Cremona nel Seicento |
Il
preside del liceo Alessandro Volta di Milano, Domenico Squillace, ha
scritto ai suoi studenti ricordando quanto accadde a Milano in
occasione della peste manzoniana del 1630, da cui trarre insegnamento
per una lettura obiettiva del presente. Qui vi raccontiamo cosa
accadde a Cremona attraverso le pagine di Giuseppe Bresciani,
testimone diretto di quella tragica epidemia.
“Si
scuoperse la peste nella città, che perciò si fecero grandissime
diligenze da ss.ri Prefetti della Sanità, quali ellessero due
nobili per ogni Parochia acciò sopraintendessero all’infermi,
all’immonditie delle case, strade, et a’ poveri della città e
quelli mandassero a luochi destinati. Fu serrato due porte della
città, cioè Ogni Santi et la Mosa, con ordini novi per ricevere
le bolette alle porte”. E' il 18 marzo 1630 e Giuseppe Bresciani
con queste poche e drammatiche righe annuncia l'arrivo a Cremona
dell'ultima delle grandi pestilenze. Bresciani, nel suo manoscritto
Memorie delle cose occorse me
vivente nella città di Cremona quivi descritte di anno in anno,
trascritto
recentemente da Emanuela Zanesi, è il testimone fedele del flagello
descritto qualche secolo dopo da Alessandro Manzoni nei Promessi
Sposi e
nella Storia della colonna
Infame. Lui
stesso ne verrà colpito, ma sopravviverà alla decimazione della sua
famiglia. Il contagio arriva a Cremona almeno sei mesi prima che a
Milano ma era già stato annunciato verso la fine dell'anno quando,
il 15 dicembre, “Furono mandati gentil huomini alle porte della
città, due per porta, per li sospetti di peste portata dai Tedeschi
in Italia, et si faceva guardia al intorno alla città. Qual s'era
scoperta a Casalmaggiore et a Viadana”. Le “bolette” da
presentare alle porte altro non erano che dei lasciapassare
predisposti a stampa dove era indicata la località di provenienza, a
cui erano aggiunte a mano delle note con le
caratteristiche fisiche del destinatario del documento e la
descrizione delle merci trasportate con la data di rilascio, anche
questa scritta rigorosamente per esteso e non con carattere numerici,
per impedirne la falsificazione. I “Tedeschi” a cui fa
riferimento Bresciani sono i Lanzichenecchi, mercenari al servizio
dell'imperatore Ferdinando II d'Asburgo alleato della Spagna nella
guerra per la successione al Ducato di Mantova, finito per via
ereditaria, dopo la morte di Vincenzo II Gonzaga, ad un suo nipote
francese, Carlo duca di Nevers e Réthel, sostenuto dalla Francia.
Agli inizi di giugno del 1629 l'imperatore
raduna nella regione di
Lindau, presso il lago di Costanza, tra i sei e gli ottomila
cavalieri e 36.000 fanti guidati da Johann Aldringen signore di
Roschitz e dal feldmaresciallo imperiale Rambaldo XIII conte di
Collalto. Il governatore spagnolo di Milano Gomez Alvarez di Figueroa
e Cordoba duca di Feria, non concede però il transito ai 22.000
fanti e 3.500 cavalli che scendono dalla Valtellina e rimangono
quindi acquartierati presso Chiavenna fino all'autunno del 1629. E'
qui che si sviluppa inizialmente la peste uccidendo un terzo della
popolazione, pari a circa 10.000 abitanti. Per la sua diffusione 34
uomini e donne sono incolpati di stregonerie e giustiziati con il
permesso del vescovo di Como.
Mercenari Lanzichenecchi |
I Lanzichenecchi quindi invadono il
ducato di Mantova, trascinando con sè il contagio che, in primavera,
arriva a Cremona. Per affrontare l'epidemia agli uffici deputati da
secoli a garantire l'igiene pubblica, vengono affiancati gli Uffici
di Sanità con il compito di redigere norme rigorosissime destinate a
regolare la vita della comunità durante la pestilenza e comminare ai
trasgressori le relative pene, sia pecuniarie che corporali.
