venerdì 24 aprile 2020

La grande Cremona (1920)

Il palazzo Duemiglia a Cremona
Il “giardino del cremonese”: questo era il Comune di Due Miglia quando, cento anni fa, il 26 febbraio 1920, se ne decise la soppressione e l'aggregazione a Cremona, che per qualche anno si chiamò comune di “Cremona ed uniti”. Così lo descrive Angelo Grandi nel 1858 (Descrizione dello stato fisico, politico, statistico, storico, biografico della provincia e diocesi di Cremona, vol. II, p. 13): “Due Miglia. Provincia e diocesi, distretto I e pretura di Cremona. Comune con consiglio. Superficie pertiche 75.617; scudi 847.247, 00, 32. Abitanti 8385. La deputazione ha un ufficio proprio con residenza in Cremona, sotto la giurisdizione dell' I. R. Commissario comunale di polizia in città. Vi sono due medici e 3 levatrici. Questo comune non è un aggregato di caseggiati, cui possa applicarsi la denominazione di villaggio o borgo, ma è formato da casali e cascine coloniche, sparse quasi tutt'all'intorno di Cremona, partendo dai Corpi Santi, per il circuito irregolare di due ed in alcuni punti tre miglia, ed è suddiviso in sei quartieri chiamati di Picenengo composto di 29 frazioni; S. Ambrogiodi 13; Boschetto 27; S. Bernardo 45; S. Felice 31 e Battaglione 28. In totale tra casali e cascine num. 173, in cui vi sono 405 case. Ciascuno di questi quartieri è fornito di scuole elementari minori maschili e femminili. In quanto allo spirituale è distribuito il comune in parti, che differiscono dalla divisione politica, dirette dalle parrocchie di Picenengo, S. Ambrogio, S. Maria del Boschetto, S. Bernardo, S. Felice e S. Sigismondo, oltrechè varj altri casali in minor quantità spettano alle parrocchie di Castagnino Secco, Persico, S. Giacomo del Campo o Lovara, Bonemerse e S. Gioachino del Bosco. Il vasto territorio è in gran parte irriguo, ed alimentato anche col fino concime della città; per cui rigogliose veggonsi le ortaglie, copiosissime l messi, floridi i lini, il trifoglio, i geli e le viti; e per tanta ubertosità può chiamarsi il giardino del cremonese”.
Gli statuti cittadini del 1387-88 indicano una fascia di territorio circostante la città, aldilà del limite costituito dal cavo Cerca, un corso d'acqua derivato dal Naviglio civico. Era in effetti un terreno molto fertile, caratterizzato dalla presenza di orti e appezzamenti, spesso con la presenza di piccoli agglomerati, dove veniva largamente coltivata la vite, concepiti al servizio di vettovagliamento della città. In seguito alle pressanti richieste della città, questa fascia si era proporzionalmente allargata aumentando la fascia produttiva, fino a raggiungere tre miglia circa dalla cintura muraria della città. Nel catasto di Carlo V, compilato nel 1550-51 questo settore posto a nord della città, che si estende quasi a forma di ferro di cavallo intorno alle mura, inizia ad essere denominato “Due Miglia”: la vite vi è coltivata in forma intensiva ed impegna circa il 65% dell'intera superficie agraria, a fronte di quasi il 25% destinato al seminativo, ed il restante parte a prato e parte ad orti e giardini per circa il 3,5%.
La Cremona, che conosciamo oggi, risultava dunque spalmata su un cuore centrale, identificabile nell'attuale centro storico con qualche propaggine periferica, su una fascia territoriale ad esso esterna, chiamata dei “Corpi Santi”, e su un ferro di cavallo (il Comune di Due Miglia). Che, praticamente da Ovest ad Est, comprimeva il nucleo centrale, già delimitato a Sud, dai predetti “Corpi Santi” affacciati sul Po. Uno scenario, questo, più coerente ad una città delle mura e dei ponti levatoi, dei poteri del conte vescovo e delle parrocchie, che non alle esigenze poste dai profondi mutamenti che erano in vista.
L'architrave che sosteneva una simile assurdità era rappresentato, a Cremona come in altri comuni capoluogo (come Milano), dall'impianto della esazione dei dazi, fondamentali per quel modello tributario e motivo di privilegio per alcuni ceti.
I Corpi Santi”, cioè la fascia di territorio immediatamente a ridosso dei bastioni cittadini, all'inizio del XVII secolo aveva una superficie di 7.802 pertiche sulla quale insistevano una cinquantina di abitazioni ed alcuni mulini, ma non erano presenti edifici di culto. La parte meridionale del territorio era costituita dalle golene del Po ed era soggetta a periodiche alluvioni, mentre quella più vicina alla città era destinata solitamente ad ospitare gli accampamenti militari delle armate che periodicamente assediavano la città e, di conseguenza, bersaglio preferito dell'artiglieria difensiva posta sulle mura. Era pertanto una zona scarsamente popolata, soprattutto in seguito alla distruzione delle borgate, un tempo esistenti fuori dalle mura, in occasione degli eventi bellici. Per secoli le cascine appena fuori le mura della città di Cremona erano state poste in una condizione amministrativa anomala, essendo soggette alla città ma non avendo accesso all'amministrazione comunale, in una situazione in parte simile a diversi altri capoluoghi lombardi. L'anomalia cremonese rispetto alle altre province era il fatto che qui il territorio suburbano era ulteriormente suddiviso in due cerchie, i Corpi Santi propriamente detti fino ad un miglio dalla città, e le Due Miglia fino a tale distanza. Non è nota con certezza la motivazione di una simile anomalia, forse dettata da ragioni di difesa militare essendo le due comunità separate dal Naviglio civico, o forse per motivi fiscali, essendo ulteriormente diminuiti i diritti dei duemiglini e conseguentemente aumentato il carico erariale. Nel 1756, in seguito alla riforma del catasto voluta dal governo austriaco, il territorio dei Corpi Santi fu unito a Cremona con il nome di “Corpi Santi dentro l'acqua”, in quanto compreso all'interno del Cavo Cerca. I Corpi Santi rimasero uniti alla città fino al 1805, quando furono costituiti in comune autonomo, per poi essere nuovamente riuniti nel 1810 in seguito alla disposizione del governo francese di concentrare i piccoli comuni in quelli maggiori. Con ritorno degli austriaci si ritornò allo status quo precedente e i Corpi Santi furono uniti al Comune di Cremona di cui costituirono il circondario.
Il sindaco di Cremona Attilio Botti
Ben diverso il destino delle Due Miglia. Dalla seconda metà del sec. XVII il territorio fu costituito dai sei quartieri di Picenengo, Soncino (poi S. Ambrogio), Boschetto, San Bernardo, San Felice e Battaglione. Il governo all'Università degli estimati e ad alcuni ufficiali: i consoli, i deputati, il tesoriere, il cancelliere e il ragionato. Nel Compartimento territoriale teresiano del 1757 il territorio è costituito ancora da questi sei quartieri e nel 1758 fu emanata una riforma particolare per il suo governo.Tra il 1798 ed il 1801 i sei quartieri furono costituiti in altrettanti comuni autonomi, aggregati nel 1805 nel ricostituito comune di Due Miglia. Con l'attivazione dei comuni in base alla compartimentazione territoriale del regno lombardo-veneto, le Due Miglia, costituite da Boschetto, Quartiere del Battaglione, Picenengo, Sant’Ambrogio, San Bernardo e San Felice, dal 1816 facevano parte del distretto I di Cremona della provincia di Cremona.
Nel 1853 le Due Miglia, sempre costituite da quartiere Boschetto, Battaglione, Picenengo, Sant’Ambrogio, San Bernardo e San Felice, erano un comune con consiglio con ufficio proprio del distretto I di Cremona della provincia di Cremona e contavano 8198 abitanti. Nel 1867 fu aggregato il comune di Cava Tigozzi.
Nel frattempo si ragionava su una possibile aggregazione a Cremona, ma solo nel 1914, quando sia al Due Miglia che nel capoluogo arrivarono al governo due amministrazioni socialiste, la questione venne affrontata affidando uno studio all'onorevole Antonino Graziadei, che, nel giugno 1919, consegnò la sua relazione, sostenendo l'utilità dell'operazione per una serie di motivi. Innanzi tutto la mancanza di una soluzione di continuità che obbligava il centro di Cremona all'interno di una cintura costituita da un altro comune; poi le maggiori funzioni a carico dei comuni che obbligavano quelli vicini a raggrupparsi per farvi fronte insieme; l'assurdità di una situazione che, in mancanza di un'area esterna, aveva costretto da un lato il Comune di Cremona a scorporare una piccola zona del Due Miglia per realizzarvi il proprio cimitero e dall'altro il Due Miglia a insediare fuori del proprio territorio gli uffici comunali nel centro di Cremona, ed infine i vantaggi che ne sarebbero derivati nei termini di funzionamento dei servizi pubblici. La relazione, e la relativa convenzione, vennero presentate all'approvazione del consiglio comunale del 28 giugno 1919 insieme alla delibera da presentare al Governo per ottenere il decreto del Re che approvasse l'unificazione. Le uniche perplessità vennero dall'ingegner Remo Lanfranchi sul fatto di approvare gli articoli della convenzione. 
Il sindaco di Due Miglia Attilio Boldori
Si trattava di 9 articoli che disciplinavano le rendite patrimoniali e le passività dei due comuni che sarebbero andate in carico al nuovo comune, il quale avrebbe assunto la denominazione di “Cremona ed Uniti”. Il nuovo organismo avrebbe costruito tutte le strade di comunicazione già deliberate dal Due Miglia, e curato l'estensione del servizio tramviario nei principali quartieri aggregati, risolvendo nel miglior modo possibile il problema dei passaggi a livello. Per quanto riguardava l'istruzione pubblica il nuovo comune avrebbe costruito tre nuovi edifici scolastici nei quartieri di San Bernardo, Picenengo e Boschetto, già progettati e deliberati dal Due Miglia, dotati di un doposcuola e di un asilo ed ammettendovi gratuitamente gli alunni più poveri, a cui sarebbe stata sommistrata gratuitamente la refezione. A tutti i quartieri di Due Miglia sarebbero stati estesi gli impianti per la distribuzione dell'acqua potabile e dell'energia elettrica. L'articolo 7 era dedicato interamente all'Ospizio Soldi, sorto a Due Miglia, che sarebbe stato migliorato con l'aggregazione di un'ulteriore area, ed amministrato in modo autonomo da un consiglio di cinque membri scelti e nominati, uno fra la famiglia del dottor Francesco Soldi in linea discendente ed altri quattro fra gli elettori residenti nel comune di Due Miglia. Il nuovo comune sarebbe stato tenuto a ricoverare a proprio carico almeno 130 fra anziani e malati cronici appartenenti al Due Miglia, scelti dal consiglio di amministrazione, ed a stanziare nel bilancio per l'assistenza a domicilio di famiglie bisognose del Due Miglia una somma che non sarebbe stata inferiore alla media spesa nel quinquennio 1914-1918 dallo stesso comune, affidandone l'erogazione alla Congregazione di Carità. Le funzioni di esattoria e tesoreria sarebbero rimaste in carico all'ufficio del Comune di Cremona secondo il contratto esistente con la Banca del Monte di Pietà. Lo schema di convenzione e l'ordine del giorno vennero approvati all'unanimità anche in seconda lettura il 5 luglio. La richiesta, su carta bollata da due lire, è firmata dai due sindaci socialisti Attilio Botti per Cremona e Attilio Boldori per Due Miglia.
Il decreto di unificazione dei due comuni, firmato il 10 febbraio 1920 dal re Vittorio Emanuele III, venne pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 26 febbraio.



