violino creato da Stradivari, Amati o Guarneri? Sì, caro signore»; continuò in tono drammatico, «Cremona ha tradito la sua tradizione migliore. Formaggiai, setaioli, locandieri sembra che si vergognino di Antonio Stradivari. Hanno la coscienza sporca. Dicono di non poter spendere qualche milione di lire per erigere un monumento a Stradivari. Hanno dato il suo nome a una strada, come se fosse stato un membro della Giunta municipale, ma non saprebbero ricomperare uno dei suoi violini. Se un cremonese vuole vedere uno Stradivari deve prendere il treno e spingersi fino a Parigi, o Amsterdam, o New York». La voce di Bacchetta si spense, e l’uomo si lasciò andare malinconicamente su una sedia. La governante entrò con un vassoio su cui aveva disposto parecchie bottiglie di vino, piatti e bicchieri e alcuni grossi pezzi di gorgonzola. Stradivari la redarguì dolcemente per essersi fatta tanto aspettare. «Su, prendiamo un po’ di vino e formaggio»; disse Stradivari. Bacchetta inghiottì la saliva e lo guardò di sbieco. «Formaggio, ancora e sempre formaggio», disse. Ovunque io vada, non faccio altro che vedere, non faccio che sentire formaggio. Anche in casa di Stradivari!». Mario riempì i bicchieri con un liquido color ambra. «Provi questo», mi disse. «E’ fatto con le arance della mia tenuta. E’ molto forte. Su, allegro, Bacchetta. Le cose potrebbero andare molto peggio. Dopo tutto, c’è un autentico Stradivari in questa casa». Indicò se stesso e noi tutti alzammo i bicchieri.
Due ore e tre bottiglie più tardi, Stradivari tornò davanti al pianoforte e si chinò a pescare alcuni fogli di musica dal mucchio che aveva accanto a sé sul pavimento. Era lo spartito di un’opera intitolata “Le Nozze in Turenna”.
Le carte di Mario Stradivari
Fui sorpreso di vedere che il nome del compositore era Mario Stradivari. Bacchetta mi disse che Mario è noto e apprezzato compositore, «in tutta Italia, meno che che nella sua città».
Ha scritto due opere, tra cui “La Leggenda del Gatto con gli Stivali” e un gran numero di composizioni minori e molte canzoni popolari, che spesso anche la radio trasmette.
«La Leggenda», mi disse Mario, «fu presentata nel 1935 e “Le Nozze in Turenna” ebbero la loro prima due anni dopo...e anche la loro ultima, si potrebbe dire. Il libretto è tolto da un testo di Balzac. Ora vi canto il duetto d’amore».
Stradivari, dopo aver sonato il preludio, cominciò a cantare. La sua voce, sebbene non educata, indicava tutto il genio italiano per il canto: ritmo e intonazione erano perfetti.
Stradivari stava per ricominciare, quando qualcuno si mise a picchiare dall’altra parte del muro.
Mario non se ne dette per inteso e riprese a sonare, senza più badare ai colpi, che continuavano a intervalli. Era il direttore del museo locale, che abitava alla porta accanto, un uomo non molto amante né della musica né dei violini.
«Il museo ha tre grandi sale piene di monete medievali», disse Bacchetta rabbiosamente, «ma non c’è che una saletta per i ricordi di Stradivari e degli altri liutai. Pensare che quelli del museo non hanno nemmeno voluto imprestarmi il diario di Cozio di Salabue, che sono stato io a pubblicare». Commisi l’errore di chiedere chi fosse Cozio di Salabue.
Bacchetta si eccitò tutto, aprì la sua borsa e ne trasse un grosso manoscritto. «Duemila pagine»; disse. «Mi ci sono voluti nove mesi, sedici ore al giorno, due lenti d’ingrandimento e tre segretari per pubblicare questo diario, dato che esso contiene gli elementi più sensazionali che mai si abbiano avuti su Antonio Stradivari».
Chiuse un occhio, strinse le labbra e alzò solennemente la mano destra. «Nessuno può intimidire o corrompere Bacchetta», disse. «Il diario verrà pubblicato l’anno prossimo, e desterà una impressione enorme, le assicuro. Innanzi tutto, proverà che Antonio Stradivari non nacque nel 1644, come sostengono alcuni, ma nel 1684. Il Conte Alessandro Cozio di Salabue, sul cui diario Bacchetta basa le sue convinzioni, era un nobile piemontese che viveva a Casale Monferrato agli inizi del diciannovesimo secolo e possedeva una grande collezione di cimeli di Stradivari: strumenti, lettere, disegni, utensili, e formule per fare la sua famosa vernice. Aveva comperato tutto ciò dal figlio più giovane di Antonio Stradivari, Paolo, mercante di stoffe che non sembrava avere il minimo interesse per la liuteria. Le biblioteche musicali hanno il pedigree scritto di quasi ogni stradivarius accreditato, coi nomi di tutti i suoi successivi proprietari e il periodo in cui fu in loro possesso, onde la storia d’ogni volino può, o così generalmente si crede, essere ricostruita fino a quando esso lasciò il laboratorio del suo creatore.