Tuttavia, in un periodo in cui si attribuisce ancora a tutti i
fenomeni incomprensibili, come potevano essere le epidemie,
un'origine soprannaturale, la prima reazione è quella di ricorrere
alla preghiera per scongiurare il castigo divino. Scrive Bresciani:
“Nella Santa Casa di Loreto a Santo Abbondio si fece orationi
particolari acciò Iddio Nostro Signore ne concedesse la sua santa
misericordia e ne perdonasse li nostri peccati, si come fecesi in
altre chiese ancora. Fu condotto nella città una gran quantità di
formento, qual fu mandato dal Governatore dello Stato per sussidio de
poveri cittadini”. Durante tutta la primavera si susseguono senza
sosta le funzioni religiose: si inizia il 2 aprile nella chiesa di S.
Agostino, dove esiste un altare dedicato a San Nicola da Tolentino,
“per la peste che serpeva in città con grandissimo concorso di
popolo” e con la distribuzione di pani benedetti. Nel frattempo,
però, viene pubblicato un editto “stampato ai poveri et vagabondi
quali furono tutti condotti oltre il ponte di santo Lazzaro al
osteria del Moro per esser luogo molto grande”. Pur ignorando
l'esatta origine del contagio gli Uffici di Sanità hanno chiaro che
mendicanti e vagabondi sono potenzialmente portatori del morbo a
causa del loro girovagare, e vittime principali della penuria di
generi alimentari e dei cenci con cui si vestono, in cui si annidano
i parassiti. Decidono di conseguenza di relegarli in una zona posta
fuori dalle mura, oltre il ponte di San Lazzaro, alla locanda del
Moro, in un edificio molto grande che sia in grado di contenere tutti
quanti, vittime della carestia causata dal flagello pestilenziale,
era confluiti nella città dalle località del territorio
circostante, sottoposto a pericoli di contagio, in cerca di riparo e
sussistenza. Fin dal 1511 era stato costruito un lazzaretto in un
luogo isolato, ma facilmente raggiungibile lungo la strada alzaia del
Naviglio civico, su un terreno appartenente al Consorzio della Donna.
L’edificio, era dotato di una cinquantina di stanze, con due
cappelle, di cui una dedicata alla Beata Vergine delle Grazie, ma
evidentemente non è sufficiente a contenere i contagiati dalla nuova
epidemia. Dalle parole del Bresciani si può ricavare la forte
impressione che esercita sulla popolazione, sempre più spaventata
dal contagio, l'imponenza delle celebrazioni, a cui concorrono
l'intera città e gli ordini religiosi. “Maggio.
Nel principio di questo mese quasi in tutte le chiese parochiali
della città si cantorono messe dello Spirito Santo con musiche
acciò nostro Signore ci liberasse dal mal contagioso o tanta
afflitione in parte solevasse. 12 detto Nella Chiesa
Cathedrale fu cantato una messa solenne con musica et dopo la Santa
Messa fu fatto una Processione generale dove si portò la statua di
santo Roccho, essendovi tutte le confraternite religiosi, sì
secolari come regolari, e tutto il clero con l’ill.mo signor
Cardinale Vescovo, la Curia et Magistrato della città, con il
concorso di tutto il popolo, andando li reverendi Padri con capuzzi
in testa cantando li sette salmi penitentiali. E fra detti Padri
viddesi segni di molta divotione e fra l’altri vi fu il padre
Guardiano di santo Francesco scalzo con piedi per terra et con una
pesante croce sopra le spalle. Al partirsi del Santo dalla Cathedrale
sonò tutte le campane al disteso, sì come fecero nel ritorno, et
le chiese per dove si passò con la processione fece l’istesso,
che rendeva una mestitia grande”. Si
susseguono preghiere e processioni in tutte le chiese della città:
S. Agata, San Carlo, San Domenico, San Francesc, dove “si
fece una processione dopo il vespro nella quale si portò l’immagine
della Beata Vergine Maria di santo Francesco, santo Bernardino, santo
Antonio di Padova e santo Fermo, et dopo un divoto Padre predicò al
popolo sopra quella piazza che era piena e più volte fece chiedere
al detto popolo misericordia. E ciò seguì con grandissima
divotione”. Il 22 maggio,
però, si crede di aver individuato i colpevoli del contagio in
alcuni francesi “che ontavano li muri della case di fuori
via con veleno, quali furono fatte diligenze per prenderli, e tutti
affumicavano con fuoco di paglia o fassine di vita li muri delle case
dove vedevasi li segni, qual era come di un color giallo”.
