Quando,
secondo la leggenda, quel
lontano 25 ottobre del 1441 il torrone comparve sulla tavola degli
invitati al matrimonio tra Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza,
non era certo la prima volta. Il dolce era sicuramente ormai noto da
secoli ai cremonesi. Addirittura da millenni, se dobbiamo credere a
Tito Livio, che racconta come una barretta dolce a base di semi
oleosi, miele e albume, chiamata “cuppedo” fosse l'alimento
abituale dei soldati durante le lunghe marce. Marco Terenzio Varrone
nelle Satyre
Menippeae, composte
tra l'80 ed il 46 a.C., racconta che la “cuppedo”sarebbe stata
inventata dai Sanniti. Ma è il solito Apicio, il gastronomo per
eccellenza, che nel De
Re Culinaria descrive
la ricetta di un dolce preparato con noci, miele e albume d’uovo,
chiamato nucatum
che i Romani potrebbero aver mutuato dal medio oriente ellenistico,
dove, già prima dell’Islam esistevano dolci secchi fatti con
mandorle o granella di noci e nocciole, farina e miele. E' proprio
con l'espansione islamica irradiatasi nel Mediterraneo dalla penisola
arabica, che la medicina islamica, erede della medicina greca e
persiana integrata con nuove scoperte, diffuse nel mondo occidentale
l'interesse verso il cibo in riferimento alla cura del corpo. Tra il
IX e il XII secolo, dall’Andalusia a Baghdad fiorirono i manuali
della buona salute e i compendi di medicinali composti o di alimenti
usati come medicinali semplici inaugurati dal Canone di Avicenna.
Nel
corso dell’XI secolo due medici arabi, ibn Butlan e ibn Jazla
compongono due manuali di interesse medico in cui inseriscono una
serie di vere e proprie ricette. Re Manfredi cura in Italia
meridionale la versione del Taqwim as sihha di Butlan, che prende il
nome di Tacuinum sanitatis. Mentre Carlo I d’Angiò si dedica al
Tacuinum aegritudinis di Jazla. Il minhaj al-bayan di Jazla viene poi
compendiato da Giambonino da Cremona in lingua latina a Venezia verso
la fine del XIII secolo. Agli inizi del Trecento la compilazione di
Giambonino viene inserita in una raccolta miscellanea per Carlo II
d’Angiò in cui compaiono anche gli altri due libri di cucina che
viene poi trasferita verso la fine del secolo in Francia presso il
duca di Berry che a sua volta nel 1404 la dona ad una fondazione
religiosa. Contemporaneamente in Italia settentrionale sulla base del
Tacuinum di Butlan si compilano il Tacuinum Sanitatis illustrato con
le miniature di Giovannino de’ Grassi e nel Quattrocento si
traduce in tedesco il Liber de ferculis di Giambonino in una
università dell’Italia settentrionale, probabilmente Padova. Nel
XVI secolo, infine, a Damasco Andrea Alpago utilizza il testo arabo
di Jazla per compilare un glossario arabo-latino al Canone di
Avicenna, la “Interpretatio arabicorum nominum” stampata
a Venezia nel 1527, mentre nel 1532 Schott pubblica a Strasburgo i
Tacuini di Butlan nella versione integrale in latino a cui fa seguire
l’anno seguente quella in tedesco. Capiamo così come, quando non è
sufficientemente spiegata una preparazione in uno di questi testi,
possa venire in aiuto il confronto con opere analoghe dello stesso
contenuto. E'
proprio nei trattati di Ibn Buṭlān e Ibn Jazla, a cui si
aggiunge in Andalusia il Libro
dei medicinali semplici di Abenguefith
Abdul che si trovano le ricette di un tipo di dolce secco che è il
diretto precursore del moderno torrone. Nelle Tavole della
Salute di Butlan e nel Cammino
dell'esposizione
di Jazla (cristiano convertito all’Islam), composte nel califfato
abbaside di Baghdad nell’XI secolo, nella parte riservata ai dolci
secchi compare il Chaloe (in
arabo halawa),
di origine greca, indicato per febbri, tosse o dolori reumatici:
dalla ricetta risulta preparato con noci, mandorle o pistacchi e
aromatizzato con spezie. Manca l’albume, ma la variante bianca è
ottenuta tramite la lavorazione dello zucchero, come si legge
nel Compendio
delle vivande (Kitab
al-Tabikh)
del medico Al-Baghdadi, vissuto nel XIII secolo: «Sciogli
lo zucchero in acqua e fallo addensare bollendo, poi versalo su un
piano, battilo e tiralo finchè diventa bianco, impastaci pistacchi o
mandorle, taglialo in stecche o rombi e dallo a chi vuoi».