Brigida Giorgi, da piccola fiammiferaia a stella

J. Hopkins, Brigida Banti. coll. priv., 1797
Non era bella, non veniva da una buona famiglia e non era neppure istruita, ma quando cantava la sua voce era quella di un angelo, irraggiungibile ed ineffabile. C'è chi dice che fosse nata a Cremona, Crema ne ha rivendicato per qualche tempo la nascita, ma in realtà Brigida Giorgi, la più grande voce femminile del Settecento, aveva visto la luce nella parrocchia di San Lorenzo di Monticelli d'Ongina il 1 maggio 1755. Fu a Cremona, però, che trascorse la sua infanzia, accompagnando il padre Jacopo, suonatore girovago di violino e mandolino, da una piazza all'altra all'ombra del Torrazzo. Anche Brigida suonava il mandolino, ma era la sua giovane voce ad incantare, agli angoli delle strade, i frettolosi passanti. Il padre Jacopo era anche barcaiolo e, quando si trattò di dare alla figlia un minimo di educazione scolastica, aveva passato definitivamente il Po stabilendosi a Cremona. Furono dunque le contrade cremonesi il primo palcoscenico di Brigida che, tra le sue doti, non aveva certo quella dell'avvenenza. “La Banti era una femminaccia ignorante, sciocca ed insolente che, avvezza nella sua prima giovinezza a cantar pei caffè, e per la strada, portò sul teatro, dove la sola voce la condusse, tutte le abitudini, le maniere e i costumi di una sfacciata corista. Libera nel parlare, più libera nelle azioni, dedita alla crapola, alle dissolutezze ed alla bottiglia, appariva sempre quello che era in faccia a tutti, non conosceva misure, non aveva ritegni, e quando alcuna delle sue passioni era stuzzicata dalle difficoltà, dalle avversità o dalle opposizioni, diventava un aspide, una furia, un demone dell’inferno che sarebbe bastato da solo a sconvolgere tutto un impero, non che un teatro”. Così la descrive, quando ormai era già sposata, Lorenzo da Ponte, il librettista di Mozat, nelle sue “Memorie”.
Brigida, con il padre e la madre Antonia Raimondi, restano a Cremona fin verso il 1773 continuando a guadagnarsi da vivere cantando e suonando nelle piazze, ma in seguito alla prematura morte di un parente, con la conseguente perdita di un valido sussidio economico, la famiglia è costretta a separarsi per cercare fortuna. Brigida resta col padre ed inizia a girovagare nelle altre città del Nord, spingendosi anche fuori dall'Italia. Per circa due anni si esibisce in paesi e villaggi della Germania, finché nel 1775 i due decidono di recarsi a Parigi. E qui inizia la fortuna di Brigida che, di certo, ha intraprendenza e carattere da vendere. Il figlio Stanislao racconta nella biografia della madre che durante il viaggio verso Parigi padre e figlia vennero assaliti da una banda di malviventi, messi però in fuga dalla ragazza stessa, che, sorprendendo tutti, si era impossessata della pistola del genitore.
A Parigi i Giorgi vivono per circa tre anni, cantando dapprima davanti ai caffè dei boulevards e sugli angoli delle strade. Durante una di queste esibizioni la giovane Brigida viene notata da de Vismes du Valgay, impresario ed ex direttore dell'Opéra-Comique che, colpito dalla voce calda e vibrante della ragazza le propone un'audizione. De Vismes le fa ascoltare un'aria di agilità di Sacchini, che Brigida canta alla perfezione, pur non avendo alcuna nozione di solfeggio né di teoria musicale. Madame Vigée-Le Brun, ritrattista ufficiale della regina Maria Antonietta, racconta invece nei “Souvenirs” di un incontro della regina con la Banti, senza precisarne l’anno o la città. “Io non so il perché, ma mi ero prefigurata la Banti essere di corporatura prodigiosamente giunonica.- racconta - Al contrario, quando la vidi, constatai che era di una corporatura piccola, minuta e di aspetto non bello, con una tale quantità di capelli che il suo chignon rassomigliava ad una criniera di cavallo. Ma che voce! Non si può istituire alcun paragone con la potenza e l’estensione di quella voce: la sala, in tutta la sua grandezza, non poteva contenerla. Lo stile del suo canto, lo ricordo bene, era assolutamente lo stesso di quello adottato dal famoso Pacchierotti, cui Madame Grassini venne in seguito paragonata. Questa famosa cantante aveva un aspetto del tutto particolare: il petto era notevolmente alto e costruito a guisa di un mantice. Questo è ciò che mi sovvenne quella sera allorchè, alla fine del concerto, assieme a qualche altra dama, feci in modo di passarle accanto in un camerino. Fu allora che io pensai che questo inconsueto meccanismo respiratorio potesse contenere e sprigionare la forza e l’agilità della sua voce”.
In ogni caso, dopo la prova canora effettuata con de Vismes Brigida esordisce nel 1776 all'Opéra-Bouffe negli intervalli fra gli atti dell'Iphigénie en Aulide di Gluck in un'aria di Piccinni e in una di Sacchini. Nonostante tali esibizioni le procurino immediatamente alcune scritture all'Opéra, Brigida nel 1779 decide di lasciare la Francia, a causa dei boicottaggi cui è sottoposta da parte delle altre primedonne della compagnia, e di trasferirsi a Londra, debuttando in un concerto con orchestra alla sala del Pantheon di Oxford street. Qui ha l'occasione di essere ascoltata da Lucrezia Aguiari, detta La Bastardella; la famosa cantante, che avrebbe lasciato Londra pochi giorni dopo, le dona 100 sterline annue per permetterle di affrontare uno studio più sistematico e Brigida inizia così a frequentare il compositore Antonio Sacchini, nel frattempo da Parigi stabilitosi definitivamente a Londra, che a sua volta la affida a Gabriele Mario Piozzi, musicista e compositore originario di Quinzano d'Oglio naturalizzato britannico, e poi al celebre violista da gamba Karl Friedrich Abel.
Da quel momento la fortuna di Brigida non conosce confini. A Londra conosce il danzatore veneziano Zaccaria Banti, che l'anno seguente sposa ad Amsterdam, i due si trasferiscono poi a Venezia e da lì, nel 1780, a Vienna. Sono di nuovo a Londra l'anno seguente perchè il marito deve presentare alcune coreografie per il Covent Garden, dopodiché tornano in Italia, dividendosi tra Firenze, dove Brigida debutta nel 1782, Venezia e Trieste, per poi raggiungere Napoli e Torino, Padova, Livorno, Reggio Emilia e Milano. Nell'inverno 1786 viene invitata personalmente a Varsavia dal re di Polonia Stanislao Poniatowski, che la assume come cantante di corte insieme al compositore piemontese Giovan Battista Viotti. A Varsavia Brigida diviene talmente celebre da potersi permettere di interrompere una rappresentazione, essendosi risentita per l'eccessivo brusio di alcuni spettatori, e deve intervenire lo stesso re re per calmare le sue ire. Torna poi in Italia dove partecipa ancora ad una nutrita serie di rappresentazioni, prima di partire nel 1793 per la Spagna, stabilendosi a Madrid, dove gode di protezioni altolocate, come quella della duchessa di Osuna, madrina del terzo figlio della cantante. Da qui torna in Inghilterra. Arriva a Plymouth ai primi dell'aprile 1794, dopo aver rischiato il naufragio; a metà del mese è a Londra, dove l'impresario del King's theatre le offre un compenso tra le 1400 e le 1500 sterline annue, con l'obbligo di ricoprire esclusivamente ruoli principali, una serata d'onore per ogni stagione, alloggio a carico della direzione, copertura delle spese straordinarie e di viaggio, nonché la protezione nella compagnia di Viotti. Nell'aprile 1802 decide di tornare in Italia, dove inizia una relazione sentimentale con il tenore Diomiro Tramezzani, che, ancora sconosciuto, raggiunge una celebrità quasi immediata cantando a fianco di Brigida nell'Antigona di Bianchi al Comunale di Bologna nell'autunno 1802, e alla Fenice di Venezia nel Mitridate di S. Nasolini nel 1803. Nel 1804, dopo aver cantato al teatro Nuovo di Brescia, la Giorgi si reca a Livorno, dove viene contagiata da un'epidemia di febbre gialla che la costringe a una lunga quarantena; ristabilitasi, partecipa ai festeggiamenti dati nel 1805 al teatro alla Scala per l'incoronazione di Napoleone, re d'Italia. Nel teatro milanese canta per tutto il 1805, poi tornò a Bologna, dove si esibì en travesti al teatro del Corso ne I riti di Efeso di G. Farinelli. Nel novembre dello stesso anno, trovandosi in difficoltà finanziarie, accetta una scrittura per Venezia; ma il fisico già debilitato dalla precedente malattia, nonché il clima malsano della laguna le provocano un grave attacco di febbre, probabilmente di polmonite. Dopo tre mesi di malattia Brigida muore, appena cinquantenne, il 28 febbraio 1806 a Bologna, che poi le dedicherà un monumento chiamandola “cremonese”. I suoi funerali vengono celebrati nella chiesa di S. Tommaso in strada maggiore e le spoglie sepolte nel cimitero della Certosa.
Brigida Banti, stampa, 1792
Anche se a Cremona Brigida Giorgi ha trascorso l'infanzia, in realtà la cantante mantenne nel corso della sua vita artistica un legame con la città. Tra le maggiori e più costanti sue collaborazioni è infatti presente quella col compositore cremonese Francesco Bianchi, che a Cremona rappresentò il suo primo lavoro teatrale nel 1772. Attraverso le sue opere la cantante esplorò il mondo dell’opera seria settecentesca, interpretando celebri eroine tragiche come SemiramideBriseide Tisbe. Anche Bianchi, come la Giorgi, ebbe grande fortuna all'estero, sopratutto a Londra, dove diresse il Crow Street Theatre per due anni dal 1798, e a Dublino l'Astley's Theatre.
Alcuni hanno scritto che Brigida Giorgi ignorasse la musica e che basò la carriera cantando a orecchio: possedeva però le doti naturali per essere una beniamina del pubblico per la teatralità e la purezza della voce 'sontuosa', al punto di meritare il titolo di "virtuose du siècle". Il medico cremonese Benedetto Frizzi, originario di Ostiano, nella sua “Dissertazione di biografia musicale” (Trieste, 1802) scrisse: "Questa fu la cantante che ha mosso in me l'ammirazione e la tenerezza più grande. Non era bella, ma non era priva delle sceniche grazie. Una voce che non ho sentito l'uguale in quanto alla sonorità, con suoni medii fortissimi, acuti, estesi e sorprendenti; con un trillo granito e veloce nell'allegro; e moderato come esser deve, nell'adagio; uno studio di voce inimitabile, con salti i più regolarmente intonati e, più d'ogni altro, una tenerezza commovente nel teatro". Michael Kelly del King's Theatre confermò che era "la più perfetta, la più appassionata e la più divina cantante che avesse udito", come pure si narra che l'imperatore d'Austria, durante il passaggio della cantante a Vienna nel 1790, la presentasse al suo seguito come "la più bella voce d'Europa". 

