Ritratto di Charles Dickens |
E'
una mattina fredda e umida di novembre quando un giovane scrittore
inglese nel pieno del successo, accompagnato dalla giovane moglie, da
uno stuolo di marmocchi, due governanti e un servitore di fiducia un
po' factotum, percorre con la sua carrozza un traballante ponte di
chiatte sul Po. Guarda con sguardo curioso ed accigliato l'acqua
limacciosa e Cremona che emerge dalla nebbia autunnale. Si è
riempito gli occhi nella bellezza di Venezia, ma quel viaggio tra
acquitrini e strade fangose, locande sperdute nella campagna, e
bambini cenciosi che ti circondano supplicanti per qualche moneta ad
ogni sosta, grassi osti con logori grembiuli e donne precocemente
invecchiate dalla fatica, gli sta mostrando quella faccia di
un'Italia che nessuno gli ha mai raccontato. Osserva, sballottato
dalla carrozza, e scrive qualche nota su un taccuino. Racconterà poi
tutto, con dovizia di particolari, nelle lettere che trascriverà in
bella copia la sera all'amico scrittore Douglas William Jerrold ed al
critico letterario John Forster, che sarebbe diventato poi il suo
biografo. Le lettere verranno poi pubblicate nel 1846 col titolo
Pictures
from Italy.
Charles
Dickens ha
trentadue anni ed è uno scrittore già molto popolare: al suo attivo
può contare Oliver
Twist, Il
Circolo Pickwick, Nicholas
Nickleby, La
bottega dell’antiquario,
Barnaby
Roudge.
Sta
scrivendo e pubblicando a puntate il Martin
Chuzzlewit che
però non sta ottenendo il successo di pubblico che si aspettava e
che risulta notevolmente inferiore a quello ottenuto dalle sue
precedenti opere. Giovane e famoso, Dickens ha anche raggiunto una
condizione economica più che agiata ma è continuamente assillato da
richieste di denaro da parte del padre, si trova in periodo
di impasse creativo,
è stressato. Spera, con questo viaggio, di recuperare tranquillità
ed ispirazione. Dickens viaggia con la moglie Catherine Hogard ed i
loro cinque figli: Charles, di 7 anni, Mary, di 6, Kate, di 5, Walter
di 3 anni ed il piccolo Francis Jeffery che non ha ancora compiuto
un anno. Lo accompagnano anche due babysitter e il suo servitore
tuttofare Louis Roche.
Il
16 luglio 1844 la carovana Dickens sbarca a Genova. Il soggiorno di
un anno è punteggiato dalle 130 lettere conservate nella Pilgrim
Collection che Charles scrive all'amico e agente John Forster, al
contabile Thomas Mitton, al Conte d'Orsay, all'artista Clarkson
Stanfield, al banchiere Emile De La Rue. Proprio al conte d'Orsay
aveva sommariamente descritto le sue intenzioni: “Ho riflettuto a
lungo sul da farsi e penso che starò tranquillo fino a quando non
avrò terminato il mio libro di Natale, cioè, all’incirca, fino a
metà ottobre. In novembre credo che mi muoverò con il mio servitore
per Verona, Mantova, Milano, Torino, Venezia, Firenze, Pisa, Livorno,
ecc. Tornerò per Natale, e resterò qui fino a tutto gennaio. A
febbraio penso che mi rimetterò in moto e prendendo il vapore per
Civitavecchia andrò a Roma, da Roma a Napoli e da Napoli all’Etna,
che desidero moltissimo vedere. Quindi mi propongo di fare ritorno a
Napoli per poi rientrare a Genova direttamente con il vapore. Per la
settimana di Pasqua ho in mente di tornare a Roma di nuovo, portando
con me mia moglie e sua sorella, questa volta”. Genova colpisce
Dickens per“l’inesplicabile
sudiciume”,“lo
sporco scoraggiante”,
i vicoli strettissimi, il disordine dappertutto, le puzze, anche se
in quel periodo è una delle città più pulite d'Italia. Affitta poi
una casa ad Abaro
in
cui soggiorna parecchi mesi ed anche qui le note parlano di rovina e
trascuratezza. In viaggio per Bologna
passa
per la “scura,
decadente, vecchia Piacenza”,
piena di erbacce sporcizia e pigrizia e da Parma.
F. Vertua, Veduta di Cremona, 1850 ca. |
E'
in questo tratto del viaggio che si inserisce la tappa a Cremona.