La Festa del torrone a Cremona |
In
Andalusia Abenguefith Abdul Mutarrif, medico e farmacista nel Libro
dei medicinali semplici, tratto
da Dioscoride e Galeno, nel descrivere le virtù terapeutiche del
miele, cita un dolce che chiama “turùn”,
composto di mandorle tostate, miele, zucchero e acqua di rose,
ricoperto da una sottilissima cialda, indicato per febbri, patologie
polmonari e dolori reumatici. Il Libro
dei medicinali semplici
viene tradotto dall'arabo in latino a Toledo da Gherardo da Cremona
tra il 1135 e il 1170. Quando Gerardo morì, la sua ricchissima
biblioteca di testi arabi fu trasportata a Cremona, nel convento di
Santa Lucia. Il compendio arabo contenente la ricetta del Turùn nella
versione latina di Gerardo divenne “Liber
Abenguefiti de virtutibus medicinarum simplicium et ciborum”.
Il manoscritto originario è conservato alla Bibliotheque Nàtionale
di Parigi ma una copia è conservata alla Biblioteca Statale di
Cremona, inclusa nella versione a stampa di Johann Schott (impressa a
Strasburgo nel 1532) che contiene, come abbiamo visto, anche
le Tavole di Ibn
Butlan e i Taccuini
della Salute di Ibn
Jazla.
Il
torrone dunque era certamente conosciuto a Cremona ben prima del
matrimonio tra Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza, attraverso
la mediazione dei traduttori dall'arabo, i commerci con la Spagna e
l'Oriente arabo, senza dimenticare l'antico cibo energetico latino e,
dunque, come altre preparazioni gastronomiche, frutto di
un'originalissima contaminazione. Vi è poi chi ha creduto che lo
stesso termine “torrone”, anziché da un'improbabile torre, possa
derivare dal termine spagnolo turròn,
deverbativo di turrar
(“tostare”) a sua volta derivante dal verbo latino torreo
che significa «seccare, tostare, abbrustolire». E' possibile che il
termine spagnolo turùn,
dal latino torreo,
sia stato utilizzato dagli arabi del califfato di Cordova per quel
dolce conosciuto variamente come qubbayt
(o qabit
o qabut,
“mandorlato”), oppure in Sicilia come giuggiolena
(con riferimento al sesamo), o halawa
attingengolo dal volgare spagnolo, derivante a sua volta dal latino.
Nulla
di strano: le contaminazioni con il mondo arabo a Cremona sono
piuttosto frequenti ed investono diversi settori. Ad iniziare proprio
dalla gastronomia. Nel “liber de ferculis” di Giambonino da
Cremona, traduzione in
latino un estratto della monumentale enciclopedia scritta a Bagdad da
ibn Jazla nella seconda metà dell’XI secolo, sul
finire del XIII secolo troviamo per la prima volta la
descrizione di un tipo di pasta ripiena, il sambusuch, che è il
diretto precursore dei moderni ravioli e dei più nostrani marubini:
il sambusuch, una pasta di forma triangolare destinata ad essere
farcita con un ripieno di carne per poi essere lessata o fritta. Per
il ripieno viene usato un altro termine: Mudacathat, che Giambonino
così descrive: “E’ migliore perché è fatta con carne di
montone: ed è calda e umida e rafforza il corpo e conviene a quelli
che sono consunti per stravizi o per lavoro o per afflizione o
angoscia o paura e provoca nausea, e il suo danno si rimuove con
acqua di sommacco. E si fa così, ed è chiamata mudacathat di
canfora: prendi petti di gallina e tagliali in piccoli pezzetti e
aggiungici una libbra di carne di montone e tagliala con un coltello
in piccoli pezzetti e mescolaci 20 dracme di grasso di pollo ovvero
strutto di pollo, e rimestalo nella pentola fino a che il grasso si
sia ben mescolato con la carne, e aggiungici 2 dracme di salgemma e
20 dracme di cipolla bianca tagliata fina, e un poco di coriandolo e
cannella, e quando ti sembra che abbia un buon sapore, aggiungici una
libbra di acqua, e fai bollire finchè sua mezzo cotto; e poi prendi
30 dracme di mandorle pelate e pestale con acqua di rose
facendole diventare
come latte, e aggiungilo e mescolalo nella pentola, e getta nella
pentola un pugno di ceci puliti e un sacchetto di lino in cui sia
racchiuso comino e zenzero pestati, e quando è cotto versaci sopra
due uova sbattute e mescola; e dallo a chi vuoi”.
