Uno straordinario affresco del Cinquecento comparso
misteriosamente in un garage di via dei Mille ed un architetto cremonese che
decide di saperne di più fino a supporre di trovarsi di fronte alle vestigia
del misterioso Ospedale di Sant’Agata, ricordato fin dall’XI secolo ma di cui
nel tempo si erano perse le tracce. Tutto inizia quasi quarant’anni fa, nel
1974 quando, al numero 11/a di via dei Mille, cessa l’attività una bottega di
macelleria. Il proprietario dello stabile, l’architetto Aurelio Borrini, decide
allora di ristrutturare la propria abitazione, compresa la ex bottega, dove il
muro di fondo tampona due archi retti da colonne in cotto su un altissimo
plinto, che a loro volta costituiscono un piccolo ambiente diviso da tramezze.
Viene rimosso il muro di tamponamento e liberate alla vista le due colonne ed
il lavoro procede fino a quando, rimuovendo le mattonelle che rivestono i muri,
compaiono alla base del muro perimetrale destro due buchi, una sorta di ampie
feritorie regolari che trapassano la spessa parete da parte a parte. Poi le
prime tracce di una pittura in parte caduta, soprattutto alla base, dove sotto
l’intonaco dipinto compaiono vistose tracce di nerofumo che interessano quasi
l’intera parete. L’affresco fu sicuramente realizzato per nascondere le tracce
di quell’incendio che aveva annerito la parete. Ma perchè? Mano a mano che
procede la pulitura la scena prende forma. Sulla sinistra giace su un cumulo di
una sostanza imprecisata una figura nuda di santo con il capo aureolato ed il
corpo cosparso di piaghe a cui rivolge, tendendogli una sorta di pertica o pala
di legno, un’altra figura vestita di rosso che con la mano libera mostra di
turarsi il naso. La scena si svolge all’aperto in un paesaggio montano, dove si
nota però sullo sfondo la presenza di un borgo. Una fascia dipinta sulla parte
superiore non lascia dubbi: MDXXIII die XV frevaro. Quindici febbraio del 1523.
Più sopra, alla sommità dell’arco che incornicia la scena, in un ovale la
figura di Dio benedicente. L’iconografia è nota: raffigura san Giobbe e le sue
note disgrazie. La tradizione cristiana, lo considera modello di santità e
spesso anche tipo del Cristo sofferente. Dai Padri antichi in genere è chiamato
“profeta” e da qualcuno anche “martire” per le sue molte sofferenze. Il suo
esempio di straordinaria pazienza fu proposto all’imitazione dei fedeli già da
S. Clemente Romano e poi da S. Cipriano da Tertulliano e da tanti altri, sia in
Oriente sia in Occidente. La sua immagine, poi, ricorre spesso negli affreschi
degli antichi cimiteri cristiani e in numerosissimi sarcofagi d’Italia e della
Gallia. La Bibbia narra che Giobbe era al colmo della ricchezza e della
felicità quando improvvisamente fu colpito da una lunga serie di disgrazie che
lo privarono in breve tempo di ogni suo avere e perfino dei figli. Colpito da
una ributtante malattia che lo riduce tutto una piaga, Giobbe non perde la sua
calma, neppure davanti allo scherno e alla derisione della moglie. Cacciato di
casa, è costretto a passare i suoi giorni in mezzo ad un letamaio.
L’altra
figura è sicuramente quella della moglie che, turandosi il naso per la puzza
sia del letamaio che delle piaghe del povero Giobbe, offre al malato del cibo
mediante una lunga pala che le evita di avvicinarsi. E’ una scena ricorrente
nell’iconografia del santo, come quella che compare su una icona orientale che
riproduciamo.
Giobbe fu venerato anche in Occidente. Gli furono dedicate
delle chiese, come a Venezia, a Bologna e in Belgio, degli ospedali, dei
lebbrosari. Ed è probabilmente la parete di un ospedale quella su cui, nel
1523, fu dipinta la scena per nascondere le tracce del fuoco. Acceso, con ogni
probabilità dagli infermi, appestati o lebbrosi, che sostavano lungo quel muro
in attesa che una mano pietosa passasse loro un tozzo di pane dalle due
feritoie. Originariamente, infatti, la loggia sostenuta dalle due colonne
all’esterno del muro perimetrale dell’ospedale dava su un vicolo, già chiuso al
tempo della mappa del Campi nel 1573, ed oggi ricostruibile seguendo le tracce
lasciate nel percorso lungo i piccoli cortili delle case retrostanti.
L’ospedale potrebbe essere quello di Sant’Agata, già
ricordato nella bolla papale di Gregorio VII nel 1077 che secondo il Bonafossa
sarebbe stato collocato originariamente nella vicinia di Santa Croce, dove oggi
è piazza Castello, e poi demolito da Barnaba Visconti per far posto al
castello. Che fosse trasferito in un’altra sede, messa a disposizione da
qualche nobile donatore, è un’ipotesi sicuramente possibile che il nostro
affresco potrebbe confermare.
