giovedì 8 febbraio 2018

La battaglia nel campo di fagioli

Oberto Pallavicino da "Cremona Fedelissima"
All’ombra del Torrazzo il nemico s’inchina”, questa la scritta che campeggiava allo stadio Zini in curva sud tra i colori grigiorossi, sotto un Torrazzo alto come la curva e due simboli di Parma, lo scudo cruciato e due guerrieri, uno con le gambe nude. I tifosi cremonesi hanno dimostrato di conoscere bene la storia della loro città, riportando alla luce un episodio curioso avvenuto tanti secoli fa che ha per protagonista, da un lato Uberto Pallavicino divenuto nel 1249 "signore perpetuo" di Cremona, con l'appoggio di Buoso da Dovara, uno dei maggiori esponenti dello schieramento ghibellino locale, e dall'altro l'odiata Parma, dove l'anno prima, nel 1248, i cremonesi avevano rimediato una cocente sconfitta. L'episodio, passato alla storia come la “battaglia del campo dei fagioli” è ricordato anche da Antonio Campi nella sua “Cremona Fedelissima” con queste parole: “Lo sdegno, che havevano conceputo i Cremonesi per la perdita del loro Carroccio, nella rotta ricevuta sotto Parma, haveva loro talmente infiammati gli animi contra i Parmegiani, che altro non bramavano, se non di poterne far aspra vendetta, la onde chiamarono al governo di Cremona, con titolo di Podestà Ubertino ò (come lo chiamano altri) Uberto Pallavicino Marchese, huomo in quei tempi potentissimo, & di grandissima riputatione, & quello, che di non poca importanza era, Favorito sopramodo da Federigo Imperatore. Ne fu si tosto il Pallavicino assonto a questo supremo grado, che ragunate le genti da guerra de Cremonesi, messe insieme un potente essercito, con quale incontanente sotto Parma se n'andò, sperando che per esservi grandissima carestia di vivere, fosse il popolo per tumultuare, & dargliela nelle mani. Ma i Parmegiani poste da parte le discordie, che fra di loro per le fattioni contrarie si trovavano, & prese l'armi di commune concordia, se ne uscirono col loro Carroccio animosamente contra i nemici. Non furono però corrispondenti le forze al loro ardire, percioche attaccatasi la battaglia, dopò l'haver sostenuto per spatio di più di cinque hore il valore de' nimici, finalmente non potendo più resistere, diediero à Cremonesi tanto più honorata vittoria, con quanto maggior sudore essi se l'acquistarono. Furono condotti à Cremona meglio di due milla de' nimici prigioni, insieme col loro Carroccio, il quale perche tutto di panno bianco era coperto Biancarda era chiamato; Fù il Carroccio tenuto per trofeo per molti anni da Cremonesi, & i prigioni spogliati con troppo vendichevole scherno delle brache, à casa vergognosamente furono rimandati; Sono restate queste brache fino à giorni nostri sopra le volte del Duomo, appese à muri. Non tacerò quello che affermano alcuni - aggiunge il Campi – l'usanza di far correre il Toro ogn'anno nel giorno dell'Assuntione di Maria Vergine, haver havuto origine in questo tempo, per memoria della sopradetta vittoria, per essere quell'animale insegna de Parmegiani. E durata questa usanza, ò più tosto abuso, sino all'anno MDLXXV nel quale anno essendo venuto in Cremona Carlo Borromeo Cardianle di Santa Chiesa, Arcivescovo di Milano, e Visitator Apostolico, per far la visita della chiesa Cremonese, fù per riverenza (mi credo) di tant'huomo intermessa, & lasciata del tutto”.
La gioia dei Cremonesi per la vittoria è spiegabile con il fatto di non aver mai digerito la precedente sconfitta maturata a Vittoria il 12 febbraio del 1248, al punto che in diecimila avrebbero giurato di non radersi più barba e capelli fino a quando l'onta subita non fosse stata vendicata. Tanto che i ghibellini cremonesi, dopo la vittoria del “campo dei fagioli” assunsero il soprannome di “barbarasi”, avendo potuto sciogliere il loro voto.
La battaglia di Vittoria, 1248
Vittoria era la città-accampamento costruita nell'estate del 1247 da Federico II tra Parma e Fidenza durante l'assedio di Parma, per trascorrervi i mesi invernali nell'attesa della capitolazione della città: nelle intenzioni dello Svevo, una volta rasa al suolo Parma, i suoi abitanti avrebbero dovuto confluire a Vittoria, il cui nome evocativo adombrava il destino di futura capitale imperiale. In quanto centro operativo dell'imperatore, Vittoria era stata prescelta come luogo di deposito dei fondi liquidi, del tesoro, compresa la corona, delle vesti imperiali, delle armi, delle salmerie, delle vettovaglie e della biblioteca imperiale. Al momento della sua caduta era ancora in costruzione, una città in fieri, ben più simile a un accampamento che a una struttura urbana, ma la sua perdita ebbe pesanti conseguenze dal punto di vista politico e simbolico. In aiuto di Parma assediata erano accorsi i veronesi e i piacentini, e Gregorio da Montelongo giunto da Milano, legato papale in Lombardia nel 1238 e capo carismatico della reazione antisveva. Montelongo, abilissimo stratega, era stato inviato da papa Gregorio IX ad organizzare le forze filopapali nell'Italia lombarda, e sostenne la città nei lunghi mesi dell'assedio e rivestì un ruolo di primo piano anche nello scontro risolutivo. Si trattò di un'operazione vasta e complessa, svoltasi su un fronte lungo una ventina di chilometri dal Po a Parma e scandita da scontri plurimi e fulminei fra le truppe di re Enzo di Svevia e le milizie parmensi e milanesi.

