venerdì 20 dicembre 2013

Spending review di una volta

Dipinto di Sofonisba Anguissola

Fra la fine del ’500 e l’inizio del ’600 anche Cremona avvertiva i primi segni di quella crisi che, con l’avanzare del secolo, avrebbe pesantemente influenzato la redditività della produzione e dei commerci.
Ad esclusione delle poche grandi famiglie i cui cospicui patrimoni erano inattaccabili, una larga parte della nobiltà medio-piccola e delle agiate famiglie mercantili non aveva tenuto conto di come le eccessive spese avessero non solo assottigliato le rendite ma anche eroso le relative fonti, preludio a una totale rovina. Limitare il consueto dispendioso tenore di vita e l’ostentazione di ricchi acquisti, abbigliamenti ed abitudini lussuose significava per loro non solo perdere una personale gratificazione ma anche rinunciare alle abitudini che, in un mondo che giudicava esclusivamente dall’apparenza, erano ritenute indispensabili al mantenimento di un certo status e costituivano il presupposto per l’ambito passaggio a livelli sociali superiori.
E’ noto che il governo e direttamente lo stesso sovrano, già alla fine del Secolo XVI tentarono di frenare questa incosciente corsa allo sperpero con l’emanazione delle note leggi suntuarie tese ad eliminare gli eccessi sul vestire e sul banchettare, ossia gli esempi più eclatanti di un lusso che, per mantenere un apparente prestigio, causava tracolli finanziari con ricadute a catena anche sul ceto mercantile.
Uno degli intenti di queste leggi, che avevano anche risvolti psicologici, era quello di trasformare in obbedienza la scelta di una certa moderazione nell’uso di ornamenti preziosi e di drappi tessuti d’oro ed argento sia nell’abbigliamento femminile che in quello maschile. Stabilendo il tipo e il numero di ornamenti che dovevano indossare uomini, donne sposate e giovani da marito si pensava di convincere l’opinione pubblica che un abbigliamento relativamente modesto o banchetti meno sontuosi non sarebbero stati considerati indice di decadenza economica, ma bensì un atto di rispetto dovuto alla legge.
Per avere un’idea degli eccessi cui era giunta la nobiltà cremonese basta leggere il contenuto dell’armadio della moglie del castellano di Santa Croce: “Una veste di damasco taneto fodrata di pelle, listata di velluto. Una veste di veluto negro di bassetta nera con due nervetti di veluto nero. Una veste di damasco nero listato di veluto e foderata di bassetta nera. Una veste di salia nera listata di veluto nero per il tempo della notte, foderata di veluto. Una veste di veluto nero foderta con liste di veluto. Una veste di damasco fodrata di velto con liste di veluto. Una veste di veluto nero foderata di raso per cavalcare. Una veste di damasco nero con due listini di veluto. Una vesticiola di veluto nero ad uso cavalcare. Una vesticina di olmesino per le soprascritte vesti. Sette salie di veluto di raso, di damasco, di panno, listate di veluto di raso e di passamani”.
Ritratto di Bianca Ponzoni (S. Anguissola)