Quella di Brigida fu una voce fuori dal comune: Francois Joseph Fétis nella sua monumentale Biographie universelle des musiciens et bibliographie générale de la musique narra che i medici che ne effettuarono l'autopsia poterono constatare una laringe di eccezionale grandezza, una cassa toracica particolarmente voluminosa e polmoni di dimensioni di due terzi superiori alla media, il che le permetteva una non comune ampiezza di inspirazione e lunghezza di fiati, mentre il figlio scrisse che aveva "due coste spurie in più delle altre donne, da ambo i lati". La Giorgi non aveva avuto un'educazione musicale completa; dotata di una memoria musicale prodigiosa, cantava a orecchio ed era in grado di ripetere all'istante ogni brano che le veniva proposto, eseguendolo con stile appropriato; inoltre amava ripetere più volte i "da capo" con variazioni sempre diverse. E se in teatro era addirittura aggressiva nei confronti delle rivali, nella vita privata era invece amabilissima, avendo assimilato i modi delle dame aristocratiche, le quali facevano a gara per averla ai loro ricevimenti. 

martedì 21 aprile 2020

L'ultimo grande carnevale

Il carnevale del 1939 (Istituto Luce)
Una delle tradizioni più seguite del Carnevale è sicuramente quella dei carri allegorici. La loro origine non è ben chiara, ma quasi sicuramente deriva dall'usanza di portare in processione, sia a spalla che su carretti in origine trainati da animali, le raffigurazioni dei santi come voto di devozione. Il Carnevale è un tempo di transito tra il ciclo natalizio ed un periodo di digiuno e penitenza che precede la Pasqua cristiana, ma in tempi antichi si sovrapponeva ai saturnali romani, un ciclo in cui si assisteva ad un temporaneo ribaltamento dell'ordine costituito per lasciar posto allo scherzo ed alla dissolutezza con un forte valore di rinnovamento simbolico della società, esaurito il quale si tornava alla normalità. Il ritorno al caos primordiale costituiva, in sostanza, una valvola di sfogo delle tensioni sociali, che si esprimevano con la critica e la satira verso quanti, in nessun altro periodo dell'anno, potevano essere attaccati senza correre il rischio di perdere la vita. Ecco quindi la tradizione anche di rappresentazioni ironiche e apertamente in disaccordo con eventi, personaggi e situazioni politiche che si sono mantenute anche negli anni più recenti, creando carri di Carnevale ad argomento politico.
A Cremona, dopo anni di dimenticanza, i carri tornarono in occasione del Carnevale del 1939, e l'avvenimento fu ritenuto talmente degno di nota che meritò un cinegiornale dell'Istituto Luce, che potete trovare ancora oggi su Youtube. Ebbene, a decidere che il Carnevale del 1939 dovesse essere memorabile, fu una riunione dei gerarchi fascisti chiamati a rapporto dal Federale agli inizi di gennaio nel corso della quale si affidò al Dopolavoro provinciale il compito di organizzare un corso mascherato. Il Dopolavoro si mise immediatamente al lavoro, assicurando la partecipazione dei quattro gruppi rionali che avrebbero dovuto allestire un carro allegorico ciascuno, facendolo precedere da un avancarro comprendente un gruppo bandistico e della Federazione agricoltori. Alla sfilata avrebbero dovuto prendere parte anche altri carri realizzati con finalità pubblicitarie da altre industrie della provincia e da gruppi aderenti al Dopolavoro. Oltre ai carri mascherati, suddivisi in categorie, si prevedevano cortei mascherati a piedi con diversi soggetti e premi speciali per i balconi e le finestre meglio addobbati ed il più nutrito lancio di coriandoli e stelle filanti. Per coprire le spese il Comitato organizzatore aveva pensato di bandire una lotteria, chiamata “L'Arca di Noè”, allestendo un apposito carro che avrebbe fatto il giro della città nei giorni festivi per distribuire i biglietti, messi in vendita al costo di 2 lire.
Come assaggio domenica 5 febbraio viene fatto transitare in città il primo carro della lotteria “Arca di Noè” accompagnato da un carro sonoro del Dopolavoro. I gruppi rionali, nel frattempo, lavorano a spron battuto per allestire i loro carri. Il gruppo rionale “Fantarelli” sta costruendo il carro “Follie musicali”, dedicato alla musica moderna; quello del gruppo “Cattadori” sarà “Le ricette del dottor Amal e Petronilla”, mentre il gruppo “Priori” sta allestendo i “Gagà del cinema”, a “Biancaneve e i sette nani”, il cartone animato di Walt Disney attualmente in programmazione, è dedicato il carro del gruppo “Podestà”. Ma non è tutto: i Fasci della prima Zona preparano una “Parodia sciatoria”, mentre a Vescovato stanno allestendo un “Baco da seta”. Il gruppo dopolavoristico “Granatiere” di Cremona ha assicurato che presenterà “Il trionfo della caramella” con un gigantesco lancio di caramelle.
Nei giorni successivi si definiscono il programma e la sfilata, che si terrà in due giornate: domenica 19 e martedì 21 febbraio con inizio verso le 14,30. Il corteo, composto da tredici carri allegorici e dodici mascherate a piedi, percorrerà corso Garibaldi, corso Campi, corso Stradivari, Piazza Roma, via Mazzini e corso Umberto I (l'attuale corso Matteotti, ndr.), affiancato da dieci bande musicali ed orchestre, con il relativo contorno di lanci di stelle filanti, coriandoli, caramelle e cioccolatini. La giuria troverà posto su un balcone al n. 10 di corso Campi e premi di mille lire verranno assegnati ai migliori addobbi e lanci. Per accadere al corso mascherato bisognerà acquistare un apposito distintivo in vendita a 2 lire presso appositi incaricati, ma in distribuzione anche presso i Gurppi rionali e le sedi dei Dopolavoro cittadini. I carri iscritti sono: “Biancaneve e i sette nani”,“Gagà del cinema”, “Follie musicali”, “Nel regno di Petronilla”, “Ritorno di carnevale”, “Parodia sciatoria”, “Trionfo della caramella”, “All'ombra del Torrazzo”, “Risveglio del carnevale”, “Carro carnevalesco”, “Trionfo del baco da seta” e “Ala Littoria”. Le mascherate a piedi: “Concorso dei baffi”, “Congresso degli uomini maturi”, “Pattuglia del carnevale”, “I turisti”, “i corsari”, “Ho cantato alla Scala”, “Cavalleria rusticana”, “La suocera domata”, “Cric e Croc”, e “Partenza per la villeggiatura”.