In realtà la diceria che fossero i francesi a trasmettere la peste
si era diffusa a Milano, capitale del governo spagnolo, l'anno prima
quando a febbraio erano stati arrestati alcuni frati ed anche un
apostata proveniente da Ginevra con l'accusa di aver portato con sé
un'ampolla sospetta che, si scoprì successivamente, conteneva solo
intrugli del tutto innocui contro il mal di stomaco. Il 18 maggio,
d'altronde, a Milano compaiono effettivamente tracce di grasso di
color bianco e giallo su alcuni muri e, prudenzialmente, vengono
portate le
panche fuori dal duomo. Lo stesso provvedimento viene adottato anche
a Cremona il 29 maggio, quando si decide di eliminare le
acquasantiere e di celebrare in tono minore e senza l'esposizione di
drappi e tappeti alle finestre la tradizionale processione del Corpus
Domini. Il vescovo Campori si rifugia a San Sigismondo, parte degli
amministratori fugge a Paderno, abbandonando a se stessa la città,
dove restano solo Domenicani e dei Francescani, che, oltre a
partecipare ai riti, insieme ai Teatini ai Barnabiti e ai Gesuiti,
“vanno
a volte per le contrade e case con le croci in mano ad amministrare
li Santissimi Sacramenti all’infermi”.
Così pure i Cappuccini, per i quali “Si
publica l’editto che li reverendi Padri Capuccini possino
confessare”,
attesta ancora il Bresciani. E non
è cosa da poco conto in quanto l'estate si avvicina e la peste
raggiunge il massimo della sua intensità: “La città fa
risoluzione di curare le case e mobilie con profumi e perciò vien
compartito la città in quattro quartieri, e vien deputato due gentil
huomini a ciascun quartiero per sopra intendenti. Il male contagioso
si fa via più maggiore”. Si
lavora molto sul profumo, ma l’unica cura utile sarebbe stata un
farmaco ad azione antibiotica. Per fortuna alcuni di questi
ingredienti avevano in parte tale azione (aglio, zenzero, aceto,
mirra, incenso, noce moscata). I rimedi tipici del tempo sono polvere
confezionata con con ruta, cardosanto, alloro, angelica odorata,
solfato di rame e aloe vera. Per purificare l'aria si bruciano
rosmarino, aglio, laudano, garofani, canfora, sandalo, cedro, calamo
aromatico, valeriana, muschio, ambra, acqua di arance, zolfo,
arsenico, incenso, noce moscata, rafano, verbena. Le stesse sostanze
che i medici usano quando si recano in visita agli ammalati nel loro
curioso abbigliamento. L'abito era costituito da una sorta di tonaca
nera lunga fino alle caviglie, un paio di guanti, un paio di scarpe,
una canna, un cappello a tesa larga e una maschera a forma di becco
dove erano contenute essenze aromatiche e paglia, che agiva da
filtro. La maschera era una sorta di respiratore: aveva due aperture
per gli occhi, coperte da lenti di vetro, due buchi per il naso e un
grande becco ricurvo, all'interno del quale erano contenute diverse
sostanze profumate (fiori secchi, lavanda, timo, mirra, ambra, foglie
di menta, canfora, chiodi di garofano, aglio e, quasi sempre, spugne
imbevute di aceto). Lo
scopo della maschera era di tener lontani i cattivi odori, all'epoca
ritenuti, secondo la dottrina miasmatico-umorale, causa scatenante
delle epidemie, preservando chi l'indossava dai contagi. Come
accessorio, inoltre, esisteva una speciale canna, che i medici
utilizzavano per esaminare i pazienti senza toccarli, per tenere
lontane le persone e per togliere i vestiti agli appestati. Sterco
ed urina, pelo di lepre, grasso di montone, sono altri rimedi
ampiamente utilizzati nella convinzione che
liquidi o scarti prodotti da ciò che è vivo, per assorbimento
contengano forza e poteri degli esseri viventi da cui provengono.
