Scena di amore e di falconeria in un manoscritto del XIII secolo |
C'è
un cremonese agli albori della lingua italiana, anche se, per far
piacere al suo amico re Enzo, scriveva in france antico. Cremona,
come sappiamo, è stata tradizionalmente una città di grandi
traduttori e mediatori culturali. Negli anni scorsi è stata appieno
rivalutata e studiata da Pierluigi Pizzamiglio la figura di Gherardo
da Cremona e, più recentemente da Anna Mantellotti quella di
Giambonino, e, ad esempio, da Ivana Brusati quella del medico Adamo,
ma un personaggio che meriterebbe di essere posto tra i grandi del
suo tempo è certamente Daniele Deloc. Deloc, un nome strano dovuto
forse ad un errore di lettura per “de loco”, cioè “proveniente
da”, è autore del più antico documento in langue d'oil, il
francese antico o “francese di Lombardia”, che si conosca: un
trattato di caccia con il falcone scritto per re Enzo (cremonese pure
lui), poco tempo dopo essere fatto prigioniero dai bolognesi nel
1249, alla battaglia di Fossalta. Daniele faceva parte
anche lui, con ogni probabilità, di quella variopinta corte di
Federico II dove bazzicavano, fra gli altri, il frate domenicano
Rolando cacciatore di eretici, Adamo e Teodoro d'Antiochia, entrambi
traduttori dall'arabo, Michele Scoto, che Dante chiama “mago” e
poeti come Giorgio
da Gallipoli, Giovanni da Otranto, Giovanni Grasso.
Daniele,
nato a Cremona nella prima metà del XIII secolo, è
autore, in realtà, di una traduzione in antico francese di due
trattati di falconeria, rispettivamente dell'arabo Moamin o Moamyn e
del persiano Ghatrif o Tarif. Di Deloc. sappiamo solo quanto egli
stesso dice nella rubrica iniziale della sua opera, in cui si
presenta come "de Cremone nez" e affezionato "serven
au noble roi de Sardaigne". Secondo alcuni potrebbe
identificarsi con un certo Daniele, falconiere di Federico II, citato
in un passo della Historia
diplomatica Friderici
secundi di
J.-L.-A. Huillard Bréholles (II, Paris 1859, pp. 969 ss.), come
inviato a Malta per cercarvi dei falconi. Lo Zingarelli invece pensa
che l'autore dell'opera non sia il nostro Daniele. ma lo scriba
Angelus de Franchonia, che firma la copia del manoscritto. Questi, un
tedesco della Franconia, come lascerebbe credere il nome, per
conferire maggior prestigio alla sua traduzione, l'avrebbe presentata
come scritta in Italia e da un familiare stesso della corte che
passava, all'epoca, come massima legislatrice in materia di
falconeria e di caccia. In realtà, nessun fatto linguistico indica
un'origine germanica dell'autore o dello scriba stesso, anzi,
numerosi tratti sembrano indicare la provenienza del testo da un
ambiente dell'Italia settentrionale, e, più precisamente della
Lombardia, come d'altronde dice di essere lombardo lo stesso Daniele.
Nel
prologo dell'opera si legge che il Libro di
Moamin fu tradotto dall'ebraico in latino da Maestro Teodoro, per
ordine di Federico II. In realtà, come attestano concordemente i
codici della versione latina e dei volgarizzamenti italiani del
testo, il Libro di
Moamin non fu scritto in ebraico, ma in arabo. Dall'arabo fu poi
tradotto in latino da Maestro Teodoro, "philosophus, fidelis
noster", sicuramente conoscitore della lingua araba, come
risulta da altri documenti. Su chi tradusse Ghatrif dal persiano al
latino invece non si sa nulla.
