Dipinto di Sofonisba Anguissola |
Fra la fine del ’500 e l’inizio del
’600 anche Cremona avvertiva i primi segni di quella crisi che, con
l’avanzare del secolo, avrebbe pesantemente influenzato la
redditività della produzione e dei commerci.
Ad esclusione delle poche grandi
famiglie i cui cospicui patrimoni erano inattaccabili, una larga
parte della nobiltà medio-piccola e delle agiate famiglie mercantili
non aveva tenuto conto di come le eccessive spese avessero non solo
assottigliato le rendite ma anche eroso le relative fonti, preludio a
una totale rovina. Limitare il consueto dispendioso tenore di vita e
l’ostentazione di ricchi acquisti, abbigliamenti ed abitudini
lussuose significava per loro non solo perdere una personale
gratificazione ma anche rinunciare alle abitudini che, in un mondo
che giudicava esclusivamente dall’apparenza, erano ritenute
indispensabili al mantenimento di un certo status e costituivano il
presupposto per l’ambito passaggio a livelli sociali superiori.
E’ noto che il governo e direttamente
lo stesso sovrano, già alla fine del Secolo XVI tentarono di frenare
questa incosciente corsa allo sperpero con l’emanazione delle note
leggi suntuarie tese ad eliminare gli eccessi sul vestire e sul
banchettare, ossia gli esempi più eclatanti di un lusso che, per
mantenere un apparente prestigio, causava tracolli finanziari con
ricadute a catena anche sul ceto mercantile.
Uno degli intenti di queste leggi, che
avevano anche risvolti psicologici, era quello di trasformare in
obbedienza la scelta di una certa moderazione nell’uso di ornamenti
preziosi e di drappi tessuti d’oro ed argento sia
nell’abbigliamento femminile che in quello maschile. Stabilendo il
tipo e il numero di ornamenti che dovevano indossare uomini, donne
sposate e giovani da marito si pensava di convincere l’opinione
pubblica che un abbigliamento relativamente modesto o banchetti meno
sontuosi non sarebbero stati considerati indice di decadenza
economica, ma bensì un atto di rispetto dovuto alla legge.
Per avere un’idea degli eccessi cui
era giunta la nobiltà cremonese basta leggere il contenuto
dell’armadio della moglie del castellano di Santa Croce: “Una
veste di damasco taneto fodrata di pelle, listata di velluto. Una
veste di veluto negro di bassetta nera con due nervetti di veluto
nero. Una veste di damasco nero listato di veluto e foderata di
bassetta nera. Una veste di salia nera listata di veluto nero per il
tempo della notte, foderata di veluto. Una veste di veluto nero
foderta con liste di veluto. Una veste di damasco fodrata di velto
con liste di veluto. Una veste di veluto nero foderata di raso per
cavalcare. Una veste di damasco nero con due listini di veluto. Una
vesticiola di veluto nero ad uso cavalcare. Una vesticina di olmesino
per le soprascritte vesti. Sette salie di veluto di raso, di damasco,
di panno, listate di veluto di raso e di passamani”.
Ritratto di Bianca Ponzoni (S. Anguissola) |
Se poi andiamo a curiosare nel bauletto
foderato di velluto nero, coperto di cuoio e ornato di gioielli di
casa Ponzoni, troviamo “una cinta d’oro di 17 pezzi; un friso
d’oro con tre diamanti e 16 perle; un gioiello grande con un
balasso e una perla grossa; numero 600 tramezzi d’oro; numero 600
granate; quattro medaglie d’oro, due rubini, rose da cappa; bottoni
e rosette da berretta e puntali d’oro, 30 rosette con perle, manico
da ventaglio d’oro con piume incarnate bianche e celestine; perle e
conchiglie; braccialetto d’oro pieno di composizione di muschio; un
anello con diamantee due con rubini; uno smeraldo; 4 collane d’oro;
un cammeo, legato in oro; una mandola d’oro; 22 pater noster d’oro;
una crocetta d’oro da mettere in fondo ad una collana”.
La moda del tempo aveva infarcito i
vestiti scollati di arabeschi, figurine, stelle, grandi borchie, le
vesti avevano lunghi strascichi, con maniche lunghe ed ampie, aperte
sul davanti e guarnite di bottoni d’oro e d’argento, erano
attillate, senza colletti e molto scollate. I vestiti erano foderati
in lontra, ermellino, zibellino, martora, in pelle di gatto di Spagna
e di lupo cerniero, trionfavano i velluti lisci, a colori vivaci con
preferenze per il rosso, il verde, il celeste e il marrone, i velluti
a fiorami, cesellati e con decorazioni a raso, a mazzi di fiori
collegati da lunghe strisce ondulate. Di gran moda anche i broccati,
del tipo riccio, damaschino, damasco semplice, d’oro e d’argento
con fiorami e motivi vegetali. Nella confezione dei vestiti erano
pure utilizzati seta, raso e altre stoffe, su cui venivano applicate
perle e oro fra i ricami.