I carri sfilano per due giorni, domenica 19 febbraio ed il successivo martedì grasso, tra due ali di folla festeggiante, come si può vedere nei fotogrammi dell'Istituto Luce nel servizio per il Cinegiornale del 1 marzo. “Ieri, seconda ed ultima giornata del Carnevale cremonese di quest'anno – scrive il “Regime fascista” - i carri e le mascherate a piedi sono riapparsi per le vie cittadine, rianimandole alcune ore, con la loro allegria inestinguibile, e raccogliendo applausi, e festosi saluti da una folla immensa che per la seconda volta ha gremito vie e piazze, e viali cittadini. Si può dunque dire che il Carnevale di quest'anno, organizzato con molta passione dall'OND, ha ottenuto un lietissimo successo. Il ritorno del corso mascherato a Cremona non poteva avvenire in modo migliore e più lusinghiero. Esso ha richiamato l'attenzione della città intera e ha fatto accorrere migliaia di persone ai paesi vicini e dalle città vicine. Apparsi una prima volta domenica scorsa i carri si sono fatti da sé una propaganda efficacissima così che ieri, per la loro ricomparsa era attesi da una folla che già ne conosceva le particolarità e già si divideva nelle simpatie per l'uno o per l'altro. Tutti però erano concordi nel dare la preferenza assoluta al carro di «Biancaneve e i sette nani» allestito con evidente grande cura. E il carro del Gruppo Rionale Podestà ha infatti conseguito la palma della vittoria. Ma anche già gli altri carri sono piaciuti e tutti insieme poi si sono distinti per un lancio di caramelle a getto, come si suol dire, ieri particolarmente intenso. Era l'ultima giornata e si dava fondo anche alle riserve che la domenica erano state tenute prudenzialmente in disparte.
Anche alla sfilata di ieri ha voluto assistere S.E, Farinacci. Erano presenti anche il Federale, gli on. Mori e Moretti, il Podestà, il Vice Federale e altre autorità.
Ecco la classifica stabilita dalla giuria:
Carri Categoria A: 1. premio «Biancaneve e i sette nani» del Gruppo Rionale Podestà, lire 5000; 2. premio «I gagà del cinema» del Gruppo Rionale S. e L. Priori L: 4500; 3. premio «Follie musicali» del Gruppo Rionale Fantarelli L. 4000; 4. premio «Nel regno di Petronilla» del Gruppo Rionale Cattadori lire 4000.
Carri Categoria B: 1. premio ex aequo «Ritorno di Carnevale» del Dopolavoro Vitalba L. 2500; 1. premio ex aequo “Parodia sciatoria” della 1 Zona L. 2500; 2. premio «All'ombra del Torrazzo» del Dopolavoro La Nazionale L. 2000; 3. premio «Ballerini meccanici» del Dopolavoro di Pizzighettone V. Zona L: 1000; 4. premio «Risveglio del Carnevale» del Dopolavoro Giovinezza L: 800; 5. premio «Trionfo del baco da seta» del Dopolavoro di Vescovato L: 500; Premio d'onore al «Trionfo della caramella» del Dopolavoro Granatiere L: 1000 per il miglior getto.
Categoria carri reclamistici: Premio d'onore, coppa e diploma alla Ditta F.lli Sesto e Sorrentino di Carlentini (Sicilia) rappresentata da Ottorino Zighetti di Cremona; Premio d'onore, coppa e diploma alla ditta F.lli Scapellato e Cocuzza di Carlentini (Sicilia) rappresentata da Giuseppe Zighetti di Cremona; premio speciale e diploma al carro «La Patona», di Zighetti.
Mascherate a piedi: «La suocera domata» bandiera di premio speciale, diploma e L. 50; «I cavallini» diploma di L. 50».
Il ritorno del Carnevale fu però un successo effimero, una meteora che illuminò di gioia solo quell'inizio del 1939. Iniziavano già a soffiare venti di guerra e l'anno successivo i carri allegorici furono presto accantonati. A ricordare quel breve attimo di spensieratezza rimane il breve filmato dell'Istituto Luce, grondante della consueta retorica del tempo.

Per rivedere i carri mascherati bisogna attendere quarant'anni. Certo, fin dagli anni del primo dopoguerra quartieri e parrocchie cittadine si organizzavano autonomamente per far festa durante il Carnevale, ma bisogna arrivare al 1979 per assistere alla ripresa di un evento organizzato a livello cittadino. L'iniziativa inizialmente nasce come il divertimento del martedì grasso di un quartiere, l'antico rione di San Francesco, che fa capo al Vecchio Ospedale, comprendente via Aselli, che organizza un corteo mascherato. Ma, vista l'accoglienza, gli organizzatori decidono l'anno successivo di allargare l'orizzonte spingendosi in via Manzoni e largo Paolo Sarpi. E' l'inizio della gloriosa stagione de “I màascher”: i partecipanti si contano ormai a migliaia e si pensa ad una festa cittadina che possa rinverdire i fasti del passato. Ad accogliere l'appello è il Centro Professionale dell'Anffas, dove insegnano Pierluigi Torresani e Giorgio Gregori, che rilanciano la palla al Comune. Il sindaco Renzo Zaffanella, che guida l'amministrazione, concede un locale nel comparto del Vecchio Ospedale, in modo che si possano allestire con maggior comodità carri allegorici, costumi e maschere, coinvolgendo anche gli altri gruppi culturali cremonesi, le associazioni e le scuole interessate. Gli allievi dei corsi professionali dell'Anffas lavorano sodo per tre mesi, con la collaborazione di molti gruppi esterni e di personaggi che hanno fatto la storia del Carnevale, come l'indimenticato Camarda di via Aselli. L'edizione del 1981 è subito un successo, con la partecipazione di oltre diecimila cremonesi. Al termine della manifestazione gli organizzatori si ritrovano in Comune con il sindaco Zaffanella e gli assessori Camillo Fervari e Italo Ruggeri, un incontro simpatico e informale nel corso del quale Camarda consegna in dono al primo cittadino una “scüriàada de careter”, la frusta addobbata dai caratteristici fiocchetti con cui, vestito da carattiere, ha guidato proprio uno di quei carri.