Ma Bacchetta non la pensa così. «Cozio non era soltanto un collezionista, ma anche un abile uomo d’affari», mi disse. «Alcuni fra i più notevoli stradivari sono quelli che portano la data degli ultimi anni del Maestro: il 1736 e il 1737. Cozio ammette nel suo diario di avere alterato l’anno sulle etichette di parecchi stradivari trasformando il 1727 in 1737, e il 1730 in 1736. E’ abbastanza facile cambiare il 2 in 3 e lo 0 in 6, e Cozio probabilmente accumulò un bel patrimonio col suo piccolo falso. Sarà un gran brutto giorno per i possessori di qualche stradivario di tarda fattura quando verrà pubblicato il diario». Mario era chiaramente stanco delle chiacchiere di Bacchetta e tornato allo strumento si mise a sonare, cantando, alcune arie della Traviata. I picchi sulla parte ricominciarono e Bacchetta dovette alzare la voce per essere udito.
«Nei suoi ultimi anni Stradivari soleva talvolta scrivere la sua età sull’etichetta d’un violino che aveva appena terminato», disse. «Su un ben noto Stradivari si legge Stradivarius faciebat anno 1736 d’anni 92».
La musica e il canto di Mario aumentarono e i pugni sul muro divennero ancora più frenetici. Bacchetta dovette mettersi letteralmente a urlare.
«Ciò porrebbe l’anno della nascita di Stradivari nel 1644», annunciò venendomi accanto a afferrandomi per il bavero della giacca. «Ma e se si trattasse d’uno dei violini a cui Cozio cambiò data?».
Squillò il campanello e la governante entrò per urlare non so cosa a Stradivari, che ora stava cantando Wagner. Egli non le badò minimamente. La donna uscì dalla stanza per tornare dopo qualche istante annunciando che i vicini intendevano chiamare la polizia se il fracasso non avesse avuto fine.
Stradivari le ordinò di andarsene ma smise di sonare e ci propose di andare al Ponchielli, dove avremmo potuto sonare e cantar a piacimento.
«Sono le undici passate», disse Bacchetta, «e il teatro sarà chiuso». Stradivari disse ch’era quello che ci voleva: almeno nessuno ci avrebbe disturbato. Si mise in tasca una bottiglia di vino, ne porse un’altra a me e una terza a Bacchetta. Questi ripose con la massima cura il manoscritto nella borsa, con l’aria di un uomo che ha la responsabilità di un segreto atomico.
«Forza, amici, cantiamo!», s’interruppe per urlare. «Sempre si canta in casa Stradivari!».
Fuori tutto era tranquillo e avvolto nella nebbia. L’aria fredda parve avere un effetto calmante su Stradivari. Cessò di cantare e, mentre camminavano, si mise a parlare delle reazioni dei suoi compatrioti sul suo nome. Il teatro era buio e deserto. Girammo dietro l’edificio fino alla porta del palcoscenico, dove Stradivari, attaccatosi al campanello, cominciò a urlare. Dopo un po’ il custode, un vecchio decrepito, fece la sua comparsa, portando una giubba macchiata su tutto un assortimento di biancheria intima. Cominciò a maledire noi e i nostri avi, ma il volto gli si illuminò tutto quando riconobbe Stradivari e i due cominciarono a darsi delle gran manate sulle spalle. Ciabattando davanti a noi e accendendo le luci a mano a mano che si procedeva, il custode ci portò nel suo sgabuzzino dove tutti bevemmo vino dalla bottiglia di Stradivari. Il sipario era alzato e la scena quella del quarto atto del Rigoletto, ch’era stato dato quella sera. Mario Stradivari si spinse fin presso le luci della ribalta, con gli occhi spazianti sulla vasta e buia platea, e cominciò a cantare. Cantò quasi tutte le arie celebri del Rigoletto, e, infine si dichiarò assetato e il custode corse a prendere dei bicchieri. Giunti alla terza bottiglia, Stradivari, il custode, Bacchetta e io stavamo cantando il bel quartetto del quarto atto dell’opera, con Bacchetta e il sottoscritto che facevano le parti da donna. Dopo ogni numero, il custode accendeva tutte le luci della platea, Bacchetta faceva scendere il sipario, e tutti e quattro avanzavamo fino alla ribalta, inchinandoci ai frenetici applausi di un invisibile pubblico in delirio. «Che straordinario cantante sarebbe stato l’avvocato!», disse Bacchetta con profonda ammirazione. «Che forza! Che personalità! E invece perde il suo tempo a salvare la vita alla gente. E una vergogna!».