Il ricamo era in particolare una
caratteristica cremonese ed era comune riprodurre sulle vesti fiori,
rose, rami, uccelli, struzzi e pavoni. Si ricordano anche i nomi di
alcuni celebri ricamatori: il padre di Boccaccio Boccaccino, Antonio,
Maffiolo e Francesco da Cremona. Erano figurate anche le calze con
cani, lupi, leoni, serpi attorcigliate e la fantasai si sbizzarriva
anche nei cappelli, dalle forme più strane ma sempre rigorosamente
ricamati di tessuti d’oro e d’argento.
Ovviamente non tutti gradirono le
disposizioni per una minore ostentazione di ricchezza contenute nelle
leggi suntuarie del 1572. Molti nobili chiesero di poter dilazionare
nel tempo l’applicazione delle indicazioni, magari ricorrendo
all’espediente di portare oro battuto “in bottoniere della casaca
et al capin della capa et bazzetta, e in la cintura passamani o
treccie d’oro o argenti come vorrà ognuno come si osserva in
Ispagna”, anche perchè, tutto sommato “che mettendoselo in dosso
l’oro non si spendeva perchè il dinaro sta sempre lì”.
Per le donne sposate di ogni ceto e
condizione sociale si consigliavano abiti semplici senz’oro e
argento battuto, tessuto o filato che fosse, senza ricami, cordoncini
e ornamento. Le vesti però potevano essere listate con drappi di
seta pura, purchè fossero di foggia molto semplice ed erano permessi
non più di tre abiti di seta con sottane. Proibiti perle, gioielli,
oro e argento sule acconciature e sulle cinture, ma permessi
orecchini pendenti purchè non superiori al valore di 3 scudi, due
anelli alle dita del valore massimo di 30 scudi d’oro e al collo
una collana di 5 scudi ed una catena d’oro priva di smalti da 15
scudi per appendervi un ventaglio.
I guanti potevano essere ricamati in
pelle di gibellino e per l’inverno ci si poteva riscaldare le mani
con manizze, ma prive d’oro e d’argento, di perle o ricami ma
foderate di pelle di lupo cerniero. Qualche ornamento di seta pura
era permesso solo nelle vesti, con maniche ampie e aperte, che
potevano anche essere ornate d’oro, fino ad un massimo di 30 scudi.
Berrette, prive di ornamento, potevano essere indossate solo di notte
o in viaggio.
Partita a scacchi di Giulio Campi |
Questa severità di costumi non valeva
per la biancheria, che poteva essere elegante e raffinata, con i
pizzi più svariati, ricami e guarnizioni ricamate veri capolavori di
arte certosina e grande uso di seta. Le cremonesi non lesinavano in
belletti e profumi e facevano un uso smodato delle tinture, mutando a
volontà il colore dei capelli. Particolari accorgimenti dovevano
anche adottare “quelle” signore, che dovevano portare in testa
una berretta senza ornamenti e sul davanti una cintola o una banda di
taffetà rosso larga un quarto di braccio e ben visibile, che doveva
scendere per tutta la lunghezza del vestito, mentre erano stati
aboliti i campanelli a sonagli.
Non meno venali dovevano essere gli
uomini, se è vero che le leggi suntuarie facevano divieto di portare
collane, collari, braccialetti, perle, gioie, e qualsiasi oggetto
d’oro battuto, tessuto o filato. Sulla berretta potevano portare
solo una medaglia o qualche altro ornamento che non costasse più di
16 scudi, alle dita era permesso un solo anello e chi portava una
spada o un pugnale era obbligato a guarnirlo in solo velluto, così
come la cintura, che non poteva avere ne’ passamani, cordoncini o
lavori in oro e argento.
Quando le norme antilusso, nel 1592,
si ammorbidirono un po’, tornarono in voga bottoniere in oro
battuto, purchè non costassero più di 50 scudi, e sui cappelli
fecero la loro comparsa fasce e veli lavorati e ricamati d’oro e
d’argento. Piume di ogni genere, tranne quelle di aironi,
troneggiavano sui cappelli, anelli con gioe e smalti alle dita, e
guanti profumati che non potevano, però, superare i 3 scudi. Spade e
pugnali potevano avere manici d’oro e argento, così come d’oro e
argento filato potevano esser selle e finimenti.