Ma torniamo al nostro Giobbe. La sua figura, in realtà, non
è molto frequente nella storia dell’arte. Il ciclo più noto è conservato nella
navata sinistra della collegiata di San Gimignano, realizzato da Bartolo di
Fredi tra il 1356 e il 1367. Le rappresentazioni iconografiche più note sono
invece comprese tra l’epoca rinascimentale e il primo Seicento. Ricordiamo
Carpaccio, Albrecht Dürer e il pittore francese caravaggesco Geroge de la Tour
che ha raffigurato la scena decisamente più nota, con Giobbe seduto sul
letamaio che viene vistato dalla moglie. In realtà quest’ultima è l’iconografia
più recente. La presenza del letamaio, infatti, è molto importante perché la
fonte biblica canonica parla invece di una montagna di cenere, su cui Giobbe si
sarebbe buttato in segno di totale sottomissione di sé, rispetto al volere di
Dio, al quale umilmente chiedeva aiuto. Invece la versione con il letamaio, che
deriva dal Vangelo di Giobbe, un testo apocrifo conosciuto anche in ambito musulmano,
vuole probabilmente significare un fattore in fondo positivo, in quanto il
letamaio, nella cultura contadina, viene visto come luogo di rigenerazione dove
addirittura, come nel caso dei vermi, può nascere la vita. Secondo una leggenda
contadina, infatti, i vermi usciti dalle piaghe di Giobbe sarebbero saliti su
una pianta trasformandosi in bachi da seta. In Brianza, ad esempio, in
occasione della festa del 10 maggio venivano benedette le cosiddette maestà,
delle stampe a carattere religioso che venivano appese nelle camere dove si
allevavano i bachi da seta. Non a caso San Giobbe era invocato proprio a
protezione di quel prezioso baco da seta che, dopo un duro lavoro, permetteva
ai contadini delle entrate importanti in un’epoca in cui la vita era molto
dura. A Cassano le prime vendite di bozzoli o cavalé risalgono ai primi anni
del Cinquecento, e probabilmente già allora il santo veniva invocato, come lo
invocavano migliaia di contadini in tutta Italia, dalla Lombardia dalla
Calabria, dalla Toscana al Veneto. E’ piuttosto bizzarro questo accostamento di
Giobbe ai bachi da seta: gli studi condotti da Claudio Zanier hanno dimostrato
che ciò nasce dalla rilettura dei racconti biblici in Palestina in età
medievale, che si diffonde dapprima nel mondo panarabo, poi in quello iranico e
infine, attraverso Venezia e il mondo greco, anche in Italia. Nei racconti
popolari viene sottolineata la perseveranza di Giobbe, nonostante le disgrazie
e viene data enfasi al lieto fine. Nel contempo gli stessi racconti, così come
l’iconografia medievale, sottolineano come dalle piaghe di Giobbe nascano i
vermi, gli stessi che i contadini identificavano con i bruchi del baco da seta. Con estrema naturalezza la
civiltà contadina lo elegge proprio protettore per questa attività. Tutta
l’iconografia si adegua a questa nuova interpretazione, che è certamente
difforme dalla posizione della Chiesa ufficiale, soprattutto dopo la
Controriforma, quando vengono abbandonati i santi vetero testamentari. La forza
di questo culto fu tale che sorsero chiese società, confraternite a lui
dedicate in moltissime regioni italiane. Così nel 1619 i padri agostiniani di
Spilambergo, nel modenese, poterono portare in processione un quadro di san
Giobbe con i bachi e collocarlo in chiesa solennemente, non senza aver prima
dato indicazioni su come allevare i bachi. Già nel 1400 Giobbe era stato
dipinto in un altro eremo agostiniano, quello di Lecceto, e anche qui se ne
stava seduto in mezzo a un mucchio di foglie e letame con tanti vermicelli a
fargli compagnia. In Slovenia San Giobbe venne assurto a protettore degli
apicoltori. L’iconografia, comprese le numerose immagini ritratte dalla
tradizione popolare sui frontali delle arnie slovene sia moderne che
antiche, lo dipinge come un
vecchio barbuto seduto su un cumulo di letame, con la pelle completamente
ricoperta da bubboni da cui escono larve che daranno origine ad api da miele.
In epoca paleocristiana Giobbe viene assimilato a un santo e raffigurato come
un anziano penitente, seminudo, di solito calvo con una fluente barba bianca,
con il corpo piagato e facilmente confondibile con altri santi eremiti come san
Gerolamo e sant’Onofrio.
Nel nostro caso, invece, Giobbe ha le sembianze di un
giovane uomo, con il viso incorniciato da una leggera barba, L’autore, con ogni
probabilità, è più sensibile alla tradizione che prefigura nel patriarca
dell’Antico Testamento le sofferenze di Cristo e, di conseguenza, lo raffigura
secondo questa iconografia. L’assenza dei bachi da seta lascia propendere per
l’interpretazione più tradizionale
di Giobbe, venerato qui come protettore delle malattie della pelle. L’autore
mostra di essere estraneo ai grandi modelli artistici cronologicamente più
vicini, come ad esempio la Meditazione su Cristo morto de Carpaccio (verso il
1510), o la pala di san Giobbe del Giambellino, del 1487, oggi alle Gallerie
dell’Accademia di Venezia, ma anche ai modelli più prossimi geograficamente,
come l’affresco con San Giobbe, S. Antonio abate e San Bernardo nel santuario
della Madonna della Fontana di Casalmaggiore dei primi decenni del XVI secolo,
ma sembra riferirsi piuttosto all’iconografia più diffusa del santo, così come
è visibile, ad esempio, nelal xilografia del tedesco Hans Baldung Grien,
allievo di Dürer, del 1509. In conclusione, un artista popolare che esegue un
soggetto conosciuto, seguendo le indicazioni di un committente senza troppe
pretese, con il fine apotropaico di proteggere gli abitanti di quella casa sul
cui muro fu dipinto nel febbraio del 1523. Resta da capire se possa trattarsi
davvero del perduto Ospedale di Sant’Agata o piuttosto di un laboratorio di
tessitura, come lascerebbe intuire la presenza di un albero posto alle spalle
di Giobbe, sul quale, secondo la tradizione contadina, si sarebbero inerpicati
i vermi prodotti dal letame. La perdita della parte inferiore dell’affresco,
distrutta dall’incendio, rende impossibile dirimere la questione.
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