sabato 29 febbraio 2020

Il sogno della Silicon Valley

De Gasperi a Ripalta Cremasca
Settant'anni fa nasceva il sogno della silicon valley padana, quando sembrava che il petrolio potesse sgorgare a fiumi ovunque si iniziasse a trivellare. A fantasticare sul nuovo Texas aveva contribuito la scoperta del giacimento di Cortemaggiore, avvenuta il 19 marzo del 1949, quando dal pozzo n.1, fortemente voluto da Enrico Mattei, insieme al metano era iniziato a sgorgare anche petrolio, un petrolio molto leggero e di grande qualità, ma in quantità modestissima, dieci tonnellate al giorno. Da quel momento si scatena la corsa all'oro nero. E così quando, un anno dopo, agli inizi di marzo del 1950 un gruppo di ragazzi, giocando tra le buche lasciate dalle bombe della guerra nei campi della ferrovia confinanti con via dei Platani, trova nel terreno alcune conchiglie fossili, mai ritrovate prima in città, ma comunissime a Castell'arquato, il pensiero corre subito a Cortemaggiore. Sono fossili di forma quasi circolare, del diametro di sette ed otto centimetri, che il titolare della cattedra di geologia dell'Università di Parma classifica come “pettini” e “spondili”, con un particolarità: normalmente, nel punto del loro ritrovamento, sono presenti, seppur a ragguardevole profondità, giacimenti petroliferi. Ce n'è a sufficienza per suggerire un sondaggio nella zona. L'entusiasmo si accresce quando il mese successivo il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi giunge il 24 aprile nel massimo riserbo all'impianto metanifero che l'Agip ha nel frattempo installato a Ripalta Cremasca. Lo accompagna una piccola, ma autorevole, delegazione di cui fanno parte il ministro Vanoni, il sottosegretario Clerici, il vicepresidente dell'Agip Mattei ed il prefetto di Milano. Provengono da Lodi, dove i tecnici della Società Italiana Petrolifera hanno illustrato i lavori in corso per la ricerca degli idrocarburi nella Valpadana tra Caviaga, Ripalta Cremasca e Cortemaggiore. De Gasperi visita minuziosamente i tre pozzi già esistenti ed i sondaggi in corso lungo la statale per Piacenza, tra Ripalta e Montodine e la rete di tubazioni in fase di installazione. Il giacimento cremasco è in grado di fornire 250 mila metri cubi di metano al giorno; la sonda n.1, già in produzione, immette nella rete da 100 a 150 mila metri cubi, convogliati agli stabilimenti di Dalmine e Crema con il metanodotto Caviaga-Dalmine. La stessa quantità viene fornita dalla sonda n. 2. I pozzi scendono ad una profondità di 1700 metri, mentre le trivelle sono arrivate a 1952 metri, dove hanno incontrato la falda. Si diffonde la voce secondo cui in una zona di circa 20 chilometri quadrati vi siano riserve di metano calcolabili in circa 150 miliardi di metri cubi, ma in realtà la segreta speranza è che vi possa essere anche il petrolio. Si pensa che a luglio possano già iniziare i lavori per la messa in opera del metanodotto per collegare Cremona, Casalbuttano, Soresina e Caviaga con tubi di 30 centimetri di diametro con una portata di due miliardi di metri cubi al giorno forniti dalla Dalmine, secondo il progetto dell'ingegner Carlo Zanmatti, convinto più che mai che la pianura padana trabocchi di metano e non del petrolio che sta cercando Mattei. I tubi, frattanto, iniziano a confluire a Cortemaggiore, da dove partirà il metanodotto lungo 140 chilometri. Agli inizi di giugno lungo la strada da Cremona a Cortemaggiore compaiono giganteschi cartelli che annunciano l'inizio dei lavori alla conduttura destinata a collegare la cittadina emiliana a Caviaga: una grande macchina scava la trincea profonda due metri al ritmo di tre chilometri al giorno, coadiuvata da 40 operai e si pensa che nel giro di poche settimane la tubatura possa arrivare a Cremona, dove una colonnetta installata a porta Milano, all'imbocco di via Ghinaglia, servirà a rifornire gli autoveicoli. Agli inizi di agosto il metanodotto, quasi completamente saldato, si affaccia alla sponda piacentina di fronte alla punta del Cristo di Spinadesco: in 90 giorni ha percorso quasi venti chilometri, un “record” per la ditta appaltatrice, la Montubi di Milano. Sul fronte opposto la rete è già arrivata a Casalbuttano, ed è pronta a congiungersi con l'altro tronco emiliano.

