I primo numero de "La difesa della razza" |
Ci fu un momento, settantacinque anni
fa in piena guerra mondiale, in cui l'accoglienza non venne meno
anche nei confronti di quelli che il nazismo identificata come i
nemici per eccellenza: gli ebrei. Anche dopo l'approvazione delle
leggi razziali nel 1938 e nonostante i rapporti sempre più stretti
intrattenuti da Farinacci con i gerarchi tedeschi in quegli anni,
Cremona non voltò le spalle ai profughi ebrei in fuga dalla Germania
e dalla Jugoslavia.
Quello che raccontiamo è un episodio sconosciuto, che non ha mai
trovato spazio nella storiografia cremonese, ma che risalta nella
drammatica veridicità dei documenti ufficiali nelle pagine curate da
Anna Pizzuti sugli “Ebrei stranieri internati durante il periodo
bellico” per il sito campifascisti.it a corredo di un eccezionale
database che contiene,
oltre ai dati anagrafici degli internati, informazioni sull’ultimo
luogo di internamento documentato, sugli eventuali spostamenti
avvenuti in precedenza, ma anche le notizie, quando è stato
possibile reperirle, su quello che accadde loro dopo l’8 settembre
del 1943. I documenti originali riguardanti Cremona, provenienti dal
Ministero dell'Interno, sono conservati presso l'Archivio Centrale
dello Stato a Roma.
Sono
una decina i nomi degli ebrei rintracciati in due “campi di
internamento libero” a Cremona e a Gussola. I “campi di
concentramento” italiani per gli stranieri non avevano in comune
con quelli tedeschi molto più che le denominazione. Per realizzare
gli internamenti fu costruito all'inizio un unico campo di baracche a
Ferramonti-Tarsia, a nord di Cosenza in Calabria. In tutti gli altri
casi vennero usati edifici requisiti o affittati: monasteri, ospizi,
caserme, sale cinematografiche ampliate e ville disabitate, che
potessero contenere fino a 200 persone. Non è stato possibile
identificare con precisione l'ubicazione di questi due “campi”.
Nel caso del capoluogo è possibile che il campo avesse sede nella
stessa location in cui, nello stesso periodo, vennero ospitati anche
i cosiddetti “internati protettivi” provenienti da Lubiana e
Fiume, tra di essi con ogni probabilità anche altri ebrei (ad
esempio una certa Francesca
Babnic, poi ospitata da una famiglia di origine ebrea),
anche se non specificato nei documenti. Di loro non si è saputo più
niente dopo il 19 ottobre 1943, giorno in cui si sono allontanati
facendo perdere le proprie tracce. Il loro nome, però, non si trova
fra quelli di quanti, provenienti dai campi italiani, sono finiti nei
lager tedeschi. Si chiamavano: Daniele Hammerschmild, tedesco, nato a
Schloppe il 14 febbraio 1884, arrivato a Cremona il 16 settembre 1940
insieme al fratello Willy (nato il 6 marzo 1889) dal campo di
Campagna, in provincia di Salerno. Con loro c'era anche la sorella
maggiore Jenny (nata il 15 maggio 1881), non attestata nello stesso
campo, ma sicuramente presente a Cremona e ritrovata dopo la
Liberazione a Fermignano in provincia di Pesaro, dove era stata
deportata il 31 maggio 1943. Con lei anche il figlio, Alfredo Lewin,
nato a Berlino l'11 settembre 1911, deportato a Fermignano il 5
maggio 1942. A Cremona c'era anche Susanna Hammerschmild, nata a
Berlino il 12 marzo 1926, ed allontanatasi dal campo insieme agli
altri il 19 settembre 1943. Con loro anche Irene Mengasz, nata a
Sibinj in Iugoslavia il 15 giugno 1935, Amelia Rosenfeld nata a
Nagyernie, il 10 gennaio 1893, ufficialmente documentata poi a
Milano, e Hela Steinfeld, tedesca, nata a Rintien il 11 aprile 1896,
giunta a Cremona da Lanciano il 12 luglio 1940 ed allontanatasi con
gli altri il 19 ottobre 1943.