Moamin in un capolettera miniato |
I
due trattati di falconeria furono assai diffusi nel Medioevo,
specialmente quello di Moamin, come attestano i numerosi codici
rimastici della versione latina e i volgarizzamenti italiani. La
versione in antico francese dei due trattati di falconeria curata da
Daniele Deloc ci è arrivata in un unico manoscritto del XIV secolo,
che appartenne alla Biblioteca dell'Università di Padova e di là
passò poi alla Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia. La
traduzione è, probabilmente, il primo testo scritto in lingua d'oïl
nella penisola italiana. Esso non manca di interesse per la storia
della fortuna di questo genere di trattati nel Medioevo e per quella
della conoscenza e dell'uso nel Duecento in Italia della lingua
d'oïl, come lingua per eccellenza della prosa narrativa e
didascalica, così come il provenzale lo era stato della poesia
lirica, come dimostrano i versi, quasi contemporanei, di un altro
cremonese, Gerardo Patecchio, che riprende i temi dei trovatori
provenzali nelle corti e nelle città dello stesso Nord Italia.
Notissima, sulla divulgazione e sul prestigio di cui godeva la lingua
francese all'epoca, la testimonianza di Dante nel De
Vulgari Eloquenti: "Allegat ergo pro se lingua oïl quod,
propter sui faciliorem ac delectabiliorem. vulgaritatem, quicquid
redactum sive inventum est ad vulgare prosaycum suum est", che
si rifaceva al giudizio del suo maestro Brunetto Latini sulla lingua
d'oïl come "la parleüre plus delitable et plus commune a
toutes gens"
L'opera
fu commissionata a Daniele da re Enzo, e la scelta linguistica fu
certamente suggerita dalla committenza regale, tanto che Deloc sente
il bisogno di scusarsi per l'imperfetta conoscenza della lingua
impostagli, anche se potrebbe trattarsi semplicemente di una
tipica captatio
benevolentiae: "Tot
soie je povre letreüre et de povre science garnic, e tot soit
greveuse chose a ma langue profferre le droit françois, por ce que
lombard soi". In effetti, per quanto la lingua del testo sia
secondo gli esperti abbastanza corretta, il francese di Daniele, pur
detratto quanto sia imputabile al copista del manoscritto, è
screziato di italianismi, soprattutto nel lessico; in cui i termini
italiani appaiono leggermente francesizzati. Il testo mostra molti
dei tratti caratteristici delle opere franco-italiane: aie senza
palatalizzazione, il trattamento d'e finale,
la caduta di t,s finali, s impura
senza vocale protetica, l'uso dei pronomi vestre, vetre,
il presente oit, poit,
i possessivi tonici invece di quelli atoni, se seguito
dal futuro, e così via. Sono presenti anche una serie di fatti
linguistici propri ai dialetti dell'Est e del Nord della Francia.
Molto frequenti sono i latinismi, com'è naturale per un'opera che ha
come fonte una versione latina. Un gruppo di termini tecnici, che
conservano la forma che avevano nel testo latino, ricordano le
origini orientali dei due trattati. Lo scriba rivela le abitudini
scrittorie di un italiano del Nord. Se fu germanico, come sembra
indicare il suo nome e come lo credono alcuni, certamente, secondo
altri, non lo rivela nella trascrizione di Moamin e Ghatrif.
In
base alle indicazioni fornite dallo stesso Daniele nella sua opera si
è portati a credere che questa sia stata commissionata da re Enzo,
mentre si trovava prigioniero dei Bolognesi. Nella prefazione al
libro di Moamin si legge che il testo fu "coreit par le roi
meeme en la cité de Bologne". E' molto improbabile, infatti,
che Enzo abbia soggiornato a Bologna prima del 1249, essendo Bologna
città nemica dell'imperatore. Dal momento che, probabilmente, il
giovane re godeva nella sua prigionia di una certa libertà che gli
permetteva di poetare e di incontrare persone, nulla impedisce il
fatto che durante la prigionia abbia potuto commissionare e
revisionare la traduzione francese del libro di Moamin. L'anno 1249,
in cui ebbe luogo la battaglia di Fossalta, sembra essere, dunque, da
considerarsi come terminus
a quo.
