Piazza Navona nel 1600 |
E' la mattina dell'8 febbraio 1559. Da
piazza Navona si alza un odore acre di fumo. Sono i roghi della Santa
Inquisizione che hanno ricominciato ad ardere da quando è diventato
papa, quattro anni prima, Paolo IV Carafa, il più ferreo e
determinato
oppositore dell'eresia luterana. Ma quella mattina per i soliti
curiosi è stato approntato uno spettacolo speciale e crudele.
Saranno quattro i condannati destinati ad essere arsi vivi nel primo
rogo del nuovo anno: tre eretici ed un omosessuale. Gli atti dei
Registri dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato, una
confraternita che assisteva i condannati a morte operante a Roma dal
1488, ne registrano puntualmente i nomi: Gabriello di Thomaien,
sodomita; Antonio di Colella del Grosso, Leonardo da Meola e Giovanni
Antonio del Bò, eretici. I primi due vengono sottoposti ai più
atroci tormenti, prima di essere bruciati vivi. Agli altri due viene
riservato il privilegio di essere prima impiccati, un atto di
clemenza dovuto a quanti, in qualche modo, abbiano mostrato un
pentimento per il loro errore. Viaggiano insieme, ed insieme sono
stati, con ogni probabilità catturati, in quanto l'accusa è simile:
genericamente eresia per il primo, e apostasia per il secondo. Ma
provengono da località diverse: Leonardo è originario di
Pontecorvo, in provincia di Frosinone, Giovanni Antonio è invece
cremonese. Il primo eretico cremonese salito sul patibolo, di cui sia
noto il nome, condannato dall'Inquisizione moderna, successiva al
Concilio di Trento. In effetti un Antonio Del Bove è ricordato nel
1515 residente nella vicina di San Vittore dal Designum Urbis del
Bordigallo. Quello che invece sembra doversi escludere è un
improbabile “antico” rapporto tra i due, e forse anche una
originaria comune formazione culturale, considerando la loro diversa
provenienza geografica. Dal testo di Domenico Orano, pubblicato nel
1904, (Liberi
pensatori bruciati in Roma dal XVI al XVIII secolo (Da documenti
inediti dell'Archivio di Stato in Roma), Roma
1904, p. 8), apprendiamo che a Leonardo sarebbe stato riservato il
trattamento di favore in quanto “volse
morir da bon cristiano, si confessò et udì la santa messa e
tracomandò l’anima a lomnipotente Idio”. E
con molta probabilità anche il suo compagno di sventura Giovanni
Antonio potrebbe aver dimostrato qualche forma di pentimento tale da
indurre gli inquisitori ad essere clementi, concedendo la grazia di
essere prima impiccati e poi bruciati, avendo così la possibilità
di sentire meno il dolore delle fiamme, dal momento che la pratica
dell’impiccagione faceva perdere i sensi. Le varie cronache che
registrano il fatto ed i registri di condannati fanno sempre e solo
riferimento all'atto registrato dalla confraternita di San Giovanni
Decollato, unico documento, per ora, in cui figura il nome dei due.
Il fatto che poi avessero viaggiato insieme ed avessero subito lo
stesso supplizio fa supporre che si fossero macchiati dello stesso
reato di apostasia.
Dal
canto suo Giovanni Antonio del Bo fuggiva da una città, come
Cremona, dove le idee luterane avevano mietuto da anni molti
proseliti, anche se prima di allora non si era mai arrivati alla pena
capitale. Vi erano già stati alcuni processi tra il 1545 ed il 1548,
poi vi era stato un momento di tregua, ed un nuovo rigurgito proprio
negli anni in cui finiva sul rogo il del Bo, così da giustificare il
giudizio di Chabod , secondo cui Cremona era “il massimo centro del
luteranesimo lombardo”. Dal 1476, infatti, a Cremona non vi era un
vescovo residente e la diocesi era retta da un vicario la cui prima
preoccupazione era, soprattutto, quella di riscuotere le rendite
derivanti dalle grandi proprietà fondiarie. Neppure i vescovi
suffraganei, nominati dal vescovo non residente, riuscivano ad
occuparsi della cura pastorale e di conseguenza il livello morale
della vita quotidiana condotta dal clero era alquanto discutibile.
