Oberto Pallavicino da "Cremona Fedelissima" |
“All’ombra
del Torrazzo il nemico s’inchina”, questa la scritta che
campeggiava allo stadio Zini in curva sud tra i colori grigiorossi,
sotto un Torrazzo alto come la curva e due simboli di Parma, lo scudo
cruciato e due guerrieri, uno con le gambe nude. I tifosi cremonesi
hanno dimostrato di conoscere bene la storia della loro città,
riportando alla luce un episodio curioso avvenuto tanti secoli fa che
ha per protagonista, da un lato Uberto Pallavicino divenuto nel 1249
"signore perpetuo" di Cremona, con l'appoggio di Buoso da
Dovara, uno dei maggiori esponenti dello schieramento ghibellino
locale, e dall'altro l'odiata Parma, dove l'anno prima, nel 1248, i
cremonesi avevano rimediato una cocente sconfitta. L'episodio,
passato alla storia come la “battaglia del campo dei fagioli” è
ricordato anche da Antonio Campi nella sua “Cremona Fedelissima”
con queste parole: “Lo sdegno, che havevano conceputo i Cremonesi
per la perdita del loro Carroccio, nella rotta ricevuta sotto Parma,
haveva loro talmente infiammati gli animi contra i Parmegiani, che
altro non bramavano, se non di poterne far aspra vendetta, la onde
chiamarono al governo di Cremona, con titolo di Podestà Ubertino ò
(come lo chiamano altri) Uberto Pallavicino Marchese, huomo in quei
tempi potentissimo, & di grandissima riputatione, & quello,
che di non poca importanza era, Favorito sopramodo da Federigo
Imperatore. Ne fu si tosto il Pallavicino assonto a questo supremo
grado, che ragunate le genti da guerra de Cremonesi, messe insieme un
potente essercito, con quale incontanente sotto Parma se n'andò,
sperando che per esservi grandissima carestia di vivere, fosse il
popolo per tumultuare, & dargliela nelle mani. Ma i Parmegiani
poste da parte le discordie, che fra di loro per le fattioni
contrarie si trovavano, & prese l'armi di commune concordia, se
ne uscirono col loro Carroccio animosamente contra i nemici. Non
furono però corrispondenti le forze al loro ardire, percioche
attaccatasi la battaglia, dopò l'haver sostenuto per spatio di più
di cinque hore il valore de' nimici, finalmente non potendo più
resistere, diediero à Cremonesi tanto più honorata vittoria, con
quanto maggior sudore essi se l'acquistarono. Furono condotti à
Cremona meglio di due milla de' nimici prigioni, insieme col loro
Carroccio, il quale perche tutto di panno bianco era coperto
Biancarda era chiamato; Fù il Carroccio tenuto per trofeo per molti
anni da Cremonesi, & i prigioni spogliati con troppo vendichevole
scherno delle brache, à casa vergognosamente furono rimandati; Sono
restate queste brache fino à giorni nostri sopra le volte del Duomo,
appese à muri. Non tacerò quello che affermano alcuni - aggiunge il
Campi – l'usanza di far correre il Toro ogn'anno nel giorno
dell'Assuntione di Maria Vergine, haver havuto origine in questo
tempo, per memoria della sopradetta vittoria, per essere
quell'animale insegna de Parmegiani. E durata questa usanza, ò più
tosto abuso, sino all'anno MDLXXV nel quale anno essendo venuto in
Cremona Carlo Borromeo Cardianle di Santa Chiesa, Arcivescovo di
Milano, e Visitator Apostolico, per far la visita della chiesa
Cremonese, fù per riverenza (mi credo) di tant'huomo intermessa, &
lasciata del tutto”.
La
gioia dei Cremonesi per la vittoria è spiegabile con il fatto di non
aver mai digerito la precedente sconfitta maturata a Vittoria il 12
febbraio del 1248, al punto che in diecimila avrebbero giurato di non
radersi più barba e capelli fino a quando l'onta subita non fosse
stata vendicata. Tanto che i ghibellini cremonesi, dopo la vittoria
del “campo dei fagioli” assunsero il soprannome di “barbarasi”,
avendo potuto sciogliere il loro voto.