Un'altra
famiglia ebrea era internata a Gussola, dove era presente ancora il 6
agosto 1942, data da cui non si hanno più sue notizie. Si trattava
di Hans Wolf Stawski, tedesco di Berlino dove era nato il 21
settembre 1906, giunto a Gussola da Urbania il 20 maggio 1942; della
moglie Gertrude Cohen, di cui non si conosce il luogo di nascita, e
dei due figli Pietro, nato nel 1938, e Gabriella, nata nel 1940.
Una coppia mista ariano-ebrea esposta al pubblico ludibrio |
Secondo
una stima ufficiale del marzo 1940 si trovavano ancora in territorio
italiano 3870 ebrei immigrati e rifugiatisi in Italia. Immediatamente
dopo l'entrata in guerra dell'Italia, il l0 giugno 1940, il
governo fascista varò delle misure per l’internamento dei
cittadini delle nazioni nemiche, seguendo in tal modo l'esempio delle
Germania, della Francia, delle Gran Bretagna e di altri paesi.
L'internamento fu motivato come strumento per garantire la sicurezza
interna e la sicurezza militare, ad esempio contro lo spionaggio, e
con esso si voleva evitare che uomini abili al servizio militare
lasciassero il paese e si arruolassero nell'esercito nemico. A
partire dalla metà di agosto del 1939, dunque poco prima dell'inizio
della guerra, le autorità italiane cominciarono i primi preparativi.
Solo a partire dal maggio del 1940, quando vengono emanate le prime
circolari, sono documentabili le prime disposizioni relative
all’internamento degli immigrati e dei profughi. In tal modo
l'internamento, che all'origine non aveva nulla a che vedere con la
politica razziale varata con la legge del 1938, entrò in stretta
relazione con quest'ultima. Il 15 giugno fu ordinato l'arresto degli
uomini ebrei di età compresa tre il 18 e i 60 anni, di nazionalità
tedesca, polacca e ceca oppure apolidi. Le donne e i bambini furono
allontanati dalla loro residenza e concentrati in luoghi isolati
sotto il controllo della polizia nel cosiddetto "internamento
libero”. Il periodo trascorso nelle prigioni locali immediatamente
dopo l'arresto durato in genere alcune settimane, prima di poter
raggiungere i campi di internamento, fu sentito da tutti i detenuti
come particolarmente duro. Le celle erano in genere strapiene, prive
delle necessarie attrezzature sanitarie e spesso pullulavano di
insetti. Accadeva poi frequentemente che gli ebrei fossero rinchiusi
insieme ai criminali comuni. Ma la cosa più pesante da sopportare
era l'incertezze sulle intenzioni delle autorità italiane, per il
timore che il governo italiano decidesse di rispedire i rifugiati in
Germania.
Il trasporto nei campi di internamento ebbe luogo in piccoli gruppi sotto il controllo della polizia, utilizzando le ferrovie. Durante il trasporto dalla prigione ai vagoni ferroviari ai polsi dei detenuti venivano strette talora delle manette, come si usa fare con i delinquenti. Alle donne e ai bambini veniva di regola risparmiato l'arresto, ma si aggiungeva loro di tenersi pronti per la partenza in un giorno determinato e di presentarsi alla prefettura della provincia prevista per il loro internamento.
Il trasporto nei campi di internamento ebbe luogo in piccoli gruppi sotto il controllo della polizia, utilizzando le ferrovie. Durante il trasporto dalla prigione ai vagoni ferroviari ai polsi dei detenuti venivano strette talora delle manette, come si usa fare con i delinquenti. Alle donne e ai bambini veniva di regola risparmiato l'arresto, ma si aggiungeva loro di tenersi pronti per la partenza in un giorno determinato e di presentarsi alla prefettura della provincia prevista per il loro internamento.
A
partire dal 1941 nel campo di Ferramonti-Tarsia fu data la
possibilità, su richiesta degli internati, di passare al regime di
“libero internamento". Molti speravano di trovarvi condizioni
di vita migliori, specie se i luoghi in questione si trovavano
nell'Italia settentrionale. Nelle domande si poteva indicare la
provincia preferita per il soggiorno. Così molti profughi e
immigrati ebrei che avrebbero potuto essere liberati dagli alleati,
dopo l’8 settembre si trovarono nella zona d'occupazione tedesca e
furono deportati. E' questo il caso degli ebrei “cremonesi”, che,
per sfuggire alla deportazione, scapparono insieme dal campo il 19
ottobre 1943 facendo perdere le proprie tracce.
