lunedì 9 marzo 2020

Giovanni, l'eretico

Piazza Navona nel 1600
E' la mattina dell'8 febbraio 1559. Da piazza Navona si alza un odore acre di fumo. Sono i roghi della Santa Inquisizione che hanno ricominciato ad ardere da quando è diventato papa, quattro anni prima, Paolo IV Carafa, il più ferreo e determinato oppositore dell'eresia luterana. Ma quella mattina per i soliti curiosi è stato approntato uno spettacolo speciale e crudele. Saranno quattro i condannati destinati ad essere arsi vivi nel primo rogo del nuovo anno: tre eretici ed un omosessuale. Gli atti dei Registri dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato, una confraternita che assisteva i condannati a morte operante a Roma dal 1488, ne registrano puntualmente i nomi: Gabriello di Thomaien, sodomita; Antonio di Colella del Grosso, Leonardo da Meola e Giovanni Antonio del Bò, eretici. I primi due vengono sottoposti ai più atroci tormenti, prima di essere bruciati vivi. Agli altri due viene riservato il privilegio di essere prima impiccati, un atto di clemenza dovuto a quanti, in qualche modo, abbiano mostrato un pentimento per il loro errore. Viaggiano insieme, ed insieme sono stati, con ogni probabilità catturati, in quanto l'accusa è simile: genericamente eresia per il primo, e apostasia per il secondo. Ma provengono da località diverse: Leonardo è originario di Pontecorvo, in provincia di Frosinone, Giovanni Antonio è invece cremonese. Il primo eretico cremonese salito sul patibolo, di cui sia noto il nome, condannato dall'Inquisizione moderna, successiva al Concilio di Trento. In effetti un Antonio Del Bove è ricordato nel 1515 residente nella vicina di San Vittore dal Designum Urbis del Bordigallo. Quello che invece sembra doversi escludere è un improbabile “antico” rapporto tra i due, e forse anche una originaria comune formazione culturale, considerando la loro diversa provenienza geografica. Dal testo di Domenico Orano, pubblicato nel 1904, (Liberi pensatori bruciati in Roma dal XVI al XVIII secolo (Da documenti inediti dell'Archivio di Stato in Roma), Roma 1904, p. 8), apprendiamo che a Leonardo sarebbe stato riservato il trattamento di favore in quanto “volse morir da bon cristiano, si confessò et udì la santa messa e tracomandò l’anima a lomnipotente Idio”. E con molta probabilità anche il suo compagno di sventura Giovanni Antonio potrebbe aver dimostrato qualche forma di pentimento tale da indurre gli inquisitori ad essere clementi, concedendo la grazia di essere prima impiccati e poi bruciati, avendo così la possibilità di sentire meno il dolore delle fiamme, dal momento che la pratica dell’impiccagione faceva perdere i sensi. Le varie cronache che registrano il fatto ed i registri di condannati fanno sempre e solo riferimento all'atto registrato dalla confraternita di San Giovanni Decollato, unico documento, per ora, in cui figura il nome dei due. Il fatto che poi avessero viaggiato insieme ed avessero subito lo stesso supplizio fa supporre che si fossero macchiati dello stesso reato di apostasia.
Dal canto suo Giovanni Antonio del Bo fuggiva da una città, come Cremona, dove le idee luterane avevano mietuto da anni molti proseliti, anche se prima di allora non si era mai arrivati alla pena capitale. Vi erano già stati alcuni processi tra il 1545 ed il 1548, poi vi era stato un momento di tregua, ed un nuovo rigurgito proprio negli anni in cui finiva sul rogo il del Bo, così da giustificare il giudizio di Chabod , secondo cui Cremona era “il massimo centro del luteranesimo lombardo”. Dal 1476, infatti, a Cremona non vi era un vescovo residente e la diocesi era retta da un vicario la cui prima preoccupazione era, soprattutto, quella di riscuotere le rendite derivanti dalle grandi proprietà fondiarie. Neppure i vescovi suffraganei, nominati dal vescovo non residente, riuscivano ad occuparsi della cura pastorale e di conseguenza il livello morale della vita quotidiana condotta dal clero era alquanto discutibile. Se dunque luteranesimo e calvinismo trovavano un terreno fertile allo loro diffusione, altrettanto decisi erano i tentativi di imporre nuovamente l'ortodossia, che determinavano perlopiù la fuga dei diretti responsabili verso la Valtellina piuttosto che in Svizzera, dove fin dal 1550 è documentata a Ginevra una folta colonia di esuli cremonesi.
La condanna di Pomponio Agieri nel 1556