Clisteri, purganti, salassi e sanguisughe sono considerati rimedi
abituali in quanto riequilibratori dei quattro umori di cui è
costituito il corpo umano, cioè sangue, flemma, bile nera e bile
gialla.
Il medico della peste |
In
assenza di rimedi efficaci il contagio si estende ed in giugno lo
stesso Bresciani assiste impotente alla decimazione della sua
famiglia: “Giugno. Primo. Si amala mia moglie Laura con febre
grandissima. 5 detto. Si fa processione della Madonna Santissima di
Loreto di Santo Abbondio con il concorso funesto di quei puochi
cittadini ch'erano sani, ma però con grandissima divotione. A hore
19 ½ morse la Laura mia moglie, et il giorno seguente per gratia
particolare la feci sepelire con essequia solita in Santo Agostino
nel sepolcro de' suoi maggiori. 8 detto. Morse la Giovanna mia
sorella, qual fu sepolta nel cimitero di Santo Salvatore in città.
10 detto. Nella chiesa di Santo Lorenzo avanti l'altare di Santo
Carlo si cantò una Messa solenne. La Curia abbandona la città e si
ritira a Paderno. L'istesso fa li altri Magistrati della città. 11
detto. Communione Generale in Santo Abbondio per le donne. 12 detto.
L'istesso per li huomini avanti la Madonna di Loreto. 13 detto. Morse
il signor don Christoforo mio zio, qual fu sepolto in Santo Agostino
a canto alla Laura mia moglie. 14. Mi venne la febre che mi durò tre
giorni con una sonne tremenda che non poteva tener li occhi aperti se
non con gran fatica. 16 detto. Morse mia madonna madre di mia moglie,
qual fu portata fuori della città al luoco deputato. 17 detto. Fui
sequestrato in casa a fare la quarantina. 18 detto. Morse mio cognato
Giacinto e fu portato come sopra. 25 detto. Son mandato fuori a fare
la quarantina lungi dalla città due miglia nel luoco di Machetto,
dove subito mi risanai e per Iddio gratia stetti sempre bene. 27
detto. Morse la Leonida mia cognata. 28 detto. Morse Francesco mio
cognato. 29 detto. Morse mio messere Gerolamo Faletto padre di mia
moglie, quali tutti trei furono portati al luogo deputato delli
infetti. Gran gente passò da questa al altra vita questo mese, che
di notte tutti si portavano sopra carri a sepelire fuori di Santo
Luca dietro al Naviglio della città”.