Le ambulanze del Po

L'ambulanza Antonio Litta nel 1898 di fronte alla Baldesio
(archivio CRI Cremona)
C'è stato un tempo in cui il Po è stato utilizzato come la più grande corsia sanitaria nazionale per il trasporto di ammalati e feriti dalle zone più carenti di assistenza ai grandi ospedali del Nord Italia. Per almeno vent'anni, tra la fine dell'Ottocento e la conclusione della prima guerra mondiale, le sue acque sono state solcate da ambulanze del tutto speciali, costituite da grandi barconi attrezzati che garantivano ai feriti un trasporto più confortevole e sicuro, rispetto ai tradizionali mezzi terrestri. Gran parte del materiale utilizzato per attrezzare questi barconi derivava infatti dai treni ospedale, allestiti dalla Croce Rossa Italiana in occasione di grandi calamità. Prima della Grande guerra, l'ambulanza fluviale prestava assistenza alle comunità che risiedevano lungo il corso del Po e i suoi affluenti, lontane dai presidi medici cittadini anche a causa della scarsità di strade e ferrovie. In una vecchia foto dell'Archivio storico della Croce rossa cremonese si può osservare l'ammiraglia della flotta, la “Alfonso Litta”, ormeggiata verso il 1898 sulla sponda del Po nei pressi nell'antica palazzina della Canottieri Baldesio.
Il primo esperimento di allestimento era stato messo in cantiere nel 1891 quando furono predisposti le attrezzature e gli arredi per allestire il primo convoglio ambulanza fluviale, che avrebbe però operato sul Lago Maggiore, con base a Verbano. Prese il nome di "Brunetta d’Ussaux", poiché fu concepita e progettata dal conte Eugenio Brunetta d’Usseaux, che allestì tre battelli alberati. Si trattava di veri convogli, composti da nove barconi ricovero e tre barche di scorta, progettati per trasportare fino a 300 soldati e 25 ufficiali (oltre ad 80 persone di servizio). Al progetto, secondo il d’Usseaux, avrebbero dovuto prestare la loro opera anche le Società Canottieri, con i loro uomini e le loro darsene di servizio nelle rispettive zone, oltre ai loro locali come punti d'approvvigionamento, d’imbarco e sbarco, per il servizio di porta ordini, approvvigionamento viveri, ordini ai sindaci, servizio di corrispondenza ai malati, comunicazione con i delegati d’armata e con le autorità militari e civili.
L'8 settembre 1894 aveva fatto il suo giro inaugurale sul lago di Como una nuova ambulanza fluviale, la “Lario”, su cui aveva viaggiato anche il presidente nazionale della Croce Rossa Italiana Gian Luca Cavazzi, conte della Somaglia. Si trattava di un vero e proprio viaggio promozionale e dimostrativo per illustrare i pregi del nuovo sistema di soccorso ed ottenere contributi, nuovi soci e nuovi volontari a ferma bennale. Partita da Lecco era approdata a Como la mattina dell'11settembre, dopo aver toccato Varenna, Bellano, Colico, Domaso, Gravedona, Dongo, Menaggio, Bellagio, Tremezzina, Argegno, Carate, Torno, Cernobbio, suscitando ovunque interesse ed ammirazione. Per l'occasione erano stati utilizzati solo due comballi. grandi imbarcazioni a vela e a remi tipiche del lago di Como, che a tutta la metà del XX secolo furono il principale mezzo di trasporto lacuale di merci pesanti. Uno era stato attrezzato da uso infermeria e l'altro per la cucina, la cambusa e la sala da pranzo, coperti con una struttura ad assicelle di legno bianco. Ad ogni attracco ai ponti dei paesi toccati dalla crociera promozionale, l'ambulanza era stata accolta dalle autorità comunali, dalle bande musicali e dai semplici cittadini, che assistevano incuriositi alle operazioni di imbarco e sbarco dei feriti e restavano ammirati dalla completezza e dalla disposizione della attrezzature sanitarie. In realtà l’ambulanza completa sarebbe stata composta da 10 “comballi“, capaci di contenere 214 feriti e 53 addetti, ma per farlo sarebbe stato necessario raccogliere altri fondi per acquistare ed attrezzare le imbarcazioni mancanti, di una delle quali si era fatto carico il Sotto comitato dalla CRI di Lecco. In base ad un apposito accordo con statuto e regolamento, i soci delle canottieri e vogatori, si sarebbero impegnati a custodire i barconi e a guidarli in caso di mobilitazione. Tutto quello che consisteva l’allestimento, rimaneva in custodia nelle sedi e nei magazzini della CRI, comprese le assicelle bianche per la copertura. Queste ambulanze erano l’equivalente navigante di un treno ospedale, o di un ospedale da campo.
La preparazione del rancio (archivio CRI Cremona)
Tre anni dopo, nel 1897, fu allestita a Pallanza, con magazzino ad Arona, su proposta e disegno del Comitato Centrale, la “Alfonso Litta” prima vera ambulanza fluviale, finanziata dalla contessa, Eugenia Litta Bolognini Attendolo Sforza insieme alla Croce Rossa di Milano ed al presidente dell’ospedale Maggiore, il conte Emilio Borromeo, per ricordare in questo modo il figlio Alfonso Litta (1870-1891), avuto da Umberto I di Savoia, deceduto mentre prestava il servizio militare.
Le due ambulanze fluviali, in caso di guerra, avrebbero potuto trasportare una gran numero di feriti ed ammalati in tutta l'area del Nord compresa tra i principali laghi alpini ed il mare Adriatico, semplicemente percorrendo fiumi e canali navigabili, senza le difficoltà di intasamento dei treni ospedali e dei convogli stradali di soccorso in un momento in cui la rete stradale era ancora scarsa ed i problemi aumentavano con la necessità di far affluire al fronte soldati, materiali e armamenti. Il relativo ritardo con cui era stata allestita la seconda ambulanza fluviale, la cui costruzione era iniziata fin dal 1892, è spiegabile con la difficoltà di arruolamento di volontari, tanto da ricorrere ad una sorta di incentivi, ad iniziare dalla corresponsione di un'indennità di tre lire a settimana per la moglie, ciascun figlio inferiore ai 14 anni, e genitori ultrassessantenni inabili al lavoro per uanti fossero mobilitati a prestar servizio nelle unità ospedaliere in caso di guerra.
Potevano arruolarsi sulle ambulanze fluviali tutti i cittadini tra i 20 ed i 50 anni di età, compresi i militari di qualsiasi grado in congedo illimitato, di prima e terza categoria, purchè non avessero prestato servizio in artiglieria, genio o nelle compagnie di sanità, mentre l'arruolamento senza limitazioni era previsto per i riservisti della marina militare.
La "Litta" era composta inizialmente da 4 chiatte a fondo piatto, lunghe 14 metri e larghe 4, di cui una destinata al personale direttivo, alla farmacia, alla camera di medicazione ed alla cucina e le altre quattro ad infermerie con 46 barelle e 10 posti a sedere per ciascuno. Il convoglio era trainato da uno o più rimorchiatori a vapore, ma potevano essere trainate, ciascuna, da due cavalli, che si muovevano sulle mulattiere all’uopo predisposte sugli argini di tutti i canali navigabili dell’alta Italia. Tre lance a remi di servizio assicuravano i collegamenti tra i natanti quando il convoglio era in navigazione. L’organico comprendeva 1 commissario, 1 contabile, 2 impiegati, 4 medici, 1 cappellano, 1 farmacista, 1 cuoco, 10 sottufficiali, 24 infermieri, 6 inservienti e 2 carpentieri, più 25 canottieri addetti al governo delle imbarcazioni. Il costo complessivo fu di oltre 60.000 mila lire, e l’ambulanza venne iscritta tra le unità ospedaliere. Si trattava di un convoglio collegato di quattro natanti, perfettamente attrezzato come ospedale mobile. Lo scopo dell’ambulanza fluviale era quello di portare assistenza ai paesi situati lungo le rive del Po e dei suoi affluenti, privi di assistenza ospedaliera sul posto, e mal collegati sia sotto il profilo stradale che ferroviario. Secondo il progetto, i convogli composti da più barconi di differente tipologia, avrebbero trasportato più di trecento persone tra feriti e personale di servizio, essendo dotati di sale chirurgiche, ambulatori per le medicazioni, magazzini, uffici, ed alloggiamenti. Tra il personale delle ambulanze fluviali, prima volontario poi già sotto le armi vi erano i membri delle società canottieri, che tornavano utili per la loro conoscenza riguardo alla navigabilità del Po, dei suoi affluenti e di altre realtà fluviali interessate da queste particolari unità di soccorso.
L’ospedale galleggiante fu inaugurato il 22 giugno 1898, alla darsena milanese. Partì il successivo 30 per il suo primo viaggio, per raggiungere Chioggia e il 10 luglio Venezia, ovunque accolto dalla gente con grandi feste.
L’ambulanza fluviale non era allestita solo su chiatte fluviali, ma utilizzava anche battelli tipo bragozzo d’altura o trabaccolo da trasporto, imbarcazioni con chiglia, in uso sul mare Adriatico. Questi battelli, delle stesse dimensioni delle chiatte, erano dotati di due alberi attrezzabili con vele latine per cui erano potenzialmente in grado di navigare a differenza dei natanti di stampo fluviale. Sui barconi-ambulanza, era vietato mettere qualsiasi segnale eccetto lo stemma della Croce Rossa, prescritto dalla Convenzione di Ginevra, dipinto sopra una lastra metallica e fissato alle paratie e sulla copertura della barca.
Convoglio nella laguna veneta (collezione Spazzan)
L’ambulanza fluviale funzionò durante il conflitto dal luglio al 26 settembre 1915 poiché l’approssimarsi della stagione delle nebbie, le difficoltà di riscaldamento dei barconi nel periodo invernale e altre necessità logistiche determinò la sospensione dell’attività di soccorso. Ma dal maggio 1915 era già entrata in funzione l'ambulanza lagunare “Città di Venezia”, istituita Comitato Regionale CRI di Venezia dopo aver preso accordi con il Comando in Capo della Piazza marittima del capoluogo veneto. Questa ambulanza era costituita da un convoglio di 3 peote (barconi), ognuna dotata di 18 barelle e trainata da uno o più motoscafi trasportava, oltre ai 54 barellati, fino ad un massimo di 200 infermi seduti o in piedi. In laguna, a questa unità si affiancarono anche l’autoscafo "Regina Elena" ed alcuni battelli a vapore attrezzati. Le ambulanze lagunari rispondevano a criteri di costituzione, gestione ed impiego analoghi a quelli delle ambulanze fluviali. Entrambe venivano, all’occorrenza allestite e gestite sempre sotto il controllo delle autorità sanitarie militari di armata o territoriali, e dalla Croce Rossa italiana.
Nel 1916, le ambulanze fluviali trasportarono 23.473 uomini, di cui 4.217 in barella. Al 30 giugno 1917, erano stati trasportati 28.082 infermi, dei quali 4.465 in barella. Nel marzo 1918 le ambulanze fluviali passarono alle dipendenze della Delegazione Generale della Croce Rossa Italiana, che le assegnò alla Delegazione della 3a Armata. Al 30 giugno 1918, erano stati trasportati 48.353 infermi. Alla metà del 1918 furono censiti: 639 burchi, 149 peote, 65 bragozzi, 19 batelloni, 5 preame, 12 burchielli, 66 battelle (piccole barche dell’Adriatico), 5 topi, 58 motobarche, 31 autoscafi, 71 rimorchiatori, 59 rascone, 119 sandoli (barca da trasporto, con fondo piatto, tipica della laguna veneta), e 45 caorline. A queste vanno aggiunte le zattere assemblate sul lago di Como e fatte scendere lungo l’Adda fino al Po. Grazie alla realizzazione di due conche sul Tagliamento, nel dicembre del 1915 la rete delle acque interne permetteva di raggiungere Grado collegando direttamente Milano al fronte isontino. Successivamente il servizio venne esteso alle linee del padovano e del vicentino alimentate dai fiumi Brenta e Bacchiglione e sui canali che dai laghi di Como e Maggiore portano a Milano e al Po. Venne inoltre attuato un servizio di trasporti nei laghi di Garda, Maggiore e Idro.