La battaglia di Vittoria, 1248 |
Vittoria
era la città-accampamento costruita nell'estate del 1247 da Federico
II tra Parma e Fidenza durante l'assedio di Parma, per trascorrervi i
mesi invernali nell'attesa della capitolazione della città: nelle
intenzioni dello Svevo, una volta rasa al suolo Parma, i suoi
abitanti avrebbero dovuto confluire a Vittoria, il cui nome evocativo
adombrava il destino di futura capitale imperiale. In quanto centro
operativo dell'imperatore, Vittoria era stata prescelta come luogo di
deposito dei fondi liquidi, del tesoro, compresa la corona, delle
vesti imperiali, delle armi, delle salmerie, delle vettovaglie e
della biblioteca imperiale. Al momento della sua caduta era ancora in
costruzione, una città in
fieri,
ben più simile a un accampamento che a una struttura urbana, ma la
sua perdita ebbe pesanti conseguenze dal punto di vista politico e
simbolico. In aiuto di Parma assediata erano accorsi i veronesi e i
piacentini, e Gregorio da Montelongo giunto da Milano, legato papale
in Lombardia nel 1238 e capo carismatico della reazione antisveva.
Montelongo, abilissimo stratega, era stato inviato da papa Gregorio
IX ad organizzare le forze filopapali nell'Italia lombarda, e
sostenne la città nei lunghi mesi dell'assedio e rivestì un ruolo
di primo piano anche nello scontro risolutivo. Si trattò di
un'operazione vasta e complessa, svoltasi su un fronte lungo una
ventina di chilometri dal Po a Parma e scandita da scontri plurimi e
fulminei fra le truppe di re Enzo di Svevia e le milizie parmensi e
milanesi.
Come
racconta Salimbene de Adam, il 18 febbraio 1248 Federico era lontano
dal campo, impegnato in una battuta di caccia col falco dalle parti
di Busseto, quando un gruppo di parmensi trascinò il grosso
dell'esercito imperiale lontano dalla città con una falsa sortita.
Nel frattempo, il resto delle truppe parmensi con donne, fanciulli,
giovani, vecchi attaccò Vittoria, avendo ragione con relativa
facilità dei difensori rimasti. La città-accampamento fu ridotta in
macerie e il tesoro imperiale fu depredato. La corona fu rinvenuta
fra le rovine dal popolano "Curtuspassus",
venduta ai parmensi per 200 lire imperiali e portata nella cattedrale
cittadina. Taddeo de Sessa, insigne giurista e stretto collaboratore
di Federico, venne catturato, mutilato delle mani e condotto in
carcere a Parma. I vincitori s'impadronirono anche del carroccio dei
cremonesi, e Vittoria rimase, secondo le parole di Salimbene de Adam,
"civitas que fuit et non est". Lo stesso Federico da
lontano vide il fumo della città di Vittoria incendiata e dovette
ritirarsi oltre il Po a Cremona, seguito fra gli altri anche dal
Marchese Uberto Pallavicino. Federico, seppur duramente colpito dal
punto di vista militare e politico, neutralizzò in parte le
conseguenze della disfatta inviando le milizie imperiali verso il
Passo della Cisa per garantirsi un libero transito in direzione della
Toscana e di
Roma. Bernardo Orlando Rossi, già responsabile di una congiura
ordita contro l'imperatore e fra i capi dei fuorusciti parmensi,
venne catturato e ucciso dalle forze imperiali. La sconfitta rese
anche l'imperatore ancor più consapevole della necessità di
risolvere una volta per tutte la situazione della Lombardia, senza
contare che ebbe ripercussioni anche dal punto di vista economico:
per rifarsi delle perdite subite, infatti, egli si vide costretto a
imporre una tassa di guerra straordinaria in Sicilia dove il
malcontento per il carico fiscale costituiva da tempo uno dei
problemi maggiori per il governo imperiale.
Federico II di Svevia |
La
distruzione di Vittoria, inoltre, ebbe un'importante valenza
simbolica e scosse significativamente il prestigio di Federico,
andando a incidere in maniera forte sulla sua immagine, sui modi
della sua percezione nella sensibilità collettiva, sulle
interdizioni culturali e sui condizionamenti di ordine etico-politico
che ne accompagnavano la persona e il ruolo. Basta ricordare gli
episodi cremonesi citati da Jacopo d'Acqui e Salimbene da Adam. Nel
primo un semplice popolano lo rimprovera dicendogli. “O imperatore,
meritereste di essere decapitato, perchè avete abbandonato Vittoria
per dedicarvi ai vostri svaghi preferiti”. Nell'altro un gobbo a
Federico, che gli chiede quando aprirà la sua cassetta, cioè la
gobba, risponde che non può aprirla perchè ha perso la chiave a
Vittoria.
