mercoledì 26 dicembre 2018

Un cremonese alle origini dell'antico francese

Scena di amore e di falconeria in un manoscritto del XIII secolo
C'è un cremonese agli albori della lingua italiana, anche se, per far piacere al suo amico re Enzo, scriveva in france antico. Cremona, come sappiamo, è stata tradizionalmente una città di grandi traduttori e mediatori culturali. Negli anni scorsi è stata appieno rivalutata e studiata da Pierluigi Pizzamiglio la figura di Gherardo da Cremona e, più recentemente da Anna Mantellotti quella di Giambonino, e, ad esempio, da Ivana Brusati quella del medico Adamo, ma un personaggio che meriterebbe di essere posto tra i grandi del suo tempo è certamente Daniele Deloc. Deloc, un nome strano dovuto forse ad un errore di lettura per “de loco”, cioè “proveniente da”, è autore del più antico documento in langue d'oil, il francese antico o “francese di Lombardia”, che si conosca: un trattato di caccia con il falcone scritto per re Enzo (cremonese pure lui), poco tempo dopo essere fatto prigioniero dai bolognesi nel 1249, alla battaglia di Fossalta. Daniele faceva parte anche lui, con ogni probabilità, di quella variopinta corte di Federico II dove bazzicavano, fra gli altri, il frate domenicano Rolando cacciatore di eretici, Adamo e Teodoro d'Antiochia, entrambi traduttori dall'arabo, Michele Scoto, che Dante chiama “mago” e poeti come  Giorgio da Gallipoli, Giovanni da Otranto, Giovanni Grasso.
Daniele, nato a Cremona nella prima metà del XIII secolo, è autore, in realtà, di una traduzione in antico francese di due trattati di falconeria, rispettivamente dell'arabo Moamin o Moamyn e del persiano Ghatrif o Tarif. Di Deloc. sappiamo solo quanto egli stesso dice nella rubrica iniziale della sua opera, in cui si presenta come "de Cremone nez" e affezionato "serven au noble roi de Sardaigne". Secondo alcuni potrebbe identificarsi con un certo Daniele, falconiere di Federico II, citato in un passo della Historia diplomatica Friderici secundi di J.-L.-A. Huillard Bréholles (II, Paris 1859, pp. 969 ss.), come inviato a Malta per cercarvi dei falconi. Lo Zingarelli invece pensa che l'autore dell'opera non sia il nostro Daniele. ma lo scriba Angelus de Franchonia, che firma la copia del manoscritto. Questi, un tedesco della Franconia, come lascerebbe credere il nome, per conferire maggior prestigio alla sua traduzione, l'avrebbe presentata come scritta in Italia e da un familiare stesso della corte che passava, all'epoca, come massima legislatrice in materia di falconeria e di caccia. In realtà, nessun fatto linguistico indica un'origine germanica dell'autore o dello scriba stesso, anzi, numerosi tratti sembrano indicare la provenienza del testo da un ambiente dell'Italia settentrionale, e, più precisamente della Lombardia, come d'altronde dice di essere lombardo lo stesso Daniele.
Nel prologo dell'opera si legge che il Libro di Moamin fu tradotto dall'ebraico in latino da Maestro Teodoro, per ordine di Federico II. In realtà, come attestano concordemente i codici della versione latina e dei volgarizzamenti italiani del testo, il Libro di Moamin non fu scritto in ebraico, ma in arabo. Dall'arabo fu poi tradotto in latino da Maestro Teodoro, "philosophus, fidelis noster", sicuramente conoscitore della lingua araba, come risulta da altri documenti. Su chi tradusse Ghatrif dal persiano al latino invece non si sa nulla.