Stradivari, Bacchetta e io lasciammo il teatro alle due. «Ora è il momento giusto di fare una visita ufficiale alla casa di Antonio Stradivari», disse Mario, guidandoci verso piazza Roma, ch’era nel centro della città. Anche a quell’ora la piazza era ben illuminata. Su di un lato c’erano i giardini pubblici e sull’altro uno di quei palazzoni per uffici in stile neoclassico, con facciata marmorea e ingressi grandiosi che Mussolini aveva fatto erigere in tutta Italia per dar lavoro ai seguaci del fascismo. Stradivari indicò un piccolo pannello di marmo proprio sopra una delle vetrate. «Ecco!», disse. Guardai e lessi: “Qui sorgeva la casa dove Antonio Stradivari recando a mirabile perfezione il liuto levava alla sua Cremona nome imperituro di artefice sommo”. «Ecco tutto quello ch’è rimasto a ricordare ai cremonesi che la casa di Stradivari un tempo sorgeva qui» , disse Mario. «Il Governo l’abbatté nel 1928, perchè aveva bisogno di questo terreno per il nuovo palazzo. Mio fratello e io abbiamo cercato invano d’impedire al Governo di farlo». Bacchetta sospirò. «Immagini!», fece. «Proprio qui davanti a noi si trovava una volta il laboratorio di Antonio Stradivari. Era una casa di tre piani. Mi ricordo che c’era una sartoria e una sala da biliardo a pianterreno. Fu probabilmente in quella casa che Antonio Stradivari costruì la maggior parte dei suoi violini. La casa aveva il tetto piatto e Antonio poneva i suoi strumenti verniciati di fresco ad asciugare su quel tetto».
Tornammo sui nostri passi e attraversammo i giardini pubblici. Eravamo quasi giunti all’altra estremità quando Mario si fermò di colpo e indicò dietro una panchina un blocco di pietra alto cira un metro, che sembrava essere stato lasciato là per errore.
La lapide di Stradivari in piazza Roma
«Si chini», mi disse, accedendo il suo accendisigari per aiutarmi a vedere meglio. Proprio sopra il terreno, sulla parte più bassa del blocco, lessi il nome di Stradivari. Mario si tolse il cappello. «Signore», mi disse solennemente, ma con gli occhi che ridevano. «Lei si trova di fronte a tutto ciò che resta della tomba di Antonio Stradivari. Su, Bacchetta», soggiunse, «raccontaci quello che è successo». «Non c’è molto da dire. Ma è la pagina più triste della storia di Cremona. Nessuno sa esattamente cosa sia accaduto. Dicono oggi che il terreno servisse per farne non so che campo sportivo, ma la verità è che nel 1869 un impresario edile di Milano pagò ai maggioraschi di Cremona, un gruppetto di politicanti corrotti, quarantaduemila lire per il privilegio di demolire la chiesa di San Domenico, che si levava là, presso la piazza. Trasportò via i materiali e li vendette. La tomba di famiglia di Stradivari era proprio qui, nella Cappella del Rosario della Chiesa. Antonio morì il 18 dicembre 1737...questa è una data certa, a ogni modo...e fu sepolto il giorno successivo, e in seguito quasi tutti i suoi figli vennero sepolti accanto a lui. Durante la demolizione della chiesa la tomba venne aperta e le ossa ne furono rimosse. Che ne fu poi? Forse gli operai le portarono al cimitero e le gettarono nella fossa comune. O forse, stanchi, si limitarono a gettarle nel Po, che scorre a pochi minuti di distanza di qua. Comunque sia, questa è la definitiva e crudele ironia del fato di un uomo di cui non sappiamo quasi nulla e che ci ha dato tanto.
Due carabinieri, che facevano il giro lentamente della Piazza Roma, si fermarono sul lato opposto dei giardini per osservarci con sospetto.
«Scommetterei i miei manoscritti del diario di Cozio che non sanno neppure che cosa rappresenta questa pietra», disse Bacchetta, guardando con occhi di fuoco in direzione dei tutori dell’ordine. «Ben poche persone lo sanno a Cremona. E’ qui che vorremmo erigere un monumento come si deve ad Antonio, ma come le ho detto, i formaggiai continuano a dire che non possono spendere tanti quattrini». Stradivari cominciò a canticchiare un’aria. «Ho scritto le parole e la musica di una canzone chiamata “Addio mia vecchia Cremona”», disse. Prese a cantare, strimpellando una chitarra immaginaria. «E’ in dialetto cremonese », spiegò poi, dopo aver cantato alcune strofe dal suono strano. «E significa: “Si dice che la notte il vecchio Stradivari venga nei giardini a vedere il suo monumento. Ma, purtroppo, tutto quello che trova sono due mascalzoni che usano la pietra funeraria per i loro bisogni». Si mise a ridere e ripetè il ritornello. Bacchetta gli si accompagnò, cantando a gran voce in tono di sfida, gli sguardi fissi sui carabinieri, che seguitavano a osservarci esattamente dal punto dove un tempo doveva essersi trovato il laboratorio di Stradivari. Mario e Bacchetta continuarono così per un bel pezzo, le voci alte e beffarde, finchè i due carabinieri si voltarono e scomparvero lentamente tra le vecchie case di Cremona.

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