Miniatura del De arte venandi cum avibus |
Altre
notizie fanno supporre che la traduzione del libro di Moamin sia
stata terminata mentre re Enzo era ancora in vita. Nel capitolo
finale dell'opera di Moamin Daniele ringrazia il re, che "a
deigné loer" il suo lavoro, e nell'introduzione al libro di
Ghatrif dice chiaramente che il re lo ha incaricato della traduzione
del secondo testo, "apreés ce qe je ai, la merci nostre
seignor, finé le livre de Monayn fauchonier". Il termine ante
quem diverrebbe,
in definitiva, il 1272, anno della morte di re Enzo. Ma la questione
è complicata da un passo dell'introduzione al libro I in cui Deloc
parla di re Enzo al tempo passato. Secondo alcuni, i due prologhi che
precedono il testo di Moamin, ambedue di mano di Deloc, furono
scritti in epoche diverse. Forse Daniele presentò al re, a Bologna,
in un primo momento, solo una parte della traduzione munita del primo
prologo, e successivamente ne intraprese la fine e la redazione
definitiva. Fu allora che egli aggiunse il passo già citato "coreit
par le roi" e il capitolo finale di Moamin in cui tutto indica
che il re era ancora in vita. Successivamente, dopo la morte dei re,
Deloc.poté avere occasione di occuparsi nuovamente della sua opera,
e introdurre allora, nel riassunto che precede il libro I di Moamin,
il breve ritratto morale del giovane re, che ne ricorda il nobile
carattere e la triste sorte: "Mes fortune envieuse, qe tot adés
agrevoie et gueroie as meillors, li fu trop longement marastres et
enemie, dont ce fu doumages trop grans, kar chevalerie, pris et valor
empirent trop par sa mesceance".
L'opera
di Moamin, nel manoscritto francese, è composta da quattro libri, di
cui i primi tre trattano degli uccelli di rapina e delle loro
medicine e cure, e il quarto degli altri animali da caccia, e
principalmente dei cani. I quattro libri sono preceduti da una
prefazione, da una tavola che enunzia il titolo dei capitoli di tutta
l'opera, e dai due prologhi già citati. Al libro IV segue un breve
epilogo. La seconda parte della traduzione di Daniele. comprende
l'opera di Ghatrif composta da un breve incipit e
dalla tavola dei capitoli che ne indica 75 e non 66, come sono nel
testo. Il cap. I è costituito da un succinto prologo attribuito da
Daniele a maestro Tarif o Ghatrif. Chiude l'opera un breve
capitoletto non compreso nella tavola.
Daniele
Deloc resta una delle figure più interessanti della letteratura
italiana delle origini, e testimonia quale fosse la vivacità
culturale di quella corte federiciana, ma soprattutto, come fossero
intensi i rapporti di amicizia e collaborazione nati all'ombra del
Torrazzo tra la famiglia imperiale e gli abitanti della città, se lo
stesso Re Enzo, prigioniero a Bologna, chiamò proprio un suo
conterraneo ad alleviare il peso delle sue giornate bolognesi.
Nel
territorio francese il latino introdotto dalla conquista romana,
nella forma meno colta dei militari e dei mercanti, si diffuse
rapidamente; le influenze celtiche e germaniche però lo modificarono
notevolmente fino a che si distinsero due forme linguistiche
principali: la lingua d'oc (dal latino hoc, per dire sì), parlata
nelle regioni meridionali, e la lingua d'oïl (dal latino hoc ille),
parlata nel Nord. L'uso letterario della lingua d'oc raggiunse
rapidamente una certa omogeneità e diede origine alla letteratura
provenzale. Invece, nelle regioni settentrionali della Francia si
produsse una fioritura di dialetti diversi, tra cui prevalse a poco a
poco il franciano, parlato nell'Ile-de-France. Nacque così il
francese antico, termine con cui si indica la lingua dell'epoca
feudale, che fu in uso fino al Duecento e conservava ancora la
declinazione a due casi, soggetto e complemento oggetto. Con la
progressiva scomparsa dei casi e la modificazione delle strutture
morfologiche e sintattiche si formò il francese medio (grosso modo
dal Trecento fino al Cinquecento), che si sarebbe poi trasformato nel
francese moderno. Il primo documento scritto in volgare francese è
il Serment de Strasbourg (Giuramento di Strasburgo), che risale al IX
secolo e fu pronunciato, il 14 febbraio 842, davanti ai propri
eserciti schierati, da Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico nelle
rispettive lingue volgari (francese e tedesco); con esso i due
sovrani si impegnavano a reciproco sostegno contro il loro fratello,
l'imperatore Lotario.
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