Moamin in un capolettera miniato
I due trattati di falconeria furono assai diffusi nel Medioevo, specialmente quello di Moamin, come attestano i numerosi codici rimastici della versione latina e i volgarizzamenti italiani. La versione in antico francese dei due trattati di falconeria curata da Daniele Deloc ci è arrivata in un unico manoscritto del XIV secolo, che appartenne alla Biblioteca dell'Università di Padova e di là passò poi alla Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia. La traduzione è, probabilmente, il primo testo scritto in lingua d'oïl nella penisola italiana. Esso non manca di interesse per la storia della fortuna di questo genere di trattati nel Medioevo e per quella della conoscenza e dell'uso nel Duecento in Italia della lingua d'oïl, come lingua per eccellenza della prosa narrativa e didascalica, così come il provenzale lo era stato della poesia lirica, come dimostrano i versi, quasi contemporanei, di un altro cremonese, Gerardo Patecchio, che riprende i temi dei trovatori provenzali nelle corti e nelle città dello stesso Nord Italia. Notissima, sulla divulgazione e sul prestigio di cui godeva la lingua francese all'epoca, la testimonianza di Dante nel De Vulgari Eloquenti: "Allegat ergo pro se lingua oïl quod, propter sui faciliorem ac delectabiliorem. vulgaritatem, quicquid redactum sive inventum est ad vulgare prosaycum suum est", che si rifaceva al giudizio del suo maestro Brunetto Latini sulla lingua d'oïl come "la parleüre plus delitable et plus commune a toutes gens"
L'opera fu commissionata a Daniele da re Enzo, e la scelta linguistica fu certamente suggerita dalla committenza regale, tanto che Deloc sente il bisogno di scusarsi per l'imperfetta conoscenza della lingua impostagli, anche se potrebbe trattarsi semplicemente di una tipica captatio benevolentiae: "Tot soie je povre letreüre et de povre science garnic, e tot soit greveuse chose a ma langue profferre le droit françois, por ce que lombard soi". In effetti, per quanto la lingua del testo sia secondo gli esperti abbastanza corretta, il francese di Daniele, pur detratto quanto sia imputabile al copista del manoscritto, è screziato di italianismi, soprattutto nel lessico; in cui i termini italiani appaiono leggermente francesizzati. Il testo mostra molti dei tratti caratteristici delle opere franco-italiane: aie senza palatalizzazione, il trattamento d'e finale, la caduta di t,finali, s impura senza vocale protetica, l'uso dei pronomi vestrevetre, il presente oitpoit, i possessivi tonici invece di quelli atoni, se seguito dal futuro, e così via. Sono presenti anche una serie di fatti linguistici propri ai dialetti dell'Est e del Nord della Francia. Molto frequenti sono i latinismi, com'è naturale per un'opera che ha come fonte una versione latina. Un gruppo di termini tecnici, che conservano la forma che avevano nel testo latino, ricordano le origini orientali dei due trattati. Lo scriba rivela le abitudini scrittorie di un italiano del Nord. Se fu germanico, come sembra indicare il suo nome e come lo credono alcuni, certamente, secondo altri, non lo rivela nella trascrizione di Moamin e Ghatrif.
In base alle indicazioni fornite dallo stesso Daniele nella sua opera si è portati a credere che questa sia stata commissionata da re Enzo, mentre si trovava prigioniero dei Bolognesi. Nella prefazione al libro di Moamin si legge che il testo fu "coreit par le roi meeme en la cité de Bologne". E' molto improbabile, infatti, che Enzo abbia soggiornato a Bologna prima del 1249, essendo Bologna città nemica dell'imperatore. Dal momento che, probabilmente, il giovane re godeva nella sua prigionia di una certa libertà che gli permetteva di poetare e di incontrare persone, nulla impedisce il fatto che durante la prigionia abbia potuto commissionare e revisionare la traduzione francese del libro di Moamin. L'anno 1249, in cui ebbe luogo la battaglia di Fossalta, sembra essere, dunque, da considerarsi come terminus a quo.
