martedì 6 novembre 2012

San Giobbe e l'ospedale perduto


Uno straordinario affresco del Cinquecento comparso misteriosamente in un garage di via dei Mille ed un architetto cremonese che decide di saperne di più fino a supporre di trovarsi di fronte alle vestigia del misterioso Ospedale di Sant’Agata, ricordato fin dall’XI secolo ma di cui nel tempo si erano perse le tracce. Tutto inizia quasi quarant’anni fa, nel 1974 quando, al numero 11/a di via dei Mille, cessa l’attività una bottega di macelleria. Il proprietario dello stabile, l’architetto Aurelio Borrini, decide allora di ristrutturare la propria abitazione, compresa la ex bottega, dove il muro di fondo tampona due archi retti da colonne in cotto su un altissimo plinto, che a loro volta costituiscono un piccolo ambiente diviso da tramezze. Viene rimosso il muro di tamponamento e liberate alla vista le due colonne ed il lavoro procede fino a quando, rimuovendo le mattonelle che rivestono i muri, compaiono alla base del muro perimetrale destro due buchi, una sorta di ampie feritorie regolari che trapassano la spessa parete da parte a parte. Poi le prime tracce di una pittura in parte caduta, soprattutto alla base, dove sotto l’intonaco dipinto compaiono vistose tracce di nerofumo che interessano quasi l’intera parete. L’affresco fu sicuramente realizzato per nascondere le tracce di quell’incendio che aveva annerito la parete. Ma perchè? Mano a mano che procede la pulitura la scena prende forma. Sulla sinistra giace su un cumulo di una sostanza imprecisata una figura nuda di santo con il capo aureolato ed il corpo cosparso di piaghe a cui rivolge, tendendogli una sorta di pertica o pala di legno, un’altra figura vestita di rosso che con la mano libera mostra di turarsi il naso. La scena si svolge all’aperto in un paesaggio montano, dove si nota però sullo sfondo la presenza di un borgo. Una fascia dipinta sulla parte superiore non lascia dubbi: MDXXIII die XV frevaro. Quindici febbraio del 1523. Più sopra, alla sommità dell’arco che incornicia la scena, in un ovale la figura di Dio benedicente. L’iconografia è nota: raffigura san Giobbe e le sue note disgrazie. La tradizione cristiana, lo considera modello di santità e spesso anche tipo del Cristo sofferente. Dai Padri antichi in genere è chiamato “profeta” e da qualcuno anche “martire” per le sue molte sofferenze. Il suo esempio di straordinaria pazienza fu proposto all’imitazione dei fedeli già da S. Clemente Romano e poi da S. Cipriano da Tertulliano e da tanti altri, sia in Oriente sia in Occidente. La sua immagine, poi, ricorre spesso negli affreschi degli antichi cimiteri cristiani e in numerosissimi sarcofagi d’Italia e della Gallia. La Bibbia narra che Giobbe era al colmo della ricchezza e della felicità quando improvvisamente fu colpito da una lunga serie di disgrazie che lo privarono in breve tempo di ogni suo avere e perfino dei figli. Colpito da una ributtante malattia che lo riduce tutto una piaga, Giobbe non perde la sua calma, neppure davanti allo scherno e alla derisione della moglie. Cacciato di casa, è costretto a passare i suoi giorni in mezzo ad un letamaio. 
L’altra figura è sicuramente quella della moglie che, turandosi il naso per la puzza sia del letamaio che delle piaghe del povero Giobbe, offre al malato del cibo mediante una lunga pala che le evita di avvicinarsi. E’ una scena ricorrente nell’iconografia del santo, come quella che compare su una icona orientale che riproduciamo.
Giobbe fu venerato anche in Occidente. Gli furono dedicate delle chiese, come a Venezia, a Bologna e in Belgio, degli ospedali, dei lebbrosari. Ed è probabilmente la parete di un ospedale quella su cui, nel 1523, fu dipinta la scena per nascondere le tracce del fuoco. Acceso, con ogni probabilità dagli infermi, appestati o lebbrosi, che sostavano lungo quel muro in attesa che una mano pietosa passasse loro un tozzo di pane dalle due feritoie. Originariamente, infatti, la loggia sostenuta dalle due colonne all’esterno del muro perimetrale dell’ospedale dava su un vicolo, già chiuso al tempo della mappa del Campi nel 1573, ed oggi ricostruibile seguendo le tracce lasciate nel percorso lungo i piccoli cortili delle case retrostanti.
L’ospedale potrebbe essere quello di Sant’Agata, già ricordato nella bolla papale di Gregorio VII nel 1077 che secondo il Bonafossa sarebbe stato collocato originariamente nella vicinia di Santa Croce, dove oggi è piazza Castello, e poi demolito da Barnaba Visconti per far posto al castello. Che fosse trasferito in un’altra sede, messa a disposizione da qualche nobile donatore, è un’ipotesi sicuramente possibile che il nostro affresco potrebbe confermare.