Come racconta Salimbene de Adam, il 18 febbraio 1248 Federico era lontano dal campo, impegnato in una battuta di caccia col falco dalle parti di Busseto, quando un gruppo di parmensi trascinò il grosso dell'esercito imperiale lontano dalla città con una falsa sortita. Nel frattempo, il resto delle truppe parmensi con donne, fanciulli, giovani, vecchi attaccò Vittoria, avendo ragione con relativa facilità dei difensori rimasti. La città-accampamento fu ridotta in macerie e il tesoro imperiale fu depredato. La corona fu rinvenuta fra le rovine dal popolano "Curtuspassus", venduta ai parmensi per 200 lire imperiali e portata nella cattedrale cittadina. Taddeo de Sessa, insigne giurista e stretto collaboratore di Federico, venne catturato, mutilato delle mani e condotto in carcere a Parma. I vincitori s'impadronirono anche del carroccio dei cremonesi, e Vittoria rimase, secondo le parole di Salimbene de Adam, "civitas que fuit et non est". Lo stesso Federico da lontano vide il fumo della città di Vittoria incendiata e dovette ritirarsi oltre il Po a Cremona, seguito fra gli altri anche dal Marchese Uberto Pallavicino. Federico, seppur duramente colpito dal punto di vista militare e politico, neutralizzò in parte le conseguenze della disfatta inviando le milizie imperiali verso il Passo della Cisa per garantirsi un libero transito in direzione della Toscana e di Roma. Bernardo Orlando Rossi, già responsabile di una congiura ordita contro l'imperatore e fra i capi dei fuorusciti parmensi, venne catturato e ucciso dalle forze imperiali. La sconfitta rese anche l'imperatore ancor più consapevole della necessità di risolvere una volta per tutte la situazione della Lombardia, senza contare che ebbe ripercussioni anche dal punto di vista economico: per rifarsi delle perdite subite, infatti, egli si vide costretto a imporre una tassa di guerra straordinaria in Sicilia dove il malcontento per il carico fiscale costituiva da tempo uno dei problemi maggiori per il governo imperiale.
Federico II di Svevia
La distruzione di Vittoria, inoltre, ebbe un'importante valenza simbolica e scosse significativamente il prestigio di Federico, andando a incidere in maniera forte sulla sua immagine, sui modi della sua percezione nella sensibilità collettiva, sulle interdizioni culturali e sui condizionamenti di ordine etico-politico che ne accompagnavano la persona e il ruolo. Basta ricordare gli episodi cremonesi citati da Jacopo d'Acqui e Salimbene da Adam. Nel primo un semplice popolano lo rimprovera dicendogli. “O imperatore, meritereste di essere decapitato, perchè avete abbandonato Vittoria per dedicarvi ai vostri svaghi preferiti”. Nell'altro un gobbo a Federico, che gli chiede quando aprirà la sua cassetta, cioè la gobba, risponde che non può aprirla perchè ha perso la chiave a Vittoria.
Nel 1249, riorganizzato l’esercito, Federico II ripassò il Po e mosse contro i Milanesi che con i Piacentini andavano a difendere Parma; lo scontro però non avvenne, Federico si recò a Pisa dove il 9 Maggio 1249 procedeva all’investitura del dominio Pallavicino in favore del Marchese Uberto. Nel diploma imperiale sono elencati i possessi del Pallavicino nelle Diocesi di Cremona (Busseto, Zibello, S. Croce, Ragazzola, Tolarolo, Polesine), Parma, Piacenza, Volterra. Caduto Re Enzo, figlio dell’imperatore, prigioniero dei Bolognesi, Federico si ritirò nel Regno di Napoli e nell’Ottobre 1250 da Foggia inviò al fedelissimo Uberto un altro diploma, con cui gli donava nuovi privilegi e Busseto col suo territorio si configurava come una Signoria svincolata da qualsiasi altra città della Lombardia: è forse questo il primo atto ufficiale della esistenza dello Stato Pallavicino. In quello stesso anno Uberto fu eletto Podestà di Cremona e, in forza di questo potere,rafforzò il castello di Busseto capitale della sua Marca. Nel frattempo Uberto il 18 Agosto 1250 si impadronì di Borgo San Donnino e poi continuò la sua marcia verso Parma, dove ingaggiò la micidiale battaglia così attesa dai cremonesi.
La Cronica di Salimbene de Adam tratteggia l'aspetto fisico del marchese in modo poco rispondente a quello che si ritiene proprio di un condottiero: precocemente invecchiato, gracile, cagionevole di salute, e per di più privo di un occhio che un gallo gli aveva strappato quando era ancora in culla. Quanto al carattere, era quello di persona assetata di potere e quindi disposta, per conseguire nuovi successi, a sacrificare anche chi aveva condiviso con lui tante esperienze; tuttavia capace di pensare in grande (dotato "magnifici cordis"), tale da suscitare un'indiscutibile ammirazione.