Miniatura del De arte venandi cum avibus
Altre notizie fanno supporre che la traduzione del libro di Moamin sia stata terminata mentre re Enzo era ancora in vita. Nel capitolo finale dell'opera di Moamin Daniele ringrazia il re, che "a deigné loer" il suo lavoro, e nell'introduzione al libro di Ghatrif dice chiaramente che il re lo ha incaricato della traduzione del secondo testo, "apreés ce qe je ai, la merci nostre seignor, finé le livre de Monayn fauchonier". Il termine ante quem diverrebbe, in definitiva, il 1272, anno della morte di re Enzo. Ma la questione è complicata da un passo dell'introduzione al libro I in cui Deloc parla di re Enzo al tempo passato. Secondo alcuni, i due prologhi che precedono il testo di Moamin, ambedue di mano di Deloc, furono scritti in epoche diverse. Forse Daniele presentò al re, a Bologna, in un primo momento, solo una parte della traduzione munita del primo prologo, e successivamente ne intraprese la fine e la redazione definitiva. Fu allora che egli aggiunse il passo già citato "coreit par le roi" e il capitolo finale di Moamin in cui tutto indica che il re era ancora in vita. Successivamente, dopo la morte dei re, Deloc.poté avere occasione di occuparsi nuovamente della sua opera, e introdurre allora, nel riassunto che precede il libro I di Moamin, il breve ritratto morale del giovane re, che ne ricorda il nobile carattere e la triste sorte: "Mes fortune envieuse, qe tot adés agrevoie et gueroie as meillors, li fu trop longement marastres et enemie, dont ce fu doumages trop grans, kar chevalerie, pris et valor empirent trop par sa mesceance".
L'opera di Moamin, nel manoscritto francese, è composta da quattro libri, di cui i primi tre trattano degli uccelli di rapina e delle loro medicine e cure, e il quarto degli altri animali da caccia, e principalmente dei cani. I quattro libri sono preceduti da una prefazione, da una tavola che enunzia il titolo dei capitoli di tutta l'opera, e dai due prologhi già citati. Al libro IV segue un breve epilogo. La seconda parte della traduzione di Daniele. comprende l'opera di Ghatrif composta da un breve incipit e dalla tavola dei capitoli che ne indica 75 e non 66, come sono nel testo. Il cap. I è costituito da un succinto prologo attribuito da Daniele a maestro Tarif o Ghatrif. Chiude l'opera un breve capitoletto non compreso nella tavola.
Daniele Deloc resta una delle figure più interessanti della letteratura italiana delle origini, e testimonia quale fosse la vivacità culturale di quella corte federiciana, ma soprattutto, come fossero intensi i rapporti di amicizia e collaborazione nati all'ombra del Torrazzo tra la famiglia imperiale e gli abitanti della città, se lo stesso Re Enzo, prigioniero a Bologna, chiamò proprio un suo conterraneo ad alleviare il peso delle sue giornate bolognesi.

Nel territorio francese il latino introdotto dalla conquista romana, nella forma meno colta dei militari e dei mercanti, si diffuse rapidamente; le influenze celtiche e germaniche però lo modificarono notevolmente fino a che si distinsero due forme linguistiche principali: la lingua d'oc (dal latino hoc, per dire sì), parlata nelle regioni meridionali, e la lingua d'oïl (dal latino hoc ille), parlata nel Nord. L'uso letterario della lingua d'oc raggiunse rapidamente una certa omogeneità e diede origine alla letteratura provenzale. Invece, nelle regioni settentrionali della Francia si produsse una fioritura di dialetti diversi, tra cui prevalse a poco a poco il franciano, parlato nell'Ile-de-France. Nacque così il francese antico, termine con cui si indica la lingua dell'epoca feudale, che fu in uso fino al Duecento e conservava ancora la declinazione a due casi, soggetto e complemento oggetto. Con la progressiva scomparsa dei casi e la modificazione delle strutture morfologiche e sintattiche si formò il francese medio (grosso modo dal Trecento fino al Cinquecento), che si sarebbe poi trasformato nel francese moderno. Il primo documento scritto in volgare francese è il Serment de Strasbourg (Giuramento di Strasburgo), che risale al IX secolo e fu pronunciato, il 14 febbraio 842, davanti ai propri eserciti schierati, da Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico nelle rispettive lingue volgari (francese e tedesco); con esso i due sovrani si impegnavano a reciproco sostegno contro il loro fratello, l'imperatore Lotario.


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