Se poi andiamo a curiosare nel bauletto foderato di velluto nero, coperto di cuoio e ornato di gioielli di casa Ponzoni, troviamo “una cinta d’oro di 17 pezzi; un friso d’oro con tre diamanti e 16 perle; un gioiello grande con un balasso e una perla grossa; numero 600 tramezzi d’oro; numero 600 granate; quattro medaglie d’oro, due rubini, rose da cappa; bottoni e rosette da berretta e puntali d’oro, 30 rosette con perle, manico da ventaglio d’oro con piume incarnate bianche e celestine; perle e conchiglie; braccialetto d’oro pieno di composizione di muschio; un anello con diamantee due con rubini; uno smeraldo; 4 collane d’oro; un cammeo, legato in oro; una mandola d’oro; 22 pater noster d’oro; una crocetta d’oro da mettere in fondo ad una collana”.
La moda del tempo aveva infarcito i vestiti scollati di arabeschi, figurine, stelle, grandi borchie, le vesti avevano lunghi strascichi, con maniche lunghe ed ampie, aperte sul davanti e guarnite di bottoni d’oro e d’argento, erano attillate, senza colletti e molto scollate. I vestiti erano foderati in lontra, ermellino, zibellino, martora, in pelle di gatto di Spagna e di lupo cerniero, trionfavano i velluti lisci, a colori vivaci con preferenze per il rosso, il verde, il celeste e il marrone, i velluti a fiorami, cesellati e con decorazioni a raso, a mazzi di fiori collegati da lunghe strisce ondulate. Di gran moda anche i broccati, del tipo riccio, damaschino, damasco semplice, d’oro e d’argento con fiorami e motivi vegetali. Nella confezione dei vestiti erano pure utilizzati seta, raso e altre stoffe, su cui venivano applicate perle e oro fra i ricami.
Il ricamo era in particolare una caratteristica cremonese ed era comune riprodurre sulle vesti fiori, rose, rami, uccelli, struzzi e pavoni. Si ricordano anche i nomi di alcuni celebri ricamatori: il padre di Boccaccio Boccaccino, Antonio, Maffiolo e Francesco da Cremona. Erano figurate anche le calze con cani, lupi, leoni, serpi attorcigliate e la fantasai si sbizzarriva anche nei cappelli, dalle forme più strane ma sempre rigorosamente ricamati di tessuti d’oro e d’argento.
Ovviamente non tutti gradirono le disposizioni per una minore ostentazione di ricchezza contenute nelle leggi suntuarie del 1572. Molti nobili chiesero di poter dilazionare nel tempo l’applicazione delle indicazioni, magari ricorrendo all’espediente di portare oro battuto “in bottoniere della casaca et al capin della capa et bazzetta, e in la cintura passamani o treccie d’oro o argenti come vorrà ognuno come si osserva in Ispagna”, anche perchè, tutto sommato “che mettendoselo in dosso l’oro non si spendeva perchè il dinaro sta sempre lì”.
Per le donne sposate di ogni ceto e condizione sociale si consigliavano abiti semplici senz’oro e argento battuto, tessuto o filato che fosse, senza ricami, cordoncini e ornamento. Le vesti però potevano essere listate con drappi di seta pura, purchè fossero di foggia molto semplice ed erano permessi non più di tre abiti di seta con sottane. Proibiti perle, gioielli, oro e argento sule acconciature e sulle cinture, ma permessi orecchini pendenti purchè non superiori al valore di 3 scudi, due anelli alle dita del valore massimo di 30 scudi d’oro e al collo una collana di 5 scudi ed una catena d’oro priva di smalti da 15 scudi per appendervi un ventaglio.
I guanti potevano essere ricamati in pelle di gibellino e per l’inverno ci si poteva riscaldare le mani con manizze, ma prive d’oro e d’argento, di perle o ricami ma foderate di pelle di lupo cerniero. Qualche ornamento di seta pura era permesso solo nelle vesti, con maniche ampie e aperte, che potevano anche essere ornate d’oro, fino ad un massimo di 30 scudi. Berrette, prive di ornamento, potevano essere indossate solo di notte o in viaggio.
Partita a scacchi di Giulio Campi
Questa severità di costumi non valeva per la biancheria, che poteva essere elegante e raffinata, con i pizzi più svariati, ricami e guarnizioni ricamate veri capolavori di arte certosina e grande uso di seta. Le cremonesi non lesinavano in belletti e profumi e facevano un uso smodato delle tinture, mutando a volontà il colore dei capelli. Particolari accorgimenti dovevano anche adottare “quelle” signore, che dovevano portare in testa una berretta senza ornamenti e sul davanti una cintola o una banda di taffetà rosso larga un quarto di braccio e ben visibile, che doveva scendere per tutta la lunghezza del vestito, mentre erano stati aboliti i campanelli a sonagli.
Non meno venali dovevano essere gli uomini, se è vero che le leggi suntuarie facevano divieto di portare collane, collari, braccialetti, perle, gioie, e qualsiasi oggetto d’oro battuto, tessuto o filato. Sulla berretta potevano portare solo una medaglia o qualche altro ornamento che non costasse più di 16 scudi, alle dita era permesso un solo anello e chi portava una spada o un pugnale era obbligato a guarnirlo in solo velluto, così come la cintura, che non poteva avere ne’ passamani, cordoncini o lavori in oro e argento.
Quando le norme antilusso, nel 1592, si ammorbidirono un po’, tornarono in voga bottoniere in oro battuto, purchè non costassero più di 50 scudi, e sui cappelli fecero la loro comparsa fasce e veli lavorati e ricamati d’oro e d’argento. Piume di ogni genere, tranne quelle di aironi, troneggiavano sui cappelli, anelli con gioe e smalti alle dita, e guanti profumati che non potevano, però, superare i 3 scudi. Spade e pugnali potevano avere manici d’oro e argento, così come d’oro e argento filato potevano esser selle e finimenti.
Il problema non si poneva per tutti gli altri: fabbri, calzolai, formaggiai, macellai, falegnami, fornai, sarti, osti e a quelli “uguali ed inferiori, e a tutte le loro donne”: non potevano portare vesti e calze di seta, era ammessa una sola veste di olmesino per le donne, e una collana d’oro o di coralli da dieci scudi. E chi disobbediva agli ordini? Per chi era residente in città da almeno due mesi la pena era di 50 scudi d’oro e la perdita dei vestiti, che dovevano essere devoluti gli orfani, ai mendicati ed allo stesso denunciante, tenuto ovviamente segreto. Ai sarti, che avevano confezionato i vestiti incriminati, venivano comminati 25 scudi di mula ogni volta e, se insolventi, tre tratti di corda.
Gli ordini per disciplinare il lusso si facevano sentire anche a tavola. Questo infatti è il periodo dei grandi apparati e delle messinscene senza uguali. La cucina rinascimentale, come emerge dai ricettari, è senz’altro una cucina dalle pratiche rinnovate, dai piatti nuovi, senza pari nell’Europa dell’epoca, resta però di ispirazione medievale, nonostante i cuochi abbiano adattato e rielaborato molti tratti del passato.
Soggetta alle stesse prescrizioni religiose del periodo precedente e perciò obbligata all’alternanza dei giorni di magro e di grasso, nel Rinascimento la cucina patisce forse un po’ più di rigore in questo senso a causa della Controriforma. Del passato è ancora presente l’abbondante uso delle spezie che, per quanto venga sensibilmente attenuato, resta un tratto caratterizzante. Come del resto è ancora massicciamente presente lo zucchero.
Mangiaricotta di Vincenzo Campi

