Pier Leone Ghezzi, la Commedia dell'arte (1674-1755) |
Vincenza Armani era una delle donne più
affascinanti del suo tempo. Può sembrare strano che la notizia della
sua misteriosa morte a Cremona non venisse registrata dalle cronache,
ma in quei tempi non doveva essere così raro l'utilizzo di mezzi
estremi per liberarsi di rivali in amore o nell'arte e di personaggi
politicamente scomodi. Dobbiamo pertanto solo all'elogio funebre dato
alle stampe dal suo ultimo compagno d'arte ed amante, Adriano
Valerini, se la tragica scomparsa di una donna così anticonformista
per i suoi tempi, non è passata sotto silenzio.Vincenza è
un'attrice, bellissima e di straordinario fascino e bravura, figlia
di attori girovaghi, una delle prime donne protagoniste della
Commedia dell'Arte. La sua fama ha varcato ormai i confini di
Venezia, dove è nata verso il 1530, tanto da essere ricercata
ovunque e da esser annunciata con colpi d'artiglieria e fuochi
d'artificio quando arriva in qualche città per calcarvi le scene. E'
ormai entrata nell'immaginario collettivo come la Marilyn Monroe del
suo tempo. Nulla la può fermare e nessuna può gareggiare con lei
per la prorompente bellezza, l'ammaliante fascino e la straordinaria
bravura. Neppure l'altra grande attrice celebrata dal Vasari, Barbara
Flaminia, a cui Giorgio dedica alcuni dei suoi rari sonetti e per la
quale a Mantova si costituisce addirittura un partito che la sostiene
nel confronto con Vincenza, nella stagione tra l'estate del 1567 e la
primavera del 1568. Una cavalcata inarrestabile verso il successo
fino a quell'11 settembre 1568.
Era circa un mese che la compagnia dei
“Gelosi” di cui faceva parte Vincenza Armani, dove recitava anche
il compagno della donna, il conte veronese Adriano Valerini, teneva i
suoi spettacoli a Cremona. Vi era giunta con ogni probabilità dopo
il 5 agosto, quando aveva presentato un'ultima recita a Mantova. Ed è
appunto al duca Guglielmo Gonzaga che il 15 settembre giunge la
lettera di un certo Gandolfo che lo informa della morte dell'attrice
"atosegata
in Cremona" qualche giorno prima. Non si saprà mai chi sia
stato ad avvelenarla. Si parlò di un amante respinto, ma non è
escluso che potesse essere stata anche un'attrice rivale. Cremona in
quegli anni, insieme a Milano e Pavia, rientrava a pieno titolo negli
itinerari preferiti dalle prime compagnie di comici dell'arte, anche
quelle più affermate, e Milano, in particolare, rappresentava
un'ottima possibilità di sosta e di guadagno per i gruppi di attori
che si spostavano tra i due poli estremi di Parigi e di Firenze.
Prima del sorpasso operato dal melodramma, le compagnie dei “Comici
fideli milanesi” dei “Gelosi”, degli “Uniti”, ed “I
Fedeli” erano spesso invitate dagli stess igovernatori e parecchi
di questi attori ed autori pubblicavano a Milano o Pavia i testi per
ricordare le loro rappresentazioni teatrali o per reclamizzare quelle
future, dimostrando anche i buoni rapporti con l'aristocrazia e
l'ambiente culturale e artistico del tempo. Tra il 1573 ed il 1575 a
Milano, Cremona e Pavia si tennero le prime rappresentazioni di
comici “confidenti nell'indulgenza del pubblico” come dimostra
una richiesta al governatore de Ayamonte dell'8 giugno 1574 da cui si
deduce che fin dall'anno precedente questo gruppo godesse di una
sorta di monopolio nello spettacolo girovago. E da Cremona, dove
aveva recitato nel 1574 nel ruolo dello Zanni, G.B. Vannini chiedeva
che venisse trasferito a Milano un processo che lo vedeva coinvolto
per favoreggiamento. (A. Coscetta- R.Carpani, La scena della gloria.
Drammaturgia e spettacolo a Milano in età spagnola, 1995, p. 277).
Adriano Valerini |
La
fine di Vincenza Armani è dunque descritta con dovizia di
particolari da Adriano Valerini che, per lei, aveva lasciato la
famosa Lidia Bagnacavallo, alle cui grazie, però, sarebbe tornato
subito dopo. “Cominciò sul mezzogiorno ad apparir nel suo bel
corpo segno evidente di morte; - racconta nella sua orazione funebre
pubblicata nel 1570 - le serene luci, già delle Grazie e d’Amor
nido, languidette divennero, si scolorò il bel viso, e d’atra
nebbia si ricoperse l’aria del volto; dalla intatta neve delle mani
partissi ogni vital calore, e fredde le lasciò vie più che
ghiaccio; caddero i vaghi fioretti delle guancie, e le vermiglie rose
della bocca pallidette rimasero. Ond’ella, posto oggimai nella
soglia della morte il piede, aperse i chiusi lumi e in me fisi
volgendogli, come quasi volesse dell’ultimo suo sguardo bearmi,
quella medesima soavità mi discese indi nel cuore, ch’altre volte
vi cadde, quando benigni in me gli girava Amore. I raggi de
quest’occhi, benché vicini a rimanere estinti, risplendeano come
lucerna che far gran lume suole su ‘l finire; e col pietoso
scintillar che a poco a poco venia meno presero licenza, finché una
minima favilla arder ve ne fu vista da gli occhi miei che non
cessavano di bagnarle il viso e ‘l seno, quasi pensando con tale
umore ravivar i secchi fiori nel volto, che Morte con ingorda mano
andava cogliendo, per tesserne al suo crine ghirlanda immortale.