Nel
1249, riorganizzato l’esercito, Federico II ripassò il Po e mosse
contro i Milanesi che con i Piacentini andavano a difendere Parma; lo
scontro però non avvenne, Federico si recò a Pisa dove il 9 Maggio
1249 procedeva all’investitura del dominio Pallavicino in favore
del Marchese Uberto. Nel diploma imperiale sono elencati i possessi
del Pallavicino nelle Diocesi di Cremona (Busseto, Zibello, S. Croce,
Ragazzola, Tolarolo, Polesine), Parma, Piacenza, Volterra. Caduto Re
Enzo, figlio dell’imperatore, prigioniero dei Bolognesi, Federico
si ritirò nel Regno di Napoli e nell’Ottobre 1250 da Foggia inviò
al fedelissimo Uberto un altro diploma, con cui gli donava nuovi
privilegi e Busseto col suo territorio si configurava come una
Signoria svincolata da qualsiasi altra città della Lombardia: è
forse questo il primo atto ufficiale della esistenza dello Stato
Pallavicino. In quello stesso anno Uberto fu eletto Podestà di
Cremona e, in forza di questo potere,rafforzò il castello di Busseto
capitale della sua Marca. Nel frattempo Uberto
il 18 Agosto 1250 si impadronì di Borgo San Donnino e poi continuò
la sua marcia verso Parma, dove ingaggiò la micidiale battaglia così
attesa dai cremonesi.
La Cronica di
Salimbene de Adam tratteggia l'aspetto fisico del marchese in modo
poco rispondente a quello che si ritiene proprio di un condottiero:
precocemente invecchiato, gracile, cagionevole di salute, e per di
più privo di un occhio che un gallo gli aveva strappato quando era
ancora in culla. Quanto al carattere, era quello di persona assetata
di potere e quindi disposta, per conseguire nuovi successi, a
sacrificare anche chi aveva condiviso con lui tante esperienze;
tuttavia capace di pensare in grande (dotato "magnifici
cordis"), tale da suscitare un'indiscutibile ammirazione.
La Festa del Toro in un'incisione del Cipelli del 1572 |
La
Festa del Toro, che il Campi fa risalire al ricordo della battaglia
del “campo dei fagioli”, era preceduta dalla festa del Rigotto,
che iniziava la mattina del 14 agosto quando la piazza si animava con
una battaglia tra ragazzi che si lanciavano mele, pere, meloni ed
angurie. Per tradizione i più poveri di essi chiedevano per quel
giorno l'affitto delle aree della piazza ai venditori che normalmente
le occupavano. Poi prendevano posto su dei banchi i 150 consiglieri
del Comune, il podestà, il governatore ed il comandante delle
milizie cittadine preceduti dal suono dei pifferai collocati sopra
l'arengario. I brentadori innaffiavano allora la piazza mentre le
statue di Berta e Baldesio, poste sotto la Bertazzola, venivano
rivestite dai fornai con abiti in panno bianco e rosso, colori della
città, mentre l'abito ed il cappello vecchio rigato con gli stessi
colori (chiamato appunto Rigotto), dentro cui veniva nascosta una
moneta da sei zecchini o fiorini, venivano gettati alla folla che
ingaggiava una battaglia per aggiudicarseli. Questa festa cessò
definitivamente nel 1773. Il giorno successivo, Festa dell'Assunta,
tutti i rappresentanti delle categorie mercantili della città e del
contado si trovavano in Duomo e, chiamati da un banditore,
presentavano ai Fabbriceri offerte in cera e denaro. In piazza si
teneva la caccia del toro, alla presenza dei magistrati cittadini
ognuno accompagnato da quattro servitori: un toro coperto da una
gualdrappa veniva condotto legato da dodici macellai, inseguito da
cani a ragazzini. Poi veniva introdotta una barca tirata con
carrucole, su cui salivano i marinai che con canne spruzzavano acqua
sulla folla assiepata in piazza, mentre i mugnai gettavano farina.
Grazie mille per questa interessantissima relazione. Per favore, mi potrebbe dire qual è la fonte per i dettagli della festa del Rigotto? Saluti da Cambridge (Regno Unito), Carlos.
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