Nel
decreto del 4 settembre 1940 riguardante l'internamento viene detto
espressamente: “Gli internati devono essere trattati con umanità e
protetti contro ogni offesa e violenza” In effetti questo
principio, salvo poche eccezioni, fu rispettato, e gli internati
ebrei non ricevettero un trattamento peggiore dei non ebrei. Non si
ha notizia che in Italia venissero compiute crudeltà e sevizie.
L'internamento in un campo significava peraltro una considerevole
limitazione della libertà personale. Le persone venivano strappate
alle loro famiglie, alle loro case, al loro ambiente e ammassate a
secondo delle possibilità di ricezione dei campi. Di regola gli
internati non potevano lavorare, ma ricevevano per il loro
sostentamento un sussidio giornaliero di 6,50 Lire,che era calcolata
sui bisogni della popolazione rurale povera e che fu più volte
elevata a causa della crescente inflazione. Era appena sufficiente
per mangiare e difficilmente poteva bastare .per la sostituzione
degli abiti logori. Quando crebbero le difficoltà di
approvvigionamento e non tutti i generi alimentari giungevano nei
campi, gli internati patirono la fame. Anche l'isolamento in un
comune lontano dal proprio domicilio abituale comportava una notevole
limitazione della libertà personale. Gli internati venivano
strappati all'ambiente loro familiare, separati da parenti e amici, e
costretti a vivere in un luogo fino ad allora sconosciuto, dove era
loro proibito ogni contatto con gli abitanti, ad eccezione dei
padroni di casa. Non potevano allontanarsi dal territorio comunale
senza autorizzazione speciale e dovevano presentarsi alla stazione di
polizia o dei carabinieri in orari determinati, di solito una volta
al giorno. Potevano lasciare la casa dove abitavano solo durante il
giorno, senza però mai superare un determinato perimetro. Quando le
donne e i bambini partivano per l'internamento, l'autorità di
polizia del luogo di residenza consegnava loro il «foglio di via
obbligatorio», con il quale dovevano presentarsi entro una data
prestabilita alla questura della provincia decisa dal Ministero
dell'interno, che li destinava a un comune. Di solito le donne con i
loro bambini raggiungevano in treno il capoluogo della provincia, e
da lì venivano portate in treno, con la corriera o con un tassi
collettivo al luogo di destinazione definitivo. Da tutti i resoconti
di cui disponiamo, sia quelli degli internati che quelli dei prefetti
o degli ispettori generali, si ricava l'impressione che anche
nell’«internamento libero» gli alloggi fossero quasi sempre
poveri o squallidi, quando non addirittura invivibili. Pur costretti
a rinunciare alle più modeste comodità quotidiane, molti internati
dovettero adattarvisi per oltre tre anni.
Un ghetto ebreo |
Ma
Cremona, oltre ad essere un luogo di internamento per gli ebrei
stranieri profughi in Italia, lo fu anche per alcuni internati
protettivi provenienti
dalla province annesse di Fiume
(Rijeka) e Lubiana, sotto la minaccia dei terribili Ustascia e dei
ribelli comunisti di Tito. Di fronte alla persecuzione che, si è
calcolato, avrebbe comportato la morte di 65.000 ebrei nei campi
jugoslavi e tedeschi, l'unica salvezza possibile era, per chi poteva,
tentare di fuggire verso i territori posti sotto il controllo degli
italiani, e la legislazione antiebraica fascista, confrontata con la
violenza degli ustascia, appariva il male minore. Lo stesso
internamento che aveva privato della libertà migliaia di ebrei
stranieri già presenti in Italia nel giugno del 1940, appariva
dunque, ai fuggiaschi, come garanzia di salvezza.
I
primi arrivi avvengono nel giugno del 1942. Si tratta di 17 persone
provenienti dalla provincia di Lubiana. Sappiamo che le donne e
i bambini vengono alloggiati presso la "Casa di Nostra Signora",
e successivamente presso l'Istituto della Pace, mentre gli uomini
presso la trattoria Montone. L'assistenza, almeno nel primo
periodo, è a carico della locale Federazione dei Fasci di
Combattimento, proprio in virtù del fatto che i profughi sfuggissero
alla persecuzione degli ustascia. Successivamente, le spese passano a
carico dell'ECA (Ente Comunale di Assistenza). I nomi sono
contenuti nella richiesta di rimborso per le spese sostenute per il
loro mantenimento inviata dalla Regia Prefettura di Cremona al
Ministero dell'Interno, Direzione Generale per i Servizi di guerra.