Ella
con le parole dolcissime ancora cercava di consolar il mio duolo, e
stendendo le gelate mani m’asciugava le lagrime con un velo, co’l
quale aveva anco asciugate le sue che per pietà del mio pianto
spargea, che a gli occhi miei non lagrime, ma cristalli e diamanti
sembravano. Al fine l’Alma, tutta in un lieve sospiro accolta, per
dipartirsi stando su le labra, mi suonò nell’anima tai parole:
Adriano, restati in pace, io me ne vado, a Dio; e quivi al sempiterno
silenzio la bocca chiuse, e forono allora sepolti i concenti d’ogni
dolcezza”.
Il
tentativo di Valerini di mitizzare la donna non deve far dimenticare
quale fosse, in realtà, la considerazione di cui godevano le prime
attrici della Commedia dell'arte, ritenute spesso alla stregua di
prostitute o, nella migliore delle ipotesi, cortigiane acculturate,
una sorta di geishe del loro tempo. Le donne che si esibiscono per
denaro, seppur, come nel caso di Vincenza, a livelli altissimi e con
indiscussa preparazione culturale, sono oggetto di invettive e le
loro commedie sono ritenute per decenni delle tentazioni peccaminose
per il pubblico maschile, come scrive, ancora nel Seicento, de
Mendoza, fantasticando su quanto possa accadere dietro le quinte:
“Gli uomini sono dei giovani
sfrenati, che pensano giorno e notte agli amori e imparano a memoria
poesie amorose; le donne poi sono sempre, o quasi sempre spudorate.
La coabitazione è libera, senza che le donne stiano per conto loro
in camere da letto separate; perciò gli uomini le vedono sovente
vestirsi, spogliarsi, pettinarsi; ora a letto, ora mezze nude; e
sempre intente a parlare fra loro di cose lascive. Le donne sono
spesso meretrici che fanno il mestiere a pagamento: e sulla scena
spesso s’incontrano e l’uomo spoglia la donna e la veste, perché
ella, senza perdere tempo, possa assumere nella commedia ruoli
diversi. [...] In teatro raccontano gli amori dei personaggi su cui
verte il la- voro teatrale e questi amori detti fra uomo e donna sono
dardi infuocati. Costoro perché non dovranno fare sul serio in una
stanza da letto ciò che a teatro fanno per ischerzo? Per le donne
si aggiunge un altro pericolo per niente più lieve: spesso esse
sono straordinariamente belle, eleganti nel portamento e nelle vesti,
di facile parola, spiritose, abili nella danza e nel canto, esperte
nell’arte della recitazione. E tutto ciò trascina gli spettatori
alla libidine, sicché accade che molti se ne innamorano alla
follia”.
Ovviamente,
anche se trasfigurata dal suo amante come fosse la Beatrice dantesca
o la Laura del Petrarca, la tragica scomparsa di Vincenza, avvelenata
a Cremona, non sfugge a questa classificazione e, di conseguenza, se
non fosse stato per gli sforzi di Adriano di eternarne il ricordo,
noi oggi forse sapremmo molto meno di questa straordinaria attrice.
Era sicuramente protetta dal marchese Federico Gonzaga di Gazzuolo,
che non perdeva occasione di seguirla ovunque andasse a recitare. Era
nata a Venezia intorno al 1530 da una famiglia di attori girovaghi
originaria di Trento, che tuttavia le avevano impartito una
approfondita educazione, se dobbiamo prestare fede alle parole del
suo amante, secondo cui sarebbe stata
"retore insigne, musica sublime, ...da se componeva i madrigali
e li musicava e li cantava; suonatrice soavissima di vari strumenti,
scultrice in cera valentissima, faconda e profonda parlatrice, e
comica eccellentissima". Già a quindici anni possedeva
perfettamente la lingua latina oltre all'italiana, e il suo debutto a
Modena fu talmente eccezionale da lasciare l'uditorio, composto in
massima parte da "letterati di grido", completamente
sbalordito. In seguito, "l'Accademia degli Intronati di Siena
disse più volte che quella donna riusciva meglio assai parlando
all'improvviso, che i più consumati autori scrivendo pensatamente".