Se dunque luteranesimo e calvinismo trovavano un terreno fertile allo
loro diffusione, altrettanto decisi erano i tentativi di imporre
nuovamente l'ortodossia, che determinavano perlopiù la fuga dei
diretti responsabili verso la Valtellina piuttosto che in Svizzera,
dove fin dal 1550 è documentata a Ginevra una folta colonia di esuli
cremonesi.
La fuga era comunque già iniziata qualche anno prima
quando, nel 1528, se ne era andato da Cremona addirittura il priore
dei Domenicani Bartolomeo Maturo, che aveva predicato poi a
Vicosoprano nel cantone dei Grigioni fino al 1497, prima di finire i
suoi giorni a Tomiliasca nell'Engadina, dove peraltro aveva predicato
un altro cremonese, Bartolomeo Silvio. D'altronde nello stesso
convento di San Pietro, retto in quegli anni dall'abate Colombino
Rapari, come ci informa una lettera spedita nel 1546 dal canonico
lateranense Marco Gerolamo Vida, poi eletto clamorosamente vescovo
dal Capitolo della Cattedrale il 13 novembre 1549, al cardinale
Ercole Gonzaga, giravano strani personaggi in rapporto con i
Grigioni. Addirittura da San Pietro scappano nell'agosto 1550 cinque
canonici lateranensi che si rifugiano prima a Piacenza e poi in
Svizzera. E non è un caso che Luigi Lucchini notasse tra i
personaggi raffigurati sulla destra del grande affresco della
Moltiplicazione dei pani e dei pesci commissionato in quegli anni da
Colombino Rapari a Bernardino Gatti, la presenza di Lutero, Beza e
Calvino. A Locarno, peraltro, nel 1549 ad un confronto pubblico sul
tema Tu
es Petrus et super hanc petram ædificabo ecclesiam,
partecipa un cremonese, Leonardo Bodetto, ex frate francescano, con
la moglie Caterina Appiani. Da Cremona fuggono in Svizzera in vari
periodi anche Giovanni Torriani, Agostino Mainardi, che aveva
predicato a Chiavenna, Paolo Gaddi, due domenicani fra Angelo e Gian
Paolo Nazzari, il frate minore Lorenzo Gajo e altri laici di cui
abbiamo il nome: Daniele Puerari, due fratelli Offredi, certi Torso,
Cambiaghi, Fogliata, Pellizzari.
La condanna di Pomponio Agieri nel 1556 |
Nel
1550 arriva a Ginevra Giuseppe Fogliato, nel 1551 è la volta di
Lazzaro Ragazzi e Francesco Santa con le rispettive mogli, Giuseppe
Fossa, Paolo Gazo, Niccolò Fogliato e Tommaso Puerari con la moglie.
L'anno seguente giunge Giuseppe Fenasco, nel 1553 Francesco Marchiolo
con la moglie e cinque figli, nel 1554 Giuseppe Bondiolo con la
moglie e due figli. Trascorrono alcuni anni e nel 1565 è ricordato
Evangeliista Offredi e nel 1567 Francesco Micheli, nel 1573 Galeazzo
Ponzone e nel 1577 Giacomo Puerari. Giuseppe Fossa era stato
costretto alla fuga per aver dato ospitalità nell'ottobre 1550 a due
frati benedettini, fra Valeriano e fra Sereno, fuggiti da Mantova e
ritrovati nella sua abitazione di Solarolo. Nell'inchiesta che ne era
seguita erano stati coinvolti ventidue nobili cremonesi, l'intera
famiglia di Bartolomeo e Tommaso Maggi, oltre ad un numero
imprecisato di personaggi, non nominati nell'inchiesta, che erano
riusciti a riparare all'estero. Le condanne, pur severe, non giunsero
mai alla pena capitale, forse anche perchè la maggior parte degli
imputati era sfuggita all'arresto. Che tra questi potesse esserci
Giovanni Antonio del Bo, finito sul rogo in piazza Navona, è
probabile. Stando ai fatti, ed in mancanza di elementi nuovi,
l'eretico cremonese potrebbe essere in effetti l'unico ad aver pagato
con la morte la sua apostasia.