martedì 14 aprile 2020

Gli anni dell'asiatica

Era il 1957 e la notizia circolava già dall'inizio dell'anno. Le autorità cinesi avevano informato che nel sud del paese si stava sviluppando un'epidemia provocata da un virus particolarmente aggressivo, l'H2N2 che, dopo aver colpito le anatre selvatiche, aveva fatto il salto di qualità contagiando la specie umana. Tuttavia fino ai primi di giugno, nonostante il morbo facesse strage di migliaia di persone nelle Filippine, Cina, Formosa, Cambogia, Indonesia, India e nelle numerose colonie britanniche, i giornali italiani continuarono a relegare la notizia nelle pagine interne, come se la cosa riguardasse solo quelle popolazioni lontane. Ci si limitava a seguire il contagio spostarsi dall’Asia all’Africa e al Sud America, raccontando «l’apprensione» delle autorità britanniche o la tranquillità di quelle olandesi, dove l’influenza era arrivata da una nave proveniente dall’Indonesia. Gli inglesi, dal canto loro, pur avendo già migliaia di bambini contagiati, giudicarono eccessivo l’allarme e si dissero certi che avrebbero debellato in poco tempo il virus. L’asiatica, che gli scienziati dicevano essere abbastanza simile alla tristemente nota “spagnola”, provocava un virulento attacco influenzale con febbre fino a 40°, emicranie da spaccare la testa, forti dolori muscolari e problemi intestinali per due o tre giorni. Se sopravvivevi, guarivi nel giro di una settimana o poco più.
E quando, all'inizio di agosto, l'epidemia scoppiò improvvisamente a Napoli, l’allarmismo non fu particolarmente pressante. Si iniziò a parlarne e a scriverne perché c’erano morti continuamente, si tenevano i bambini in casa, ma in sostanza il vivere quotidiano e le abitudini non furono stravolte perchè il Governo non sapeva bene come affrontare l’epidemia ed i medici, trattandosi di una influenza, davano semplicemente consigli su come comportarsi al fine di prevenire il contagio. D'altronde l'epidemia arrivava prima delle tradizionali influenze, in piena estate. A trasportare il virus furono soprattutto le centinaia di migliaia di soldati di leva, che tra licenze, permessi, esercitazioni e parate si muovevano da un capo all’altro del paese. Il primo focolaio venne localizzato al Quartier Generale delle Forze Armate del Sud Europa a Bagnoli, dove si ammalarono oltre trecento militari, ma nel giro di pochi giorni un terzo della popolazione di Napoli era ammalata. Dal Sud il contagio arrivò ben presto a Milano, portato, si dice, all'interno della casa di rieducazione “Cesare Beccaria” di Arese poco dopo Ferragosto da un giovane ricoverato di ritorno da una licenza a Mestre: l'epidemia colpì 130 dei circa duecento ospiti e l'istituto venne isolato. A portare l'asiatica a Cremona furono agli inizi di settembre tredici reclute della caserma Col di Lana, che furono immediatamente isolate. Il quotidiano locale si affrettò a tranquillizzare la popolazione: “A questo proposito dobbiamo dire che nella popolazione cremonese nessun caso di 'asiatica' è stato sino ad ora registrato, ma solo casi di influenza da raffreddamento, per cui non vi è alcun motivo di allarme. Anche nel reclusorio di Pizzighettone si sono registrati quattro casi di influenza tra i reclusi, ma il virus non è stato ancora definito; tuttavia le pronte misure cautelative poste in opera dal Medico Provinciale, assieme ai dirigenti del reclusorio, hanno fatto sì che la popolazione di Pizzighettone non abbia sino ad ora fatto registrare alcun caso di 'asiatica'”. E le misure per contrastare l'avanzata del virus erano sempre le solite: “Alimentazione sana e sufficiente sia dal lato quantitativo che qualitativo (verdure e frutta contenente sali e vitamine; carni, latte, ecc. contenenti proteine pregiate) evitando ogni accesso; evitare l'abuso degli alcolici, del caffè e del tabacco; vita all'aperto per quanto possibile evitando però raffreddamenti, l'esposizione eccessiva al sole ed ogni strapazzo fisico; riposare almeno otto ore al giorno dalle 22-23 alle 6-7 (evitare i locali chiusi ed affollati); riguardarsi e curare anche semplici raffreddamenti, manifestazioni reumatiche e disturbi gastro-intestinali che possono diminuire le resistenze organiche e predisporre al contagio; molto utile la somministrazione di vitamina C ad alte dosi. Per le comunità di vecchi e bambini tale vitamina potrà essere richiesta all'Ufficio Igiene del Comune. Si raccomanda ai gestori di cinematografi ed altri locali pubblici, ai dirigenti dei servizi di pubblico trasporto ed a ogni responsabile di comunità, una frequente pulizia dei locali con periodiche disinfezioni”.
Ma nel frattempo un altro focolaio era divampato nelle colonie marine di Marina di Massa, colpendo ben 1500 bambini. Tra questi i 160 piccoli ospiti della colonia viadanese “Luigi Cantoni”, 65 dei quali furono contagiati dall'asiatica. I restanti, ritenuti sani, furono fatti rientrare in tutta fretta nei paesi di provenienza, consegnando ad ogni famiglia una lettera dell'Ufficio di igiene che spiegava i motivi della conclusione anticipata del soggiorno marino. Ma qualche giorno dopo iniziarono a manifestare i sintomi del contagio i piccoli dell'intero distretto viadanese, comprendente Dosolo, Pomponesco e Sabbioneta.
Il 24 settembre l'Italia deve iniziare a fare i conti drammaticamente con la nuova epidemia: viene posto in isolamento l'ospedale romano del Bambin Gesù in seguito alla morte di una giovane infermiera addetta all'assistenza dei bambini ammalati. Il referto dell'autopsia parla di “broncopolmonite bilaterale conseguenza dell'asiatica”. All'ospedale militare del Celio muore una giovane recluta, altri decedono allo Spallanzani. Da più parti vengono richiesti provvedimenti di emergenza, mentre l'Ufficio di igiene della capitale si limita a suggerire di non frequentare i locali pubblici ed a non servirsi dei mezzi di trasporto. Manca ovunque il vaccino, che viene riservato ai medici ed al personale sanitario. Si vocifera di un preparato sottoposto all'approvazione dell'Istituto Superiore di Sanità da parte di un noto istituto sierologico, costituito da un vaccino antinfluenzale associato ad antibiotici e sulfamidici da somministrarsi per via nasale nelle fasi iniziali di tutte le influenze, ma intanto si registra a Milano il decesso di una bambina di 13 anni, ospite dell'Istituto Giulio Salvadori per le figlie dei carcerati, all'interno del quale si registrano altri quaranta casi di “asiatica”. Il virus dilaga tra i militari del V CAR di Albenga in provincia di Savona, con oltre 500 ammalati, altri 30 casi si registrano nelle comunità religiose dell'Istituto Santa Maria di Laigueglia e nel noviziato del Sacro Suore di Albissola Superiore.
Inizia a diffondersi la paura, costringendo per la prima volta la Prefettura ad intervenire con un proprio comunicato che, tra le righe dei toni volutamente tranquillizzanti, lascia intuire la preoccupazione. Al 25 settembre i contagiati dal virus sono nel Cremonese 298, di cui 22 nel capoluogo e gli altri suddivisi in 24 comuni. “Poichè il decorso clinico della malattia è di norma molto breve – afferma la Prefettura – si presume che il numero dei casi di malattia in atto al momento debba essere di molto inferiore alla cifra globale segnalata. D'altra parte il decorso clinico è tuttora benigno non sono stati finora registrati eccessi ascrivibili ad influenza. I controlli effettuati nella Provincia ed il risultato delle estese indagini condotte dall'Ufficio d'Igiene di Cremona consentono di confermare che la tendenza alla diffusione della malattia è piuttosto scarsa e che mancano esplosioni a carattere collettivo nelle comunità. Dal 13 corr. è in distribuzione il vaccino antinfluenzale in rapporto alle richieste ed alle assegnazioni pervenute dalla amministrazione sanitaria centrale. Al momento, pertanto, la situazione può essere considerata con tranquillità e senza eccessiva preoccupazione”.
Ma l'asiatica non è una semplice influenza, e verso metà ottobre la situazione si complica, anche se le autorità si affrettano a sostenere che “il decorso è sempre benigno”. Se da un lato si continua a sostenere che a Milano, con 886 casi, la situazione sanitaria “è assolutamente tranquillizzante”e l'epidemia è “straordinariamente lieve”, a Ragusa i casi sono 1500 con le prime vittime, a Trapani è ammalata mezza città, duemila i casi a Catania, tremila a Monopoli. A Trento, Pavia, Cuneo e Torino le scuole restano chiuse. I militari ammalati, secondo i dati del Ministero della Difesa sono 60 mila dall'inizio dell'epidemia, di cui 53 mila guariti ed altri 7 mila ancora degenti..
Finalmente anche a Cremona qualcosa si muove, con notevole ritardo. Dopo aver negato qualsiasi epidemia, il Provveditorato, la sera del 30 settembre decide che le scuole non apriranno il giorno dopo, rinviando tutto al 10 ottobre, “malgrado l'attuale andamento benigno dell'epidemia influenzale e il decorso clinico della malattia in generale benigno”, che però “potrebbe determinare una sensibile e difficilmente controllabile diffusione della malattia”. A Crema l'Ospedale maggiore sospende dal 12 ottobre le visite dei parenti ai ricoverati per l'asiatica, a causa del diffondersi del virus.
A Bergamo i casi di “asiatica” sono ormai più di 1500, nelle scuole che hanno ripreso le lezioni metà degli alunni sono assenti e si registrano le prime tre vittime, decedute per complicazioni alle vie respiratorie. Altri due morti si registrano a Genova, a Trieste dove, stando alle autorità “l'epidemia non presenta caratteri di particolare gravità” vengono denunciati 4041 casi di cui 2442 tra la popolazione civile e 870 nei campi di raccolta dei profughi istriani, mentre viene definita “eccezionale”la diffusione del virus nella vicina Grado. A Piacenza si decide di tenere le scuole chiuse.
Una palestra svedese con i malati di asiatica
Notizie drammatiche arrivano dalla Sicilia, dove i contagiati sono ufficialmente circa 50.000, di cui 27.652 nella sola provincia di Palermo, ma in realtà sarebbero intorno ai 200 mila. L'epidemia non sembra abbandonare il Nord Italia, al punto che si vocifera della possibilità di distribuire seimila dosi di vaccino generico al costo di 720 lire la dose. In realtà un vaccino contro l'asiatica non esiste ancora: è stato solo presentato all'approvazione delle autorità sanitarie un prototipo messo a punto da un istituto sieroterapico nazionale i cui tempi di sperimentazione, però, richiederanno ancora del tempo quando invece sembra che i focolai si stiano moltiplicando sempre di più nel Settentrione. Sembra però che l'Alto Commissariato per la Sanità sia intenzionato ad accettare la proposta di una società olandese per l'invio in Italia di centomila dose di un vaccino specifico entro un mese e di altre duecentomila entro sessanta giorni. Nel frattempo il bollettino di guerra dell'asiatica si aggrava: le vittime dell'influenza salgono a due a Treviglio, con il decesso un giovane studente che costringe a posticipare nuovamente la riapertura delle scuole già decisa. Anche Merano, che fino a questo momento sembra non sia stata toccata dall'epidemia, registra improvvisamente una recrudescenza del morbo, che colpisce il 60 per cento degli studenti. Sette decessi si registrano a Torino, dove ogni giorno vi sono circa 5000 chiamate agli ambulatori ed ai medici privati, ed ormai sono oltre ventiduemila gli ammalati a Catania. Quando ormai la situazione sembra sfuggire di mano, ecco che l'aumento dei contagi si stabilizza, fino ad affievolirsi con i primi mesi del 1958.