Il problema non si poneva per tutti gli
altri: fabbri, calzolai, formaggiai, macellai, falegnami, fornai,
sarti, osti e a quelli “uguali ed inferiori, e a tutte le loro
donne”: non potevano portare vesti e calze di seta, era ammessa una
sola veste di olmesino per le donne, e una collana d’oro o di
coralli da dieci scudi. E chi disobbediva agli ordini? Per chi era
residente in città da almeno due mesi la pena era di 50 scudi d’oro
e la perdita dei vestiti, che dovevano essere devoluti gli orfani, ai
mendicati ed allo stesso denunciante, tenuto ovviamente segreto. Ai
sarti, che avevano confezionato i vestiti incriminati, venivano
comminati 25 scudi di mula ogni volta e, se insolventi, tre tratti di
corda.
Gli ordini per disciplinare il lusso si
facevano sentire anche a tavola. Questo infatti è il periodo dei
grandi apparati e delle messinscene senza uguali. La cucina
rinascimentale, come emerge dai ricettari, è senz’altro una cucina
dalle pratiche rinnovate, dai piatti nuovi, senza pari nell’Europa
dell’epoca, resta però di ispirazione medievale, nonostante i
cuochi abbiano adattato e rielaborato molti tratti del passato.
Soggetta alle stesse prescrizioni
religiose del periodo precedente e perciò obbligata all’alternanza
dei giorni di magro e di grasso, nel Rinascimento la cucina patisce
forse un po’ più di rigore in questo senso a causa della
Controriforma. Del passato è ancora presente l’abbondante uso
delle spezie che, per quanto venga sensibilmente attenuato, resta un
tratto caratterizzante. Come del resto è ancora massicciamente
presente lo zucchero.
Mangiaricotta di Vincenzo Campi |
Leggendo i testi di cucina del
Cinquecento si può dire che il gusto dominante è proprio quello
dolce, anche se non va dimenticato che questo ingrediente è
essenzialmente un elemento di distinzione sociale per la società di
corte e forse la sua presenza è più legata all’ostentazione che a
un’autentica passione per questo sapore dolce. Le leggi suntuarie
del 1572, però, che vietavano per questo motivo l’uso e il
commercio di marzapane, confetti, torte di pinoli e canditi, non
mettevano nessuna limitazione all’uso e consumo del torrone.
L’eredità medievale include ancora
tutti gli arrosti, precedentemente sbollentati in acqua per
ammorbidirli, le paste ripiene, le torte e i pasticci in crosta, nei
quali non troviamo più rinchiusi animali interi o addirittura vivi,
ma carni disossate. Si presentano ancora gli animali “come vivi”,
cioè ricomposti e rivestiti del loro piumaggio o del loro pelo,
decorati con oro o ricoperti di colori. Per evitare comunque abusi
anche in questo settore, gli ordini fornivano l’esempio di due
banchetti, uno di grasso e uno di magro, gli unici permessi alla
nobiltà.
Ma la lista dei cibi e delle bevande
lascia stupefatti. La lista dei pranzi di grasso prevede: “All’inizio
del pranzo antipasto di una sola sorta di confetti, marzapane,
pignocate e offelle. 2. Minestra ordinaria. 3. Una sorte di
selvaggina, pavoni nostrani o polli d’india, ovvero: pernici,
lepri, tortore, quaglie con pasticcio. 4. Quattro sorta di arrosto
domestico. 5. Quattro sorte di lesso di carni domestiche; ovvero tre
sorta di arrosti. 6. Un pasticcio di carne. 7 Due sorte di torte o
una sola di tartara (crema). 8. Due sorte di paste, tartufole,
gambari, lumache e lattemiele: 9. Ogni sorta di frutta cruda e cotta.
Esclusi gli articiocchi d’inverno. 10. Alla fine del pranzo: tre
sorta di confetto bianco di zucchero (non più di 2 libbre), cotogni,
cotognate di zuccaro in vasetti. Torrone in miele in due scattole;
pistacchi crudi in due piatti”.
Il pranzo di magro: “ All’inizio
del pranzo. Antipasti, una sorte di confetti, marzapane, pignocata.
2. Minestra ordinaria. 3. Due sorte di pesce di mare o di lago,
ovvero: tre sorte di pesce d’acqua dolce arrosto, ovvero: due sorte
di pesce selvatico; storione compreso. 4. Tre sorte di pesce d’acqua
dolce arrosto, ovvero: tre sorte di pesce nostrano arrosto o a lesso.
5. Pasticci di pesce d’acqua dolce. 6. Quattro torte. 7. Alla fine
del pranzo: due sorte di confetti di zuccaro, cotognata, copeta,
torrone. Vini a piacimento”.
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