L'assenza
di qualsiasi autorità ed il senso di precarietà sotto l'infuriare
della peste determina un periodo di sospensione della legge in cui
ognuno si sente autorizzato a compiere qualsiasi ruberia e violenza,
sicuro dell'impunità e nonostante i continui richiami alla
necessità di ricorrere alla protezione divina e di formulare voti
soprattutto alla Madonna del Popolo, con la disposizione dal 1 luglio
di suonare l’Ave Maria solamente di giorno, ed il campanone e le
campane due sole volte per segnale. Nonostante tutto “poca carità
si vede nelli monati, quali rubbano et assassinato le case de morti
dove vanno. Alteratione de preci di tutte le merci e fatiche humane
dal pane e vino in puoi ch'era buon mercato. Il resto andò ogni cosa
alla peggio. Il tutto fu causato dal mal governo di chi doveva far
osservare li ordini, ma in tempo di tanta calamità e miseria ogni
uno faceva a sui modo non ricordandosi della morte che li era vicina
quando pensava che li fosse molto lontana, siche ogni uno si
ingegnava di tirare e rapire l'altrui senza discretione”. La città,
nel momento più buio, è abbandonata a se stessa: “Il padre
abbandonava il figlio, la madre la figliola, il marito la moglie, i
fratelli le sorelle et i padri et le madri infette s'abbandonavano
non vedendosi più né carità, né fraterno amore; l'amicizia era
del tutto sbiadita, non trovavasi chi per denari né per latro
volesse attendere a poveri infermi: li religiosi che al principio del
male con grandissima carità attendevano alla salute delle anime de'
poveri agonizzanti anch'essi erano andati”. Sconforto e
rassegnazione regnano in una città ormai diventata deserta, dove
iniziano ad estendersi le aree abbandonate. Ognuno non si fida più
dell'altro, e lo stesso Bresciani ne fa le spese, denunciato come
abitante in una casa appestata da una frate di Sant'Agostino e
costretto ad una nuova quarantena fino a quando non viene
riconosciuta l'infondatezza della denuncia. Ci si affida anche ad una
santa nuova, importata dalle tre compagnie di fanteria siciliane di
stanza in città, Santa Rosalia, a cuisi attribuisce la guarigione di
Palermo dalla peste nel 1626. Sembra che la cosa faccia effetto,
tant'è che, quando si inaugura nella chiesa di San Vito l'affresco
della santa siciliana adorante la Madonna ed i
frati domenicani benedicono con la sua reliquia il recipiente
dell'acqua a cui attingevano soldati e cittadini, il contagio sembra
diminuire. Ma siamo ormai alla fine di settembre, arrivano i primi
freddi ed anche il Bresciani osserva che “si allegerisse in buona
parte il male contagioso sì che non more più tanta quantità di
popolo”. Nel frattempo sono morti circa 17 mila cremonesi su una
popolazione di 37 mila anime.
Certamente
le pulci, che avevano trasmesso dal topo all'uomo il batterio
Yersinia
pestis, favorite dalle scarse condizioni igieniche, rifuggivano
effettivamente da determinate sostanze odorose così come dal calore
del fuoco, ma risolutiva era stata la decisione di isolare i malati
affetti da malattie sconosciute. Che questa cautela fosse sensata
anche nel caso della peste lo si notò subito. In un'epoca in cui
non si conosceva ancora nulla di microscopi e di antibiotici il
sapere non poteva spingersi oltre. Ed i rimedi contro la peste erano,
a dir poco, fantasiosi se non disgustosi: si andava dai salassi,
effettuati anche con sanguisughe, alla polvere di smeraldo
sbriciolata per i più ricchi. Oppure si aprivano i linfonodi
infiammati, sotto le ascelle o nell'inguine, per permettere alla
malattia di "lasciare" il corpo, e poi veniva applicata,
direttamente sulla ferita, una miscela composta da resina, radici di
fiori, ed escrementi umani. Si faceva il bagno nell'urina oppure si
ricorreva al metodo Vicary, inventato da un medico inglese: occorreva
spiumare il sedere di una gallina, che veniva poi legato ai linfonodi
gonfi della persona malata, tutto questo con un pollo vivo. Poi,
quando anche l'animale si ammalava, bisognava lavarlo e
riposizionarlo di nuovo sul paziente, fino a quando solo il pollo o
solo l'appestato guariva. Senza parlare del corredo di varie pillole,
polveri e teriaca, la panacea utilizzata contro ogni tipo di veleno,
ma del tutto inefficace contro la peste.
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