La Festa del Toro in un'incisione del Cipelli del 1572
La Festa del Toro, che il Campi fa risalire al ricordo della battaglia del “campo dei fagioli”, era preceduta dalla festa del Rigotto, che iniziava la mattina del 14 agosto quando la piazza si animava con una battaglia tra ragazzi che si lanciavano mele, pere, meloni ed angurie. Per tradizione i più poveri di essi chiedevano per quel giorno l'affitto delle aree della piazza ai venditori che normalmente le occupavano. Poi prendevano posto su dei banchi i 150 consiglieri del Comune, il podestà, il governatore ed il comandante delle milizie cittadine preceduti dal suono dei pifferai collocati sopra l'arengario. I brentadori innaffiavano allora la piazza mentre le statue di Berta e Baldesio, poste sotto la Bertazzola, venivano rivestite dai fornai con abiti in panno bianco e rosso, colori della città, mentre l'abito ed il cappello vecchio rigato con gli stessi colori (chiamato appunto Rigotto), dentro cui veniva nascosta una moneta da sei zecchini o fiorini, venivano gettati alla folla che ingaggiava una battaglia per aggiudicarseli. Questa festa cessò definitivamente nel 1773. Il giorno successivo, Festa dell'Assunta, tutti i rappresentanti delle categorie mercantili della città e del contado si trovavano in Duomo e, chiamati da un banditore, presentavano ai Fabbriceri offerte in cera e denaro. In piazza si teneva la caccia del toro, alla presenza dei magistrati cittadini ognuno accompagnato da quattro servitori: un toro coperto da una gualdrappa veniva condotto legato da dodici macellai, inseguito da cani a ragazzini. Poi veniva introdotta una barca tirata con carrucole, su cui salivano i marinai che con canne spruzzavano acqua sulla folla assiepata in piazza, mentre i mugnai gettavano farina.


1 commento:

  1. Grazie mille per questa interessantissima relazione. Per favore, mi potrebbe dire qual è la fonte per i dettagli della festa del Rigotto? Saluti da Cambridge (Regno Unito), Carlos.

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