Nonostante le autorità abbiano sempre trattato la pandemia senza allarmismi e, a volte, persino con leggerezza, atteggiamento giustificato dal fatto che, a differenza del nuovo coronavirus, l’influenza asiatica era effettivamente “solo” un’influenza, l'asiatica non fu per nulla “benigna”. Secondo stime successive, l’asiatica contagiò tra il 10 per cento e un terzo dell’intera popolazione mondiale. In Italia contrasse la malattia un italiano su due, 26 milioni di persone, tra cui l’85 per cento della popolazione tra i 6 e i 14 anni. Con una mortalità stimata inferiore allo 0,2 per cento (cioè 0,2 morti ogni cento persone contagiate), l’influenza asiatica era comunque ben più pericolosa di una normale influenza stagionale, che ha una mortalità in genere dello 0,01 per cento e solitamente viene contratta dal 10-15 per cento della popolazione. In Italia, le morti causate dall’asiatica furono stimate in circa 30 mila.

L'avventura dell'Eridano


Due secoli fa, nel giro di una sola estate, tramontò il sogno di riunire l'Italia settentrionale percorrendo l'unica via che non conosceva confini, il Po. I patrioti milanesi che nel 1819 avevano costituito la “Società delle scuole gratuite di mutuo soccorso”, pensavano che una grande spinta unificatrice sarebbe venuta dal navigare il grande fiume con il pretesto di favorire i traffici commerciali, ma in realtà covando la segreta speranza di avvicinare ed uniformare gli intenti dei liberali piemontesi, lombardi, veneti ed emiliani in modo che, quando si fosse presentata l'occasione, sarebbero stati pronti ad un'azione comune. D'altronde Vienna non avrebbe posto troppe difficoltà al progetto, per la difficile situazione economica e finanziaria in cui si trovava il Regno d'Italia dopo i vent'anni di guerra delle campagne napoleoniche. Per questo quando il conte Luigi Porro Lambertenghi nel febbraio del 1817 aveva fatto domanda al governo della Lombardia per ottenere l’esclusiva per vent’anni della navigazione a vapore sul Po e sugli altri fiumi e laghi del Lombardo-Veneto, sul tratto di mare da Venezia a Trieste e lungo le coste dell’Adriatico e nord di Ancona, nessuno battè ciglio. Avviata la pratica, Porro costituì una società con altri due nobili, amici suoi e legati da una comune fede “indipendentista” e massonica: Federico Confalonieri e Alessandro Visconti d’Aragona. Se da un lato i tre patrioti intendevano dimostrare la difficoltà dei rapporti commerciali determinata dalle sette diverse barriere doganali esistenti tra Venezia e Pavia, dall'altra vedevano la possibilità di superare anche le barriere politiche esistenti tra i vari gruppi di cospiratori.
Restava da risolvere il problema della nave. Federico Confalonieri, reduce da un viaggio a Londra, suggerì di ricorrere alle officine di Boulton e dei Watt che fornirono una straordinaria macchina a vapore alimentata da carbone inglese. Lo scafo venne invece realizzato a Genova con materiali però difformi da quelli consigliati dagli inglesi. Il battello, battezzato con l'antico nome del Po, Eridano, fu varato nell’ottobre del 1819 e, dopo una lunga navigazione lungo tutte le coste italiane, giunse a Venezia nel maggio 1820. Poco dopo, il 5 giugno 1920 arrivò da Vienna l’atteso documento che autorizzava l’iniziativa, e l’avventura poté cominciare. Il 6 luglio 1820 l'Eridano salpò da Venezia diretto a Pavia. Il viaggio durò ben 16 giorni a causa della forte corrente contraria del Po che richiese a un certo punto persino l’aggiunta di alcuni buoi a sostegno dell’insufficiente forze del vapore. Il 12 luglio il battello toccò Cremona. Confalonieri sbarcò per incontrare alcuni amici cospiratori, tra cui Antonio Cazzaniga, annunciando, con un messaggio lasciato al marchese Servio Valari Maggi, la rivoluzione a Napoli, per poi proseguire in carrozza a Milano che lasciò due giorni dopo diretto a Piacenza, dove l'Eridano lo attendeva per ripartire alla volta di Pavia. Il testo del breve messaggio, che sarebbe stato uno dei capi d'accusa nel processo terminato con la condanna allo Spielberg, recitava: “Mercoledì, alle ore 12 alla posta di Cremona. La milizia ha operato in Napoli la più brillante operazione. La Costituzione delle Cortes fu proclamata, il Re l'ha accettata. Il Ministero è cambiato. Ricciardi alla Giustizia. Amati alle Finanze. Corascosa alla Guerra, Campaliaro all'Interno. Addio!”. Il 22 luglio, una volta arrivato a Pavia, Confalonieri scriveva a Cazzaniga: “Amico pregiatissimo, dopo la volata fatta da Cremona a Milano fui a riprendere la mia navigazione a Piacenza e dopo due giorni di corso eccoci tutti arrivati alla meta...mi felicito del breve soggiorno a Cremona che m'ha offerto l'opportunità di fare la pregiata vostra conoscenza”.
Ma fu il viaggio di ritorno a destare le attenzioni del governo austriaco. Il viaggio di ritorno fu molto più agevole grazie alla corrente favorevole e si svolse in soli cinque giorni, dal 3 all’8 settembre, con sole 40 ore di navigazione effettiva. E’ quest’ultimo il viaggio reso famoso dalle cronache, che soddisfaceva alle attese pubblicitarie del governatore e che in seguito diventerà uno dei miti del liberalismo italiano.
Il battello Verbano, 1826
Eretto sulla tolda del battello, Vincenzo Monti declamava versi epici di celebrazione dell’eroica impresa. Sotto coperta, Silvio Pellico, allora segretario di Porro Lambertenghi, cercava di guadagnare proseliti alla Carboneria. Federico Confalonieri, entusiasta, si godeva la compagnia, l’omaggio della folla che si assiepava lungo le rive del fiume per vedere lo strano battello e le ricche cene offerte agli illustri ospiti. Lo storico Giovanni Sforza, nel suo libro “Silvio Pellico a Venezia, 1820-1822” pubblicato nel 1917, descrive questo viaggio attraverso le testimonianze dei protagonisti, tra cui esponenti della Massoneria inglese: “L'ordinario viaggio dell'Eridano era: partendo da Pavia, doveva esso scendere il Ticino, entrare in Po, andare a Venezia, e viceversa. Giunto però alla foce del Mincio, doveva risalire questo fiume, tre miglia circa, fino a Governolo, e deporre quivi le mercanzie dirette a Mantova, ove il battello, a cagione di certi sostegni, non poteva arrivare. Il primo viaggio ebbe luogo sul principio di settembre. Così lo descrisse il Confalonieri in una lettera al Capponi: «Fui col tuo amico ministeriale Karrighan, coll'inglese Williams, noto per suo amoroso soggiorno in Siena, con Porro, con Monti e con molti altri amici e passeggeri in quel battello a vapore, a Venezia. La nostra navigazione da Pavia a Venezie, spazio di trecentosessanta miglia geografiche, fu di solo trentasette ore. La rapidità del viaggio, l'ottima compagnia, lo spettacolo delle popolazioni che in massa accorrevano sulle rive a veder mirabile monstrum, la bellezza della stagione, e la non deficienza di quelle comodità sibaritiche che non sono indifferenti agli epicurei, ci resero questo viaggio estremamente piacevole ed interessante». Il conte Giovanni Arrivabene, che dalla sua villa della Zaita, presso Mantova, si era recato a Governolo, per veder passare l'Eridano, scrisse: «Ambe le rive del fiume erano gremite di popolo. Dopo molte ore di ansioso aspettare si vede di lontano una colonna di fumo, poscia il battello: è silenzio universale; ma allorchè giunto esso dalla parte del villaggio, la rasenta e girando maestosamente sopra sé stesso va a fermarsi all'opposta riva, tutti gli astanti fanno ancheggiare ambe le sponde di un immenso applauso». Gli «altri molti amici» che il Confalonieri non nomina, erano Passerini di Lodi e i due figli del Porro Lambertenghi, Giacomo e Giulio, con Silvio Pellico, loro precettore. Il 9 settembre il Pellico da Venezia scrive al fratello: «Il nostro viaggio sull'Eridano è stato felicissimo. Ci siamo imbarcati a Pavia il giorno 3, e siamo qui giunti ieri: abbiamo messo quasi il doppio del tempo che si metterebbe, se ad ogni passo non vi fosse da fermarsi per le dogane parmigiane, modenesi, papali; inconveniente che danneggia assai la speculazione togliendo ogni possibilità di gran commercio. Che magnifica città è questaVenezia! Oltre il rispetto che ella ispira per la ricordanza della potenza e della energia che ha avuto, lo spettacolo di un sublime edifizio rovesciato è sempre doloroso». Aveva molte cose da fargli sapere di natura segretissima e pericolose a dirsi servendosi della posta; e incerto se avesse o no ricevuto la cartolina jour, uno dei mezzi anzichenò primitivi di corrispondenza clandestina, adoperati da Carbonari, bisognò che alla meglio artificiosamente gliele mettesse in carta. «Nel giorno in cui partì da Milano – era il 2 nel pomeriggio - mi disse che alla Madonna d'Oropa erano state arrestate persone di distinzione. E' egli vero? Possibile che il povero nostro Piemonte abbia anche a temere di quella canaglia di Carbonari? Qui in tutto il Regno vi è un editto contro di essi, dichiarando che essi hanno per mira di distruggere gli attuali governi, che per conseguenza sono rei di morte. Dio ci scampi da nuove turbolenze politiche! Abbastanza l'Italia ha già sofferto nelle guerre passate». Dopo questo primo viaggio trionfale, però, cominciarono le difficoltà. L’impresa sarebbe stata remunerativa solo se fosse riuscita ad accaparrarsi un regolare traffico di merci tra Milano e l’Adriatico, ma non fu così. Il fiume non era sempre navigabile per le secche e le nebbie che impedivano di schivare i numerosi mulini natanti. I ducati di Parma e di Modena ritardavano il viaggio con estenuanti ispezioni doganali. La domanda di trasporto delle merci quindi scarseggiava e un viaggio non a pieno carico non compensava le forti spese provocate dai sette uomini dell’equipaggio e dal costo elevato del carbone inglese. Iniziata nel giugno del 1820, il 23 marzo 1821 l’impresa era già fallita e l’Eridano, ormai in disarmo sulla Riva degli Schiavoni a Venezia, restava solo un simbolo della temerarietà di questi primi imprenditori moderni milanesi. Nel 1826 il suo propulsore, fu trasferito sul Verbano, primo piroscafo in servizio sul Lago Maggiore, che il 1 maggio salpò per il suo primo viaggio da Magadino in Svizzera, a Sesto Calende toccando lungo il viaggio, sia la sponda piemontese sia quella lombarda, gestito da una società, l’Impresa Lombardo-Sardo-Ticinese per la navigazione sul lago Maggiore.