L'eresia,
nonostante l'attivismo inquisitorio dopo il Concilio di Trento, non
viene però sradicata e verso il 1580 il problema riaffiora con
episodi che oggi giudicheremmo decisamente sconvolgenti e ripugnanti.
Il 22 dicembre 1581, ad esempio, il Tribunale dell'Inquisizione di
Cremona dichiara che il napoletano Andrea Luzio, ormai morto da
tempo, era un “autentico eresiarca” per aver diffuso dottrine
eretiche nella città ed in particolare negli ambienti ecclesiastici.
Per cui, affinchè “fosse cancellata dalla memoria dei fedeli et
veri cristiani la memoria di un sì empio eretico et pestifero
maestro” il tribunale ordinò che la sua memoria fosse “dannata,
annullata e reprobata dalla memoria dei fedeli e quandole sue ossa e
corposi possono discernere, debbono essere dissepolte come fetide et
indegue di luogo sacro e siino per maggior vituperio et detestatione
gettate in luoco profano”. Insieme alla condanna postuma viene
disposta, come era solito, la confisca di tutti i suoi beni. Pochi
giorni dopo viene condannato al carcere perpetuo per luteranesimo
anche un suo seguace, il sacerdote Antonio Longhi e la stessa sorte
tocca ad un altro prete, Antonio Maria Ottinelli, condannato al
carcere perpetuo per “heresia luterana”. Qualche settimana dopo,
tra gennaio e marzo del 1582, le porte del carcere perpetuo per
eresia si aprono anche per i preti Francesco Fruttaroli, parroco di
San Leonardo, per il prevosto Mariano di Mariano per aver letto
Calvino, Matteo di Bellotti, che viene sottoposto più volte a
tortura, padre Rizzerio della Cattedrale di Cremona, e per Domenico
de Cansis, curato di San Giorgio. Il curato di Sant'Omobono, Antonio
Maria Ottinelli viene invece condannato a due anni di remo. Ma
l'Inquisitore non si ferma e nel 1569 condanna il prete Nicolò
Boschetti, accusato di essere eretico, ad essere “immurato” fino
al giorno della sua morte.
La condanna postuma di un eretico |
La
storia di questi anni è ricca di episodi particolarmente drammatici,
con la cattura di eretici che, come Giovanni Antonio, erano prima
fuggiti ed ora cercano di far ritorno in città, evidentemente
ritenuta, nonostante tutto, maggiormente sicura. E' il caso di
Giovanni Martoia, in fuga da Ferrara, ma catturato dall'Inquisizione
a Cremona nel 1571 e nel 1757 di Giacomo Torricelli, originario dei
Lodoli di Salsominore che, prigioniero dell'Inquisizione, fornisce la
mappa delle località dove trovano rifugio gli eretici provenienti da
Ginevra. Non conosciamo il tipo di condanna inferto a un tal Giovanni
Battista Gaudenzi di Brescello, catturato a Viadana dove si era
recato ad ascoltare una predica nella chiesa di San Nicola degli
Agostiniani che, nel corso di un processo sommario tenuto nel palazzo
vescovile tra il 14 ed il 20 marzo 1573, viene accusato di possedere
libri proibiti. Questi sarebbero la “Postilla maggiore di Martino
Luthero” la “Institutione” di Calvino, ma viene accusato anche
di negare l'esistenza del Purgatorio e la validità delle indulgenze,
di ripudiare il celibato ecclesiastico ed il culto delle immagini, di
negare il libero arbitrio e la presenza di Cristo nell'Eucarestia. E
vi è anche il caso drammatico di un tessitore, Tommaso Zerbagli,
accusato di eresia ed arrestato nel 1584, che, dopo quindici giorni
di detenzione, si impicca in cella per sottrarsi alle torture.
Articolo interessantissimo. Uno spaccato della storia riformata nel cremonese, partita dal processo e dalla blanda condanna inflitta dal Card. Marino Caracciolo nel 1537 all'ex Segretario Imperiale il Castelleonese, ma abitante in Cremona, Filippo Nicola (v. Chabod) Complimenti vivissimi da un castelleonese in diaspora.
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