Ma a complicare le cose il 3 ottobre inizia improvvisamente ad eruttare metano e petrolio il pozzo 18 di Cortemaggiore. I tecnici si affrettano a tranquillizzare la popolazione, ma di fatto: “A Cortemaggiore, per un vasto perimetro, non si fuma. Chi fuma è soltanto lui, l'anarchico pozzo che, con un rombo da elettrotreno che passa sopra un ponte di ferro, emette esattamente da cinquanta ore una nuvola ininterrotta che ricorda vagamente l'atomica di Bikini. E' come un'enorme pompa del «flit» rivolta verso il cielo: sul paese incombe una caligine densa, un cocktail fatto di gasolina, petrolio, fango, il tutto fortemente agitato e presentato con il caratteristico odore di uova marce del metano: qui tutto sa di metano. L'aria, gli abiti, le automobili. I vigneti e le coltivazioni ormai irreparabilmente danneggiate, gli ingegneri dell'Agip, le cose e le case” (La Provincia, 7 ottobre 1950, p. 3). 
L'incendio del pozzo 21
La notte del 1 dicembre una nuova serie di esplosioni sveglia la città, e sinistri bagliori illuminano il cielo di Cortemaggiore, seguiti ben presto dal cupo ronzio che indica la fuga del metano. Ancora verso le 9 di mattina si può osservare in lontananza la lunga lingua di fuoco che si alza verso il cielo. Viene vietato l'accesso al Torrazzo, dove la gente fa la ressa per salire ad osservare lo spettacolo e verso sera il rosso del cielo infuocato si confonde con i colori del tramonto. E' scoppiato un secondo pozzo, il n. 21 di Bersano di Besanzone: la forte pressione del metano mescolato al petrolio ha fatto saltare l'intero sistema delle valvole di sicurezza, posto a milleduecento metri di profondità, proiettando in superficie anche un frammento di tubo che, urtato con estrema violenza il traliccio metallico della torre, ha causato una scintilla da cui si è propagato l'incendio dell'intero pozzo. Per spegnerlo bisogna scavare una galleria il più vicino possibile al pozzo, scendendo per una trentina di metri fino a raggiungere la tubatura, vi si applica poi una carica esplosiva che, una volta fatta brillare, provoca la rottura del tubo ed il suo riempimento di terra, sufficiente a domare il fuoco. Una sola persona al mondo è in grado di farlo, è mister Kinley. Frattanto, “dopo il tramonto, lo spettacolo sembrava da tregenda. In un cielo rosseggiante, si levava ruggente l'immensa fiamma, alta una quarantina di metri e larga cinque o sei. E secondo che la pressione diventava più o meno forte, la lingua di fuoco si alzava e si abbassava, sembrava languire per poco, poi si ravvivava sempre più minacciosa. E il ruggito pauroso del gas in fuga, copriva ogni altro rumore e rendeva impossibile a coloro che guardavano assorti e un poco spauriti, di scambiarsi l'un l'altro le proprie impressioni. E in quel cielo livido del calore del sangue, in quel cielo sereno e senza nebbia, non si vedeva una stella. Perchè la luce irradiata da quel rogo di petrolio, era tanto intensa, da coprire il bagliore degli astri. In certi momenti il cielo aveva la stessa luminosità e le stesse sfumature d'uno di quei rossi tramonti d'estate che sono una delle caratteristiche dei cieli meridionali” (La Provincia, 2 dicembre 1959, p. 5). La mattina del 4 dicembre mister Kinley si presenta puntuale al pozzo di Cortemaggiore dopo aver viaggiato in aereo l'intera notte, indossa una tuta d'amianto con la maschera protettrice ed inizia a girare attorno all'immensa colonna di fuoco: “è sempre accigliato. O, meglio: sempre triste. I suoi occhi, come le sue labbra, non sorridono mai. Si direbbe quasi, che l'ira contro il ruggente suo nemico naturale, si rifletta perennemente sul suo volto”. Per tutti a Cortemaggiore è ormai “Mangiafuoco”: prima di tutto fa rimuovere le macerie della torre, oramai ridotte a metallo fuso, mentre i vigili del fuoco di Piacenza versano materiale antincendio sui roghi sparsi all'intorno. Se tutto andrà bene per spegnere il pozzo ci vorranno almeno venti giorni. In realtà la previsione è ottimistica. Dal 9 dicembre il pozzo inizia ad eruttare polvere e sabbia, i pozzi d'acqua gorgogliano per le infiltrazioni di gas che hanno raggiunto la falda, mentre un getto di metano e petrolio fuoriesce dalla conduttura, lesionata da un'altra esplosione, infiltrandosi nel terreno fino a provocare il franamento della bocca del pozzo, che raggiunge in questo modo un diametro di ben 28 metri ed una