Dickens attraversa la pianura compresa tra Mantova e Cremona, per poi
andare a Lodi ed in seguito a Milano. Il viaggio è duro e faticoso e
così lo descrive in un reportage sul quotidiano londinese Daily
News. Dopo aver lasciato Mantova, “alle
sei di mattina eravamo già in cammino. I campanelli attaccati ai
finimenti dei cavalli tintinnavano al buio entro la fredda umida
nebbia che copriva la città... La
strada per Milano passa per Bozzolo “minuscolo stato indipendente
un tempo e ora tra le città più squallide e afflitte dalla miseria.
Qui il padrone della locanda stava distribuendo monetine di rame a un
clamoroso stuolo di donne e di bambini dagli abiti cenciosi che
svolazzavano al vento e alla pioggia fuori la porta, dov'erano
raccolti per ricevere la carità”. Poi “La strada continuò ad
allungarsi tutto quel giorno e il successivo in mezzo alla nebbia, al
fango, alla pioggia tra vigne basse. Il primo luogo in cui si poté
dormire fu Cremona, memorabile per le cupe chiese di mattoni e
l’altissima torre, il Torrazzo, a non dir nulla dei violini che
certo non produce più in questi tempi degeneri. Il secondo fu Lodi.
Proseguimmo attraverso altro fango, nebbia, pioggia, acquitrini;
passammo in mezzo a un nebbione quale gli Inglesi, irriducibilmente
convinti di avere l'esclusiva di malanni particolari, non riescono a
credere si possa trovare fuori Inghilterra, finchè non imboccammo la
strada a lastrico per Milano. La nebbia qui era così fitta che il
pinnacolo del famosissimo Duomo, per quel che si riusciva a
scorgerne, poteva anche trovarsi a Bombay. Ma siccome allora ci
fermammo solo qualche giorno e tornammo poi a Milano l'estate
successiva, io ebbi più d'una volta comoda occasione di vedere la
splendida fabbrica in tutta la sua maestà e bellezza”. A Milano
Charles Dickens arriva il 18 novembre. Nel mezzo vi è la tappa
cremonese, non sappiamo lunga quanto, ma certamente non più di due
giorni.
La
sera di sabato 16 novembre 1844 scrive da Cremona all'amico William
Jerrold: “Mio caro Jerrold, se mezza pagnotta è meglio di niente,
spero che anche questo mezzo foglio di carta che ti arriva da chi è
sinceramente desideroso di restare nella tua memoria e amicizia sia
meglio che non scriverti affatto. Avrei dovuto adempiere l'impegno
che mi ero assunto a questo proposito già da un bel po', ma ne sono
stato impedito ora dagli impegni, ora dal non avere a portata di mano
penna e inchiostro. Forster ti avrà detto, o ti dirà, che tengo
moltissimo a che tu venga alla mia lettura del breve Libro di Natale,
così spero di incontrarti a Lincolns Inn Fields, se risponderai alla
sua chiamata. Ho cercato di sferrare un colpo a quella parte della
faccia di bronzo della Malvagia Ipocrisia che mi sembra più
dolorosamente bisognosa di un complimento del genere in questo
momento. E confido che il risultato del mio sforzo sia quanto meno la
dimostrazione di un Vivo desiderio di farla vacillare. Se tu dovessi
pensare, dopo aver letto le quattro parti (non ve ne sono altre) che
la suddetta Ipocrisia, come si dice nella lingua delle Campane, «ne
esce col fiato corto», la cosa mi farà sentire molto meglio. Sono
adesso diretto a Milano da dove (dopo una sosta di un giorno o due)
intendo venire in Inghilterra per il più maestoso Passo Alpino che
la neve possa lasciare aperto.
Il posto da cui ti scrivo dovresti
conoscerlo: è famoso per i violini, o almeno lo era. Attualmente,
qui intorno, non ne vedo nessuno. In compenso c'è un'intera strada
di calderai poco distante dalla Locanda, che battono in modo così
dannatamente irregolare che poco fa, dopo mangiato, ho temuto per un
attimo
di avere le palpitazioni al cuore. Raramente mi sono sentito più
sollevato che dopo essermi reso conto che il battito non proveniva
dal mio interno”. Il giudizio di Dickens non ammette repliche:
l'ultimo liutaio, Gaetano Antoniazzi,
l’unico continuatore di Enrico Ceruti, si è trasferito a Milano
con i figli portandosi dietro le antiche tradizioni cremonesi e a
Cremona per la liuteria è iniziato quel declino che si arresterà
solo verso la fine del secolo con Pietro Grulli, Aristide Cavalli e
Giuseppe Beltrami ben lontani dalla dalle caratteristiche della
grande scuola classica. La strada dei calderai a cui Dickens fa
riferimento potrebbe essere molto probabilmente la Contrada del Corso
dove, effettivamente, vi era una fabbrica con ben nove dipendenti.
