mercoledì 23 ottobre 2013

Nella bottega dello speziale

 Venditori di aromi, spezie e preparazioni derivate: originariamente detti “aromatari”, tra fine Trecento e inizi Quattrocento erano sempre più spesso indicati col nome di “speziali” ai quali, nel contempo, si andava anche affiancando la figura del futuro “fondeghero”. Attorno alla prima metà dell’Ottocento il termine ‘speziale’ fu gradualmente sostituito da quello più tecnico di ‘farmacista’ mentre, parallelamente all’evolversi della denominazione, si andava progressivamente attenuando, per poi quasi sparire, il richiamo agli aromi e alle erbe curative per lunghi secoli base di ogni medicamento, a partire dalle bibliche “foglie” da usare “come medicina” viste fiorire dal profeta Ezechiele sulle sponde del fiume d’acqua risanatrice sgorgata dalla soglia dal sacro tempio di Dio.
Nella Cremona del Secolo XVI si possono configurare due diverse tipologie di aromatari: quella degli abilitati a vendere anche medicinali e quella di coloro che, privi di idonea qualificazione, dovevano limitarsi alla vendita delle spezie per uso comune.
Da un prontuario del XVII Secolo al titolo “Tassa Universale de Preci delle robbe medicinali così semplici come composte che si ritrovano nelle Spetiarie della Città di Cremona”, conservato nella locale Biblioteca Statale possiamo infatti ricavare precise indicazioni sui prodotti all’epoca presenti nelle botteghe degli speziali e precisamente: “Semplici diversi, erbe, sementi, fiori, radici, acque stilate, stilationi diverse, decottioni de infusioni, elettuari di tutte le sorti, lohochi et lambitivi, conserve condite in zuccaro (in mele e cotognate diverse) zuccari, confettioni solide di ogni sorte, spetie aromatiche, polveri, siroppi et giuleppi, succhi condensati e liquidi, pillole, trochisci, unguenti, cerotti, empiastri, olii, grassi, medicamenti diversi”.
A Cremona il numero degli speziali, fra quelli abilitati o meno alla vendita anche di medicinali, sembra fosse quantitativamente abbastanza ragguardevole: nel 1530, anno di avvio della matricola, il primo gruppo di iscritti all’arte per mano del notaio Giovan Francesco Trovanis, sembra aggirarsi sulla quarantina. Alla fine del 1631 si erano ridotti a 24, ma occorre osservare come gli speziali fossero riusciti ad uscire dalla grande pestilenza dell’anno precedente con danni inferiori rispetto ad altre arti più duramente colpite dal contagio al punto da trovarsi ridotte, fra morti ed emigrati, a meno della metà: evidentemente la conoscenza nonché la tempestiva disponibilità dei medicamenti dovette avere un certo effetto positivo. A metà del Settecento si contavano 11 spezierie che servivano una popolazione di poco superiore alle ventimila persone.
Come fosse il loro aspetto possiamo verificarlo ancora oggi osservando i mobili originali conservati negli uffici dell’Apt sotto i portici del palazzo comunale di Cremona, composti nel 1789 dall’ebanista cremonese Paolo Moschini, nato a Soncino, che ideò per la farmacia una lavorazione particolare del legno di radica, “a dorso di tartaruga”. Un’altra storica farmacia che conserva ancora il mobilio e le suppellettili originarie del Settecento, secolo in cui venne aperta dalla famiglia Leggeri, è la farmacia che si trova in corso Matteotti. Quest’ultima conserva ancora l’antico campionario delle sostanze di provenienza esotica con cui venivano realizzate le resine utilizzate dai liutai per fabbricare le vernici dei violini.
Fabrizio Bonali ha ricostruito qualche anno fa l’inventario di una di queste spezierie, la farmacia Solari e Ingiardi di strata Magistra, oggi corso Garibaldi, che costituisce un interessante spaccato della farmacopea settecentesca prima della Rivoluzione francese.