La fuga era comunque già iniziata qualche anno prima quando, nel 1528, se ne era andato da Cremona addirittura il priore dei Domenicani Bartolomeo Maturo, che aveva predicato poi a Vicosoprano nel cantone dei Grigioni fino al 1497, prima di finire i suoi giorni a Tomiliasca nell'Engadina, dove peraltro aveva predicato un altro cremonese, Bartolomeo Silvio. D'altronde nello stesso convento di San Pietro, retto in quegli anni dall'abate Colombino Rapari, come ci informa una lettera spedita nel 1546 dal canonico lateranense Marco Gerolamo Vida, poi eletto clamorosamente vescovo dal Capitolo della Cattedrale il 13 novembre 1549, al cardinale Ercole Gonzaga, giravano strani personaggi in rapporto con i Grigioni. Addirittura da San Pietro scappano nell'agosto 1550 cinque canonici lateranensi che si rifugiano prima a Piacenza e poi in Svizzera. E non è un caso che Luigi Lucchini notasse tra i personaggi raffigurati sulla destra del grande affresco della Moltiplicazione dei pani e dei pesci commissionato in quegli anni da Colombino Rapari a Bernardino Gatti, la presenza di Lutero, Beza e Calvino. A Locarno, peraltro, nel 1549 ad un confronto pubblico sul tema
Tu es Petrus et super hanc petram ædificabo ecclesiam, partecipa un cremonese, Leonardo Bodetto, ex frate francescano, con la moglie Caterina Appiani. Da Cremona fuggono in Svizzera in vari periodi anche Giovanni Torriani, Agostino Mainardi, che aveva predicato a Chiavenna, Paolo Gaddi, due domenicani fra Angelo e Gian Paolo Nazzari, il frate minore Lorenzo Gajo e altri laici di cui abbiamo il nome: Daniele Puerari, due fratelli Offredi, certi Torso, Cambiaghi, Fogliata, Pellizzari.
Nel 1550 arriva a Ginevra Giuseppe Fogliato, nel 1551 è la volta di Lazzaro Ragazzi e Francesco Santa con le rispettive mogli, Giuseppe Fossa, Paolo Gazo, Niccolò Fogliato e Tommaso Puerari con la moglie. L'anno seguente giunge Giuseppe Fenasco, nel 1553 Francesco Marchiolo con la moglie e cinque figli, nel 1554 Giuseppe Bondiolo con la moglie e due figli. Trascorrono alcuni anni e nel 1565 è ricordato Evangeliista Offredi e nel 1567 Francesco Micheli, nel 1573 Galeazzo Ponzone e nel 1577 Giacomo Puerari. Giuseppe Fossa era stato costretto alla fuga per aver dato ospitalità nell'ottobre 1550 a due frati benedettini, fra Valeriano e fra Sereno, fuggiti da Mantova e ritrovati nella sua abitazione di Solarolo. Nell'inchiesta che ne era seguita erano stati coinvolti ventidue nobili cremonesi, l'intera famiglia di Bartolomeo e Tommaso Maggi, oltre ad un numero imprecisato di personaggi, non nominati nell'inchiesta, che erano riusciti a riparare all'estero. Le condanne, pur severe, non giunsero mai alla pena capitale, forse anche perchè la maggior parte degli imputati era sfuggita all'arresto. Che tra questi potesse esserci Giovanni Antonio del Bo, finito sul rogo in piazza Navona, è probabile. Stando ai fatti, ed in mancanza di elementi nuovi, l'eretico cremonese potrebbe essere in effetti l'unico ad aver pagato con la morte la sua apostasia.
L'eresia, nonostante l'attivismo inquisitorio dopo il Concilio di Trento, non viene però sradicata e verso il 1580 il problema riaffiora con episodi che oggi giudicheremmo decisamente sconvolgenti e ripugnanti. Il 22 dicembre 1581, ad esempio, il Tribunale dell'Inquisizione di Cremona dichiara che il napoletano Andrea Luzio, ormai morto da tempo, era un “autentico eresiarca” per aver diffuso dottrine eretiche nella città ed in particolare negli ambienti ecclesiastici. Per cui, affinchè “fosse cancellata dalla memoria dei fedeli et veri cristiani la memoria di un sì empio eretico et pestifero maestro” il tribunale ordinò che la sua memoria fosse “dannata, annullata e reprobata dalla memoria dei fedeli e quandole sue ossa e corposi possono discernere, debbono essere dissepolte come fetide et indegue di luogo sacro e siino per maggior vituperio et detestatione gettate in luoco profano”. Insieme alla condanna postuma viene disposta, come era solito, la confisca di tutti i suoi beni. Pochi giorni dopo viene condannato al carcere perpetuo per luteranesimo anche un suo seguace, il sacerdote Antonio Longhi e la stessa sorte tocca ad un altro prete, Antonio Maria Ottinelli, condannato al carcere perpetuo per “heresia luterana”. Qualche settimana dopo, tra gennaio e marzo del 1582, le porte del carcere perpetuo per eresia si aprono anche per i preti Francesco Fruttaroli, parroco di San Leonardo, per il prevosto Mariano di Mariano per aver letto Calvino, Matteo di Bellotti, che viene sottoposto più volte a tortura, padre Rizzerio della Cattedrale di Cremona, e per Domenico de Cansis, curato di San Giorgio. Il curato di Sant'Omobono, Antonio Maria Ottinelli viene invece condannato a due anni di remo. Ma l'Inquisitore non si ferma e nel 1569 condanna il prete Nicolò Boschetti, accusato di essere eretico, ad essere “immurato” fino al giorno della sua morte.