Ma torniamo al nostro Giobbe. La sua figura, in realtà, non è molto frequente nella storia dell’arte. Il ciclo più noto è conservato nella navata sinistra della collegiata di San Gimignano, realizzato da Bartolo di Fredi tra il 1356 e il 1367. Le rappresentazioni iconografiche più note sono invece comprese tra l’epoca rinascimentale e il primo Seicento. Ricordiamo Carpaccio, Albrecht Dürer e il pittore francese caravaggesco Geroge de la Tour che ha raffigurato la scena decisamente più nota, con Giobbe seduto sul letamaio che viene vistato dalla moglie. In realtà quest’ultima è l’iconografia più recente. La presenza del letamaio, infatti, è molto importante perché la fonte biblica canonica parla invece di una montagna di cenere, su cui Giobbe si sarebbe buttato in segno di totale sottomissione di sé, rispetto al volere di Dio, al quale umilmente chiedeva aiuto. Invece la versione con il letamaio, che deriva dal Vangelo di Giobbe, un testo apocrifo conosciuto anche in ambito musulmano, vuole probabilmente significare un fattore in fondo positivo, in quanto il letamaio, nella cultura contadina, viene visto come luogo di rigenerazione dove addirittura, come nel caso dei vermi, può nascere la vita. Secondo una leggenda contadina, infatti, i vermi usciti dalle piaghe di Giobbe sarebbero saliti su una pianta trasformandosi in bachi da seta. In Brianza, ad esempio, in occasione della festa del 10 maggio venivano benedette le cosiddette maestà, delle stampe a carattere religioso che venivano appese nelle camere dove si allevavano i bachi da seta. Non a caso San Giobbe era invocato proprio a protezione di quel prezioso baco da seta che, dopo un duro lavoro, permetteva ai contadini delle entrate importanti in un’epoca in cui la vita era molto dura. A Cassano le prime vendite di bozzoli o cavalé risalgono ai primi anni del Cinquecento, e probabilmente già allora il santo veniva invocato, come lo invocavano migliaia di contadini in tutta Italia, dalla Lombardia dalla Calabria, dalla Toscana al Veneto. E’ piuttosto bizzarro questo accostamento di Giobbe ai bachi da seta: gli studi condotti da Claudio Zanier hanno dimostrato che ciò nasce dalla rilettura dei racconti biblici in Palestina in età medievale, che si diffonde dapprima nel mondo panarabo, poi in quello iranico e infine, attraverso Venezia e il mondo greco, anche in Italia. Nei racconti popolari viene sottolineata la perseveranza di Giobbe, nonostante le disgrazie e viene data enfasi al lieto fine. Nel contempo gli stessi racconti, così come l’iconografia medievale, sottolineano come dalle piaghe di Giobbe nascano i vermi, gli stessi che i contadini identificavano  con i bruchi del baco da seta. Con estrema naturalezza la civiltà contadina lo elegge proprio protettore per questa attività. Tutta l’iconografia si adegua a questa nuova interpretazione, che è certamente difforme dalla posizione della Chiesa ufficiale, soprattutto dopo la Controriforma, quando vengono abbandonati i santi vetero testamentari. La forza di questo culto fu tale che sorsero chiese società, confraternite a lui dedicate in moltissime regioni italiane. Così nel 1619 i padri agostiniani di Spilambergo, nel modenese, poterono portare in processione un quadro di san Giobbe con i bachi e collocarlo in chiesa solennemente, non senza aver prima dato indicazioni su come allevare i bachi. Già nel 1400 Giobbe era stato dipinto in un altro eremo agostiniano, quello di Lecceto, e anche qui se ne stava seduto in mezzo a un mucchio di foglie e letame con tanti vermicelli a fargli compagnia. In Slovenia San Giobbe venne assurto a protettore degli apicoltori. L’iconografia, comprese le numerose immagini ritratte dalla tradizione popolare sui frontali delle arnie slovene sia moderne che antiche,  lo dipinge come un vecchio barbuto seduto su un cumulo di letame, con la pelle completamente ricoperta da bubboni da cui escono larve che daranno origine ad api da miele. In epoca paleocristiana Giobbe viene assimilato a un santo e raffigurato come un anziano penitente, seminudo, di solito calvo con una fluente barba bianca, con il corpo piagato e facilmente confondibile con altri santi eremiti come san Gerolamo e sant’Onofrio. 
Nel nostro caso, invece, Giobbe ha le sembianze di un giovane uomo, con il viso incorniciato da una leggera barba, L’autore, con ogni probabilità, è più sensibile alla tradizione che prefigura nel patriarca dell’Antico Testamento le sofferenze di Cristo e, di conseguenza, lo raffigura secondo questa iconografia. L’assenza dei bachi da seta lascia propendere per l’interpretazione  più tradizionale di Giobbe, venerato qui come protettore delle malattie della pelle. L’autore mostra di essere estraneo ai grandi modelli artistici cronologicamente più vicini, come ad esempio la Meditazione su Cristo morto de Carpaccio (verso il 1510), o la pala di san Giobbe del Giambellino, del 1487, oggi alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, ma anche ai modelli più prossimi geograficamente, come l’affresco con San Giobbe, S. Antonio abate e San Bernardo nel santuario della Madonna della Fontana di Casalmaggiore dei primi decenni del XVI secolo, ma sembra riferirsi piuttosto all’iconografia più diffusa del santo, così come è visibile, ad esempio, nelal xilografia del tedesco Hans Baldung Grien, allievo di Dürer, del 1509. In conclusione, un artista popolare che esegue un soggetto conosciuto, seguendo le indicazioni di un committente senza troppe pretese, con il fine apotropaico di proteggere gli abitanti di quella casa sul cui muro fu dipinto nel febbraio del 1523. Resta da capire se possa trattarsi davvero del perduto Ospedale di Sant’Agata o piuttosto di un laboratorio di tessitura, come lascerebbe intuire la presenza di un albero posto alle spalle di Giobbe, sul quale, secondo la tradizione contadina, si sarebbero inerpicati i vermi prodotti dal letame. La perdita della parte inferiore dell’affresco, distrutta dall’incendio, rende impossibile dirimere la questione.

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