Tra i medicamenti più utilizzati c’erano innanzi tutto le acque, sia del tipo a “stuffa secca”, che di quelle a “tamborlano” e “medicate o spiritose”. Le prime sono ricavate da specie vegetali, dette “semplici”, tra cui la felce capelvenere, calmante della tosse, il cardo mariano, un depurativo, il papavero erratico, cioè il semplice rosolaccio, con una blanda azione sedativa e antispasmodica, la malva, calmante e lassativa, la centaurea minore, un febbrifugo. Il tamborlano, invece, è un specie di alambicco con cui si producevano acque con distillazione o a bagnomaria, tra cui quella di cedro, usata come cordiale e rinfrescante, o di noccioli di pesco, con proprietà vitaminiche. Tra le acque medicate è documentato l’uso della cannella, originario di India e Ceylon, con proprietà di tonico e stimolante, ma anche antibatteriche e antifungine. Le infusioni erano fatte con papavero, fumaria, una specie erbacea con proprietà vitaminizzanti, antifiammatorie, astringenti e antiossidanti, e rosa canina, senza indicazioni particolari, ma legata ad un simbolismo antico come fiore “dell’assoluto”.
Tra gli aceti, utilizzati fin dal XV Secolo per la prevenzione della peste in virtù del principio degli odori, viene riportato l’aceto distillato e squillitico, preparato macerando in aceto di vino una graminacea del tipo andropogon, indicata per favorire la diuresi e le mestruazioni. Gli siroppi erano soluzioni concentrate di zuccheri provenienti da varie specie per favorire una conservazione maggiore. Tra questi quello di isopo, una pianta ritenuta in possesso di qualità depurative, mucolitiche, espettoranti e lenitive dell’apparato respiratorio; di ninfea, pianta ritenuta un deprimente dell’eccitazione sessuale; agrimonia, usata per disturbi epatobiliari, catarri gastrointestinali e disturbi vescicali; mirto, per bronchiti e malattie polmonari croniche e borragine, per le sue proprietà diuretiche, sudorifere e antinfiammatorie.
Oltre agli siroppi semplici si usavano quelli composti e sollutori, con componenti derivati da produzioni animali, come il miele mercuriale e il miele rosato. Per la loro composizione si usava l’assenzio, che per il suo sapore amaro si prescriveva a coloro che possedevano un cattivo carattere, ma che già i romani davano in premio ai vincitori delle corse con le quadrighe, contro i vermi e per le malattie biliari c’era la felce polipodio.
Tra i medicinali nell’inventario compare per la prima volta la trementina, utilizzata nella preparazione di giulebbi, sciroppi contenenti anche vino. Per le febbri croniche, asma e affezioni polmonari si riteneva utile l’uso dell’ossimiele, una bevanda costituita da miele stemperato nell’aceto. Sempre il miele era uno degli ingredienti del roob, un succo di frutti lasciato concentrare al sole o al fuoco, di cui nell’inventario compare solo la variante a base e di ebulo, sambuco nero, ginepro indicata per le affezioni nervose femminili.
Il più importante medicamento della spezieria era ancora la triaca, un prodotto galenico semidenso composto da oltre 60 elementi, che ebbe un uso costante per oltre duemila anni fin dai tempi di Andromaco, medico di Nerone, quando era composta da 54 sostanze tra cui la carne di vipera.
Molti speziali giunsero a fabbricarla utilizzando anche centinaia di ingredienti: era ritenuta un specie di panacea universale contro ogni tipo di malattia, oltre che per prevenire le pestilenze e per affrontare i periodi climatici sfavorevoli, da assumere in dosi di due scrupoli, circa due grammi, ad ogni fase di luna, preceduta da due giorni di dieta.
Veramente raccapricciante era la ricetta per fabbricare alcuni “oglij”, estratti per spremitura o preparati con spezie macerate in olio. L’olio di cagnoli, citato tra le preparazioni della farmacia, fa ad esempio inorridire: era preparato proprio con cagnolini, cuccioli di cane nati da poco che venivano cotti con lombrichi in olio violato ed acqua fino a quando non si era consumata tutta la parte umida, poi colato l’aggiunta di trementina e alcol. L’olio di lombrichi veniva usato per lenire i dolori delle giunture e dei nervi, quello di scorpioni era utilizzato contro le punture e i morsi di animali velenosi, le intossicazioni e la peste: veniva preparato facendo cuocere gli scorpioni vivi in olio vecchio di un secolo aggiungendo solo semplici vegetali.