La condanna postuma di un eretico
La storia di questi anni è ricca di episodi particolarmente drammatici, con la cattura di eretici che, come Giovanni Antonio, erano prima fuggiti ed ora cercano di far ritorno in città, evidentemente ritenuta, nonostante tutto, maggiormente sicura. E' il caso di Giovanni Martoia, in fuga da Ferrara, ma catturato dall'Inquisizione a Cremona nel 1571 e nel 1757 di Giacomo Torricelli, originario dei Lodoli di Salsominore che, prigioniero dell'Inquisizione, fornisce la mappa delle località dove trovano rifugio gli eretici provenienti da Ginevra. Non conosciamo il tipo di condanna inferto a un tal Giovanni Battista Gaudenzi di Brescello, catturato a Viadana dove si era recato ad ascoltare una predica nella chiesa di San Nicola degli Agostiniani che, nel corso di un processo sommario tenuto nel palazzo vescovile tra il 14 ed il 20 marzo 1573, viene accusato di possedere libri proibiti. Questi sarebbero la “Postilla maggiore di Martino Luthero” la “Institutione” di Calvino, ma viene accusato anche di negare l'esistenza del Purgatorio e la validità delle indulgenze, di ripudiare il celibato ecclesiastico ed il culto delle immagini, di negare il libero arbitrio e la presenza di Cristo nell'Eucarestia. E vi è anche il caso drammatico di un tessitore, Tommaso Zerbagli, accusato di eresia ed arrestato nel 1584, che, dopo quindici giorni di detenzione, si impicca in cella per sottrarsi alle torture.

1 commento:

  1. Articolo interessantissimo. Uno spaccato della storia riformata nel cremonese, partita dal processo e dalla blanda condanna inflitta dal Card. Marino Caracciolo nel 1537 all'ex Segretario Imperiale il Castelleonese, ma abitante in Cremona, Filippo Nicola (v. Chabod) Complimenti vivissimi da un castelleonese in diaspora.

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