profondità di 14 inquinando la falda. Grandi masse di poltiglia vengono proiettate lungo la colonna di fuoco, evaporando nel giro di qualche secondo, per poi disperdersi nelle campagne oscurando la luce del sole. Le nubi biancastre del vapore acqueo si sollevano dalle pozzanghere. Una scena apocalittica di fronte alla quale mister Kinley da forfait, sconfitto dall'incendio. Se ne va annunciando che il pozzo brucerà per almeno venticinque anni. Ma i tecnici della Società Santa Fè di Los Angeles, che ha l'appalto del pozzo, non si danno per vinti. Decidono di scavare un pozzo trasversale che raggiunga la profondità di quello in fiamme, sulla base dei dati tecnici forniti dal tecnico Edward Ferry: partono da un punto distante 170 metri dal pozzo incendiato, scavano fino alla profondità di 890 metri un pozzo perfettamente verticale e dal quel momento iniziano a scavare in senso obliquo sino ad una profondità di 1300 metri, immettendo nel foro tubi di materiale progressivamente più solido. Quando la distanza tra i due pozzi è ridotta ad un diaframma di circa un metro, con quattro pompe vengono scagliati potentissimi getti d'acqua a forte pressione che in breve hanno ragione del diaframma, permettendo discaricare nel pozzo 21 enormi cisterne di fanghiglia biancastra relativamente fluida, contenente sostanze chimiche antincendio, che nel giro di sette ore riesce a spegnere il fuoco. Sono le 7 del 6 febbraio 1951. Per vincere l'incendio ci sono voluti 63 giorni. Tutto torna come prima, l'incidente viene presto dimenticato, ed il 18 luglio 1951 giunge la notizia tanto attesa. Mentre il pozzo 21 continuava a bruciare, i tecnici dell'Agip avevano già effettuato sondaggi a Costa Sant'Abramo, tanto da spingere il quotidiano locale ad affermare che “se, come è probabile, la realtà si mostrerà all'altezza dell'aspettativa, la nostra città diverrà il più importante centro di produzione e di lavorazione del petrolio di tutta quanta la penisola”. Da una trivella giunta a duemila metri di profondità nelle campagne intorno a Castelverde, scaturisce improvvisamente prima una nube di bario e poi subito dopo, con un sibilo assordante, il metano. Mentre il metanodotto è sempre fermo sulle rive del Po. Ma basta questo per sollecitare la fantasia con le promesse di un nuovo Eldorado e di una nuova età dell'oro che possa risolvere il problema endemico del dopoguerra, la disoccupazione. E la paura che l'oro nero possa finire altrove, sottraendo le royalties a cui si pensa di aver diritto: “Hanno trovato il metano a Costa Sant'Abramo e siamo convinti presto lo troveranno in quasi tutta la provincia di Cremona. Tuttavia a quanto pare tale ben di Dio dovrà emigrare per altri lidi. Noi forse vedremo i tubi, forse saremo molestati dalle esalazioni ma nessun beneficio tangibile dovrà venire alla nostra provincia. Infatti tra i «pallini» di chi dirige le questioni del metano vi è anche quello di vendere tale gas allo stesso prezzo sia a Cremona, sia a Napoli, dimenticando che qui c'è la produzione, mentre a Napoli bisogna portarvelo con un tubo di un migliaio di chilometri! Sarebbe in somma come se ci mettessimo in mente di far coincidere il prezzo di vendita del carbone a Cardiff con quello di Milano, ed i prezzo dei limoni a Palermo con quello degli stessi a Stoccolma. Ognuno ha il diritto sacrosanto di godere di quello che l natura e Dio gli hanno elargito, giacchè non ci consta che ad esempio il Chili importi dall'estero concimi azotati per regalare agli altri i suoi nitrati. Orbene tutto lascia credere che approfittando del buon carattere dei cremonesi si cerchi di sottrarre loro una ricchezza che loro spetta senza dubbio” (La Provincia, 3 agosto 1951, p. 2). Che cosa fare dunque di tutto questo metano? Una centrale elettrica, innanzi tutto, una fabbrica di concimi azotati, nitrati, che oltre ai concimi, servono anche a preparare esplosivi con cui “sarebbe potenziata anche la difesa della nazione”, acetilene e isoprene: “Risolveremmo di colpo il problema della disoccupazione, verrebbe dato un lavoro notevole al porto fluviale, ed infine pure la nostra città raddoppierebbe il numero dei suoi istituti con relativo sviluppo edilizio. Tutto ciò si sintetizza in una parola sola: «Prosperità»”. Il metano arriverà in città solo alle 10 di mattina dell'11 aprile 1952.

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