Per preparare l’olio volpino si doveva far cuocere una volpe privata delle interiora in acqua salata con poco olio, privarla delle ossa dopo la cottura, aggiungere aneto e timo e poi colare il tutto. Altri oli prevedevano una preparazione più normale: quello di viole ad esempio, segnalato in epoca romana da Plinio, veniva usato per estrarre corpi estranei penetrati nell’orecchio e curare la scabbia. L’olio di trementina derivava da conifere e era consigliato nella cura delle malattie infiammatorie broncopolmonari, per facilitare la diuresi, ma anche con la funzione di tonico. L’olio di lino, pianta estremamente comune nel nostro territorio, veniva usato, allora come oggi, per impiastri decongestionanti, pomate per favorire la digestione e contro le coliche renali.
Unguenti, balsami e cerotti erano abbastanza comuni. Tra questi ultimi ve n’era uno in particolare adatto per la cura delle fratture contenente olio mirtino, sugo di radice di altea, radice e foglie di frassino, di consolida minore, foglie e bacche di mirto, foglie di salvia: la preparazione così ottenuta veniva poi bollita nel vino con aggiunta di mirra e incenso, grasso, trementina, mastice, litargirio, bolo armeno, terra sigillata e minio.
Tra i balsami famoso era quello cosiddetto “del Perù”, perché derivato dal lattice di una pianta sudamericana, che possedeva svariate virtù tra cui quella di fortificare cuore, cervello e stomaco, detergere e consolidare piaghe, fortificare i nervi e guarire lo scorbuto.
Non mancavano neppure le pillole, divise in “maiores” con 36 ingredienti e “minores” con 21, di origine vegetale, con funzione solitamente antidolorifica e calmante, e i trocissi, cioè rotelle, formati con polveri medicamentose impastate con liquidi vari e mucillagini di gomma arabica. Polveri e spezie erano ottenute pestando finemente la materia oppure bruciando gli ingredienti e utilizzando le ceneri.
L’inventario della speziaria cita la polvere “viperina” per le febbri maligne che veniva ottenuta abbrustolendo le vipere con il sale ammoniaco oppure sale comune, alle ceneri venivano aggiunte droghe aromatiche pestando poi il tutto nel mortaio. Le vipere dovevano provenire preferibilmente dai Colli Euganei, catturate in primavera o meglio ancora d’autunno, dopo che avevano partorito ed erano di conseguenza meglio nutrite.
Contro la peste, ma anche per guarire la dissenteria, le coliche biliari e per curare l’esaurimento nervoso, era usata una composizione chiamata “giacintina” fabbricata con pietre dure, smeraldi, zaffiri, topazi, rubini e coralli bianchi e rossi, anche se ancora più costosa era la pietra medicamentosa del “Crolio” che troviamo nell’elenco della spezieria cremonese: era preparata con allume, salnitro, ali d’assenzio, artemia, cicoria, piantaggine, bolo orientale (una terra untuosa), e guariva ulcere esterne e, mescolata ad acqua rosata, le infiammazioni degli occhi.
Una panacea indispensabile per guarire tutti i mali era il “laudano liquido” una tintura a base di oppio, zafferano, cannella, garofani digeriti in vino a caldo indicata come antispastico, analgesico e sedativo che andava somministrata in dosi di sedici o diciotto gocce. Contro l’epilessia, la paralisi, l’apoplessia e la sordità era preferibile la tintura di castoro, contenente una sostanza secreta dalle ghiandole situate vicino ai genitali dell’animale.
Nel laboratorio della spezieria non mancavano neppure preparazioni con minerali, divenute abbastanza comuni dopo la sperimentata validità del mercurio nella cura della sifilide. In elenco figurano l’antimonio e il sale derivato tartaro emetico. Veniva usato come emetico-purgativo somministrato in forma di polvere mescolato con conserva di rose e di viole, oppure trattato in modo da essere fuso in tazze speciali. Lasciando il vino nella tazza per molte ore avveniva una reazione tra i tartrati della bevanda e il metallo della tazza producendo tartaro emetico, un prodotto che induceva il vomito, in seguito proibito ma reperibile ancora nell’Ottocento.  

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