Trecourt, il battello contessa Clementina, 1856
Nel 1840, un secondo tentativo di navigazione a vapore del Po falli per l'inadeguatezza della nave, che battezzata Arciduchessa Elisabetta, fu trasferita sul Lago di Como. Nel 1843 il conte Mocenigo acquistò dal signor De Bei la concessione, avuta 15 anni prima di navigazione sul fiume padano, e ordinò alla Dithburn & More di Londra la costruzione di un piroscafo di ferro battezzato, con molta semplicità, Conte Mocenigo. La nave con un pescaggio di soli 61 centimetri inaugurò alla fine del 1843 il traffico sulla tratta Venezia-Mantova (Borgoforte), nel Lombardo-Veneto austriaco. Seguì nel 1846, sul tratto Mantova-Milano, un secondo piroscafo costruito dalla Taylor di Marsiglia, e battezzato Contessa Clementina. In questo periodo la navigazione via fiume, da Venezia a Milano, diventa concreta. Il tempo impiegato era di sei giorni nella stagione estiva e di otto in quella invernale. Da Venezia a Cavanello di Po funzionava un veliero quindi si proseguiva a vapore fino a Pavia, mentre l'ultimo tratto da Pavia a Milano avveniva su barche che venivano alate sul naviglio. Tra il 1840 e il 1846 nel tratto Como-Milano-Verona e Venezia furono costruite le ferrovie “Ferdinandee” del Lombardo-Veneto che si posero in concorrenza con la nascente navigazione a vapore sul Po. Nel 1847 figuravano proprietari del diritto di navigazione sul Po i signori Tommaso Perelli e Paradisi che ordinarono presso i cantieri di Amsterdam un terzo piroscafo che venne battezzato Pio IX. La nave si trovava a Venezia per l'allestimento quando in Europa scoppiò la rivoluzione del 1848. Durante i moti risorgimentali, il piroscafo Pio IX cadde nelle mani degli insorti veneziani che lo armarono e dopo averlo ribattezzato Eridano, lo utilizzarono nella difesa di Venezia contro gli austriaci. Dopo la caduta di Venezia l'Eridano fu sequestrato dall'Imperial Regia Marina austriaca e utilizzato nella laguna. Al Conte Mocenigo che si era schierato dalla parte degli insorti nel 1848, gli furono sequestrate le navi. Il piroscafo Conte Mocenigo venne ribattezzato Innominata mentre il Contessa Clementina divenne Clementina. Dopo le esperienze militari della campagna 1848/1849, l'Austria voleva istituire sul Po un'affidabile linea di rifornimenti, ma nello stesso tempo voleva risparmiare i costi per la costituzione di una flottiglia. Perciò l'amministrazione imperiale si rivolse al Loyd austriaco, che il 28 marzo 1852 siglarono un accordo facendo nascere ufficialmente una nuova linea fluviale, che avrebbe trasportato passeggeri, merci e truppe lungo il fiume padano. I Loyd acquistarono dalla ditta Perelli, Paradisi & Co i piroscafi Innominata e Clementina che furono ribattezzati Cremona e Padova, quattordici chiatte a rimorchio e altro materiale. Presso i cantieri Chalons in Francia furono ordinati altri tre piroscafi: Piacenza, Pavia e Ferrara. La Escher Wyss & Co di Zurigo forni due navi passeggeri Modena e Parma mentre per i collegamenti sulla laguna i Loyd acquistarono dai cantieri di Amsterdam le navi Verona e Vicenza. Il trasporto passeggeri sul Po fu inaugurato dai Loyd il 31 maggio 1854. Il tratto Milano-Pavia veniva percorso su omnibus trainati da cavalli. Ci si rese subito conto che il trasporto passeggeri non poteva reggere alla concorrenza della ferrovia ed in breve divenne un esercizio in forte perdita. Il trasporto merci invece ebbe uno sviluppo fiorente tanto che nel 1855 i Loyd disponevano di oltre 90 tra chiatte a traino e piccole imbarcazioni sul Po e sul Lago Maggiore. Nello stesso anno il piroscafo Cremona fu posto in disarmo e le sue macchine furono riutilizzate nella costruzione del piroscafo Miramare. Nel 1858 a causa del numero dei passeggeri sempre più in calo, il trasporto passeggeri fu sospeso e i piroscafi Modena e Parma furono venduti alla Ddsg che li utilizzò sul Danubio con i nomi di Mercur e Juno, fino al 1928. Alla conclusione della seconda guerra d'indipendenza, nel 1861 1861 il piroscafo Piacenza con 10 chiatte a rimorchio fu trasferito sul Danubio dove i Loyd gestivano un collegamento sul basso Danubio fino a Galatz e Traila e nel 1862 fu venduto alla Serbia che lo mise in servizio col nome di Deligrad. L'anno seguente anche le navi Pavia e Ferrara iniziarono il loro servizio sul Danubio. Entrambe furono vendute nel 1865 dai Loyd alla neocostituita società aaber Dampfschiffahrtgesellschaf che le ribattezzò Orszagh e Deak Ferencz. Nel marzo del 1865 la nave Vicenza dopo essere giunta sul Danubio fu venduta a una ditta ungherese di Tolna, e ribattezzata Tona. Infine nell'estate del 1866 i Loyd vendettero anche i piroscafi Padova e Verona, ponendo definitivamente fine all'avventura fluviale sul Po iniziata dai patrioti sognatori di mezzo secolo prima.