Si tratta di: Matteo Hrbar, di anni 55, di sua moglie Maria Ansek, di
50, e dei figli Franz. Lodovico, Matteo, Ludmilla, Sofia, Elena,
Ivan, Miroslav e Giuseppe; della famiglia di Maria Ocvirk, di anni
49, con i figli Rudolf, Ivanka e Liubra; di Giuliana Atmic (Stimu) di
anni 48 e di Francesca Babnic, anch'essa di 48 anni. Il Prefetto
Giovanni Battista Laura aggiunge: “Si prega esaminare l'opportunità
di aderire alla richiesta dell'ECA tenendo presente che per
circostanze facilmente intuibili una sistemazione degli sfollati
contenuta nei limiti di spesa prescritti, avrebbe dato luogo a vivo
malcontento da parte degli sfollati stessi ai quali non poteva
passare inosservata la differenza di trattamento in confronto a
quella già disposta dalle Federazione Fascista”. Lo stesso
documento
informa anche del loro rimpatrio, avvenuto nel dicembre del 1942. In
realtà ad essere rimpatriata a Bloska Polica, con foglio di via per
indigenti, sembra essere solo la famiglia di Hribar Matteo e dei suoi
nove figli. Degli altri sei internati protettivi sappiamo solo
che Francesca Babnic si trasferisce, sempre nel dicembre del
1942, da Cremona a Preggio, in provincia di
Perugia, presso la famiglia Contini, probabilmente come
domestica.
Il
19 luglio 1942 arrivano da Rijeka, nella cosiddetta provincia del
Carnaro, altre sei famiglie, in tutto 24 persone “per protezione
contro l'attività dei ribelli” che vengono alloggiate all'Asilo
Notturno Broggi-Simoni, in via Cadore, e per il vitto presso la
trattoria Capellini, con una spesa per il loro mantenimento che ha
superato di gran lunga quella massima stabilita dalla circolare
ministeriale del 18 giugno 1942. “A seguito della nota 28 ottobre
1942 n. 23605/303.3. - scrive il Prefetto al Ministero dell'Interno –
l'ECA venne avvertito che la spesa doveva esser contenuta nei limiti
di L. 8 giornaliere più L. 50 mensili per alloggio al capo famiglia
e di L. 4. r L. 3 giornaliere per ciascun congiunto rispettivamente
maggiore o minore di età. Ma l'Ente non poté, da un giorno
all'altro, modificare l'assistenza già in atto perchè il nuovo
trattamento non avrebbe potuto garantire un minimo di vitto ed
alloggio assolutamente indispensabile. Peraltro non si appalesava
opportuno scindere i nuclei famigliari per sistemarli presso ospizi
di ricovero della provincia (i quali non avrebbero potuto accogliere
provvisoriamente uomini, donne e bambini) anche nella previsione di
collocamento al lavoro in Comune...Dal 16 febbraio l'assistenza è
stata limitata a quella disposta da codesto Ministero, dato che ad
integrare il fabbisogno indispensabile di ciascun nucleo famigliare
concorrono i salari che percepiscono i componenti avviati al lavoro”.
Non
sappiamo praticamente nulla sulle condizioni di vita degli internati
protettivi alloggiati presso l'Asilo
Notturno di Cremona.
La loro presenza sembra protrarsi almeno fino a giugno del 1943.
Infatti in quella data Maria
Brunelich (o
Brnelich) chiede di essere trasferita da Gottolengo in provincia
di Brescia,
a Cremona
presso il fratello
Sappiamo
così che Brunelich
(o Brnelich) Antonio,
nato a Cucugliano
(Kukuljan) il
10/8/1902 è alloggiato presso l'asilo
notturno della città
assieme alla moglie Uliana
Zoritic e
alle due figlie Zora di
11 anni e Maria
di
8 anni. Antonio ha
trovato occupazione presso l'azienda Ceramiche
Frazzi.
I
documenti raccolti da Anna Pizzuti dimostrano che, mentre molti dei
profughi, una volta entrati in territorio italiano, cercavano di
rimanervi come clandestini, altri si recavano presso le autorità di
polizia e presentavano istanze con le quali chiedevano il permesso di
dimora in località del Regno e, in attesa delle determinazioni del
Ministero, il permesso di soggiorno.