Leggendo i testi di cucina del Cinquecento si può dire che il gusto dominante è proprio quello dolce, anche se non va dimenticato che questo ingrediente è essenzialmente un elemento di distinzione sociale per la società di corte e forse la sua presenza è più legata all’ostentazione che a un’autentica passione per questo sapore dolce. Le leggi suntuarie del 1572, però, che vietavano per questo motivo l’uso e il commercio di marzapane, confetti, torte di pinoli e canditi, non mettevano nessuna limitazione all’uso e consumo del torrone.
L’eredità medievale include ancora tutti gli arrosti, precedentemente sbollentati in acqua per ammorbidirli, le paste ripiene, le torte e i pasticci in crosta, nei quali non troviamo più rinchiusi animali interi o addirittura vivi, ma carni disossate. Si presentano ancora gli animali “come vivi”, cioè ricomposti e rivestiti del loro piumaggio o del loro pelo, decorati con oro o ricoperti di colori. Per evitare comunque abusi anche in questo settore, gli ordini fornivano l’esempio di due banchetti, uno di grasso e uno di magro, gli unici permessi alla nobiltà.
Ma la lista dei cibi e delle bevande lascia stupefatti. La lista dei pranzi di grasso prevede: “All’inizio del pranzo antipasto di una sola sorta di confetti, marzapane, pignocate e offelle. 2. Minestra ordinaria. 3. Una sorte di selvaggina, pavoni nostrani o polli d’india, ovvero: pernici, lepri, tortore, quaglie con pasticcio. 4. Quattro sorta di arrosto domestico. 5. Quattro sorte di lesso di carni domestiche; ovvero tre sorta di arrosti. 6. Un pasticcio di carne. 7 Due sorte di torte o una sola di tartara (crema). 8. Due sorte di paste, tartufole, gambari, lumache e lattemiele: 9. Ogni sorta di frutta cruda e cotta. Esclusi gli articiocchi d’inverno. 10. Alla fine del pranzo: tre sorta di confetto bianco di zucchero (non più di 2 libbre), cotogni, cotognate di zuccaro in vasetti. Torrone in miele in due scattole; pistacchi crudi in due piatti”.
Il pranzo di magro: “ All’inizio del pranzo. Antipasti, una sorte di confetti, marzapane, pignocata. 2. Minestra ordinaria. 3. Due sorte di pesce di mare o di lago, ovvero: tre sorte di pesce d’acqua dolce arrosto, ovvero: due sorte di pesce selvatico; storione compreso. 4. Tre sorte di pesce d’acqua dolce arrosto, ovvero: tre sorte di pesce nostrano arrosto o a lesso. 5. Pasticci di pesce d’acqua dolce. 6. Quattro torte. 7. Alla fine del pranzo: due sorte di confetti di zuccaro, cotognata, copeta, torrone. Vini a piacimento”.



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