E’
possibile che Giambonino possa essere un prosecutore di Gherardo,
anche se lavora e traduce a Venezia che, peraltro, ha intensissimi
contatti commerciali con Cremona. Quasi sicuramente era un medico,
come attesta il titolo di “magister” che gli viene attribuito in
calce al manoscritto ed esperto della lingua araba, anche se è
possibile si facesse affiancare da un parlante di madrelingua, forse
un mercante, che potesse aiutarlo nel reperire l’esatta
corrispondenza degli ingredienti, delle spezie o delle erbe. Anna
Mantellotti colloca la stesura del liber intorno agli ultimi
trent’anni del Duecento e ne fa un episodio isolato che non si
inserisce in una scuola di traduttori ma piuttosto in quella cultura
medica nata negli ambienti universitaria di Padova e Bologna. A
questo proposito Enrico Carnevale Schianca propone di identificare il
nostro Giambonino con il medico Zambonino da Gazzo, insegnante di
filosofia all’università di Padova nella seconda metà del
Duecento e morto nei primi anni del secolo successivo.
La Festa del torrone |
Le
vicende storiche attraversate dalla città testimoniano una
frequentazione continua con l'oriente. Rapporti costanti si hanno a
partire dal 1090 quando, in Terra Santa, si alternano per qualche
tempo governatori cremonesi e, dal 1155, la città ottiene il diritto
di battere moneta, tolto a Milano, il che significava possibilità di
controllare il traffico delle materie prime destinato ai mercati
locali e transalpini. Gli interessi commerciali condizionarono
la storia di Cremona per tutto il corso del XII secolo. La perfetta
integrazione tra commerci terrestri ed il controllo delle vie d'acqua
fluviali, ottenuto mediante alleanze e trattati con le città vicine,
uniti al caposaldo in Terra Santa e all'autonomia comunale protetta
dall'autorità imperiale con un sodalizio che durava ormai dai tempi
del Barbarossa, costituirono gli elementi che permisero alla città
di raggiungere, tra il 1226 e il 1267, l'apice della potenza
economica. Durante la signoria del Pallavicino i mercanti cremonesi
figuravano tra i frequentatori abituali delle fiere di Champagne, e
tramite navi di Venezia, Genova e Pisa, dei mercati di Barcellona,
Valenza e Maiorca, giungendo fino a Costantinopoli, dove l'ufficio di
cambio era diretto allora da due cremonesi. Condizioni
particolarmente favorevoli avevano poi spinto i mercanti di
Montpellier a scegliere fin dal 1254 la città padana come caposaldo
delle operazioni con l'Adriatico e gli stessi trafficanti toscani ed
umbri avevano costituito qui un polo mercantile per le stoffe di
Valenza e Londra.
Ma
soprattutto Cremona era la corte del più grande mediatore culturale
del Medioevo, Federico II, che nella città, diventata il quartier
generale dell'esercito imperiale già prima della battaglia di
Cortenuova del 1249, soggiornò almeno diciotto volte a partire da
quel luglio 1212 quando, appena diciassette e braccato dai milanesi,
fu salvato ed accolto dai cremonesi. Costante nell'esercito di
Federico era la presenza degli arcieri saraceni che, per
testimonianza dello stesso Pier Delle Vigne, a Cortenuova
combatterono accanto ai cremonesi, armati delle loro lunghe picche. E
sicuramente, nella metà del XIII secolo, non ci si stupiva di vedere
girare per le strade di Cremona l'elefante di Federico con il suo
codazzo di assistenti arabi, medici, gastronomi, guerrieri,
architetti e scienziati. Una presenza che, sicuramente, è stata
fondamentale anche per lo sviluppo culturale e artistico della stessa
città. Il Torrazzo, diretta derivazione da minareti realizzati
nell'area magrebina e spagnola intorno alla fine del XII secolo, ne è
l'esempio più fulgido.
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