Un'altra bottega aveva sede in Contrada dell'Aquila, a poca distanza
dall'albergo del Sole d'Oro, in pieno centro città nei pressi della
chiesa di San Domenico. E, visto il riferimento alla scomparsa della
tradizione liutaria, le cui botteghe avevano sede nella piazzetta
antistante, l'alloggio dei Dickens potrebbe proprio essere
quest'ultimo.
John
Camden Hotten in “Charles Dickens: The Story of his life” (New
York, 1870) riporta altre due brevi lettere di argomento personale
scritte a William Jerrold sempre da Cremona, ma probabilmente il
giorno dopo, in cui accenna alla decisione di ritornare a Genova alla
volta del 9 dicembre, per fermarsi un'altra settimana prima di
rientrare in Inghilterra.
Dickens era stato a Venezia il 12
novembre e ne era rimasto affascinato, poi, come racconta nella
stessa lettera scritta da Cremona, si era trasferito a Verona e da
qui a Mantova. “Sono rimasto alquanto scosso ieri (non sono molto
forte in minuzie geografiche) nello scoprire che Romeo venne bandito
a sole venticinque miglia. Tale è la distanza fra Mantova e Verona.
Quest'ultimo è uno strano vecchio posto, con grandi case ormai
solitarie e chiuse, esattamente come ci si aspetta che sia. La prima
ha una gran quantità di farmacisti, tutt'oggi, che potrebbero
interpretare la parte shakespeariana al naturale. Di tutti i piccoli
stagni immobili visti finora, è il più verde e il più coperto
d'erbacce. Sono andato a vedere il vecchio Palazzo dei Capuleti
ancora contrassegnato da loro stemma (un cappello) scolpito in pietra
nel muro del cortile. Adesso è una locanda miserabile. Il cortile
era talmente pieno di carrozze, carri, oche e maiali da far girare la
testa:e si affondava nel fango e nel letame fino alla caviglia.
Il Giardino è murato e scorporato dal resto. Non c'è nulla che
facesse pensare ai suoi abitatori di un tempo, se non una signora
tutt'altro che romantica sulla porta della cucina, che somigliava a
una vecchia Capuleti per il solo particolare di essere davvero
imponente, come lo era stata la Famiglia. I Montecchi, invece,
solevano risiedere in campagna, a circa due o tre miglia da lì. Non
è molto chiaro se abbiano mai abitato nella stessa Verona, ma c'è
un Villaggio che porta ancora oggi il loro nome, e le tradizioni dei
litigi fra le due famiglie sono ancora vive come poche altre, in
questi sonnolenti dintorni”.
Che
la tanto sognata Italia avesse in parte deluso lo scrittore inglese,
già poco incline allo stupore romantico in seguito all'insuccesso
del nuovo romanzo “Martin
Chuzzlewit”,
pubblicato a dispense in quei mesi, lo si intuisce dalla ricerca di
particolari realistici dai tratti“noir”, in un'atmosfera
decisamente gotica costellata da mendicanti cenciosi, dai detriti
delle strade, dalla decadenza dei monumenti, dal grigiore del clima,
dai contrasti tra i grandi edifici e la desolazione delle città.
Tuttavia, nonostante l'ironia ed il sarcasmo che caratterizza la sua
distaccata osservazione al punto da segnalare quasi esclusivamente
gli
aspetti più negativi e ripugnanti, in una delle ultime lettere
quando, sulla strada del ritorno, percorre le Alpi svizzere, torna a
mostrare simpatia, ammirazione e umana comprensione per l'Italia:
“Separiamoci
dall’Italia, con tutte le sue miserie e i suoi errori,
affettuosamente: nella nostra ammirazione delle bellezze naturali e
artificiali di cui è piena fino a traboccarne e nella nostra
tenerezza verso un popolo per la sua indole ben disposto, e paziente
e mite. Anni d’incuria, d’oppressione e di malgoverno hanno
esercitato la loro opera per cambiare la natura e piegarne lo
spirito; meschine gelosie – fomentate da principi insignificanti
per i quali l’unione significava la scomparsa – e la divisione
delle forze, sono state il cancro alla radice della loro nazionalità
e hanno imbarbarito il loro linguaggio; ma il buono che è sempre
stato in loro è ancora in loro, e un grande popolo può, un giorno,
sorgere da queste ceneri”.
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