Nelle istanze venivano descritte le terribili violenze subite e si parlava di parenti portati via dagli ustascia e dei quali non si avevano più notizie. Le autorità, anche quelle militari che presidiavano i territori croati, quindi, erano perfettamente informate di quali fossero i rischi che avrebbero corso le persone che respingevano o allontanavano. L'aspirazione dei fuggitivi, comprensibilmente, era quella di essere internati in un qualsiasi campo o località dell'Italia, ed era la soluzione che la Delasem (Delegazione per l'assistenza degli emigranti ebrei) cominciò ben presto a proporre in ciascuna delle zone "critiche".
In generale furono accolti coloro che dimostravano di potersi mantenere a proprie spese, ma anche quelli che avevano collaborato con le autorità militari italiani o che, a qualsiasi altro titolo, risultavano "favorevolmente noti" alle autorità. Ad ogni modo l'afflusso dei profughi si interruppe nella seconda metà del 1942. A partire da questo periodo l'inasprirsi dello scontro con i partigiani portò ad un controllo delle frontiere ancora più rigido di quanto non lo fosse stato in precedenza. In più, dall'estate di quell'anno, entrò in vigore l'accordo stipulato tra i tedeschi ed i croati che prevedeva la deportazione verso la Polonia di tutti gli ebrei non ancora periti negli eccidi o nei campi di sterminio jugoslavi. Nonostante ciò, da Roma continuarono ad arrivare ancora ordini di respingimento, anche quando era ormai ampiamente noto che il destino dei profughi sarebbe stato segnato. Il 25 novembre del 1942 il questore di Fiume trasmette a tutti gli uffici sottoposti una circolare ministeriale, nella quale si legge:"Con riferimento a precorsa corrispondenza si comunica che questo Ministero, riesaminata la situazione degli ebrei profughi dalla Croazia che emigrano clandestinamente nel territorio delle nuove province per sottrarsi a presunte vessazioni e che si rifiutano di far ritorno in patria dove correrebbero pericolo di vita ha deciso che gli stessi debbono per norma essere respinti nei paesi di provenienza."
Nelle istanze venivano descritte le terribili violenze subite e si parlava di parenti portati via dagli ustascia e dei quali non si avevano più notizie. Le autorità, anche quelle militari che presidiavano i territori croati, quindi, erano perfettamente informate di quali fossero i rischi che avrebbero corso le persone che respingevano o allontanavano. L'aspirazione dei fuggitivi, comprensibilmente, era quella di essere internati in un qualsiasi campo o località dell'Italia, ed era la soluzione che la Delasem (Delegazione per l'assistenza degli emigranti ebrei) cominciò ben presto a proporre in ciascuna delle zone "critiche".
In generale furono accolti coloro che dimostravano di potersi mantenere a proprie spese, ma anche quelli che avevano collaborato con le autorità militari italiani o che, a qualsiasi altro titolo, risultavano "favorevolmente noti" alle autorità. Ad ogni modo l'afflusso dei profughi si interruppe nella seconda metà del 1942. A partire da questo periodo l'inasprirsi dello scontro con i partigiani portò ad un controllo delle frontiere ancora più rigido di quanto non lo fosse stato in precedenza. In più, dall'estate di quell'anno, entrò in vigore l'accordo stipulato tra i tedeschi ed i croati che prevedeva la deportazione verso la Polonia di tutti gli ebrei non ancora periti negli eccidi o nei campi di sterminio jugoslavi. Nonostante ciò, da Roma continuarono ad arrivare ancora ordini di respingimento, anche quando era ormai ampiamente noto che il destino dei profughi sarebbe stato segnato. Il 25 novembre del 1942 il questore di Fiume trasmette a tutti gli uffici sottoposti una circolare ministeriale, nella quale si legge:"Con riferimento a precorsa corrispondenza si comunica che questo Ministero, riesaminata la situazione degli ebrei profughi dalla Croazia che emigrano clandestinamente nel territorio delle nuove province per sottrarsi a presunte vessazioni e che si rifiutano di far ritorno in patria dove correrebbero pericolo di vita ha deciso che gli stessi debbono per norma essere respinti nei paesi di provenienza."
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