Sempre Valerini riferisce che Vincenza recitava "in tre stili
differenti: in commedia, in tragedia, e in pastorale". Nelle
pastorali "da lei prima introdotte in scena", nelle quali
sembra mostrasse eccezionale abilità, inseriva macchinosi intermedi
in cui sosteneva le parti di Minerva, Mercurio, Venere e Apollo; in
esse recitava nel ruolo di Clori, mentre nelle commedie amatorie si
faceva di solito chiamare Lidia.
Nell'elogio
funebre Valerini ci fornisce l'elenco delle città in cui Vincenza
aveva recitato, probabilmente nella compagnia dei “Gelosi”: “in
Roma, in Fiorenza, in Siena, in Luca, in Melano, in Brescia, in
Verona, in Vicenza, in Padova, in Venezia, in Ferrara, in Mantoa, in
Parma, in Piacenza, in Pavia, in Cremona, ed in altre Città, nelle
quali tutte è rimaso il nome delle sue virtù impresso nelle umane
menti, e i dolci accenti della sua voce risuonano ancora
nell’orecchie di ciascuno, e se dir volessi i miracolosi effetti
del suo bel ragionare, e quanti ella traesse ad amarla, e riverirla,
vi converria longhissima istoria. Tacerò
che nell’arrivar che faceva in molte Città si sparava
l’artiglieria per l’allegrezza della sua giunta o del suo
ritorno, ed i prencipali della terra le venivano
all’incontro, ed i dotti venivano da lei come da un vivo Sole ad
illuminarsi la mente da molti dubbi ch’avevano intorno a questioni
filosofiche, e specialmente amatorie”.
Una compagnia della Commedia dell'arte |
Sicuramente
era una donna di grande bellezza, al punto da essere celebrata da
molti poeti del tempo come Giovanni
Saravalle, Giacomo Mocenigo, Giovanni Acciaiuoli, oltre
naturalmente da Adriano Valerini che così la descrive: “Era
la Signora Vincenza di statura piuttosto grande che no, e con tanta
proporzione e conveniente misura eran situate le belle membra, che
cosa sì ben composta altrove non fu vista mai; aveva del virile nel
volto e ne i portamenti, onde se tallora in abito di
giovanetto
si mostrava in Scena, non era alcuno che Donna l’avesse giudicata;
aveva i capei lunghi di finissim’oro, alcuni in trecie avolti,
alcuni negletti ad arte givan vagando ne i margini della fronte e,
benché fosser sciolti, legavan però più fortemente i cori; la
fronte come alabastro lucida e tersa sembrava quella parte di puro
argento che nella Luna si vede, quando la circonferenza non ha ben
compita ancora; le sottili e nere ciglia, da giusto intervallo
divise, facevan sovra l’uno e l’altro occhio un arco che a’
loro sguardi aventava fiamma e foco: in queste ciglia, anzi che Morte
facesse di lei l’ultimo scempio, scopersi io come Amor volse più
volte tanta pietà de’ miei martiri, che fiera cagione mi porge
ora di sospirarne la perdita che n’ho fatta così immatura.
Nasceva il profilato naso da i confini delle ciglia scendendo per
mezzo il volto con debita convenienza; fiammeggiavano gli occhi a
guisa de Zaffiri ne i quali irraggi il Sole, e tra ‘l bianco e ‘l
nero avean tanta vaghezza volgendosi, che ad ogni lor giro facean
preda de mille cori: quelli or pii or minaccianti e severi movendo,
avea dell’Anime l’impero, e mentre or pace or guerra alle genti
indisse, parea che gli sguardi di Venere e di Marte avessero la forza
e gli effetti. Ogni minimo cenno de quest’occhi, quando mansueti
giravano, stillava tanta soavità ch’era ad ubidirgli astretta
ogni ferma voglia, e come aperta favella avessero, davano ad uno
sguardo solo ad intendere ogni concetto dell’animo; e come fidi
messaggieri del core con sì grato silenzio non solamente parlavano,
ma con benigna udienza ricceveano gli sguardi in vece de prieghi e de
parole altrui, e così della lingua e dell’orecchie facevano
l’ufficio. Con un sol moversi dunque scoprivano ogni voglia, or
sfavillanti, or ridenti, or lusinghevoli ed or altieri; e se tallora
rugiada di pianto versavano, più belle lagrime non fur viste mai,
ed a queste potevan ceder quelle che l’Aurora sparse al misere- voi
caso del suo diletto figlio. Le guancie, nella calda ed animata neve
rosseggiando senza arteficio alcuno, eran de vaghi fioretti dipinte;
la bocca, anzi il Paradiso, chiuso da due preziosissime porte de
rubini e de perle, non solo alla vista porgeva contentezza estrema,
ma all’udito ancora, mentre le accorte parolette e l’angelica
armonia del canto mandava fuori”. L'immagine, inutile negarlo, di
una diva.
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