Figlio di uno speziale, un po’
chirurgo, medico e alchimista, ed alchimista egli stesso. Forse
l’alchimia fu più di una semplice passione per il divin Claudio
Monteverdi, una passione certamente ereditata dal padre Baldassarre,
che aveva una bottega nei pressi dell’Ospedale di Santa Maria della
Pietà, dove Claudio nacque il 15 maggio 1567, come è scritto nel
registro dei Battesimi della parrocchia di San Nazaro e Celso, oggi
Sant’Abbondio. L’interesse del compositore per
l’arte alchemica pare testimoniato da una serie di lettere scritte
fra il 23 agosto 1623 e il 28 marzo 1626, in cui Monteverdi, che
stava lasciando la corte del suo mecenate don Vincenzo Gonzaga, duca
di Mantova, per divenire Maestro di Cappella della Basilica di San
Marco a Venezia, si diceva interessato a praticare l’alchimia.
Sembra che avesse maturato questo
interesse, insieme a quello per l’astrologia e le scienze occulte,
proprio al seguito del duca di Mantova nel corso di una missione in
Ungheria e poi nelle Fiandre nel 1595.
Il duca Vincenzo aveva infatti ricevuto
la richiesta da parte dell’Imperatore Rodolfo II di partecipare
alla campagna contro i Turchi che avevano invaso l’Ungheria e
minacciavano anche l’Austria, ed aveva portato con sé un nutrita
schiera di uomini di corte guidati appunto da Monteverdi. Alla corte
di Praga Rodolfo II era noto per essere un cultore dell’alchimia.
Anche in alcune lettere successive
indirizzate all’amico Ercole Marigliani si parla di acquisto di
storte e palloni dalla manifattura di Murano, di piccole partite di
mercurio e di un accender il foco proprio il 28 marzo 1626.
Certo è poco per farne un alchimista
serio: d’altro canto sembra che Monteverdi fosse afflitto da un
malanno quasi cronico, dovuto all’assunzione di un catartico a base
di mercurio sublimato, medicinale che doveva ben conoscere in quanto,
appunto, figlio di un farmacista; forse anche per questo si dilettava
d’alchimia, come molti altri a quel tempo, del resto, tutti alla
ricerca della panacea universale.
D’altronde doveva essere un po’ un
vizio di famiglia perché ancora nel 1627 Monteverdi è costretto a
chiedere aiuto a Marigliani per liberare dal carcere, dove era
rinchiuso da tre mesi, il figlio Massimiliano, denunciato al
tribunale dell’Inquisizione per aver letto un libro di medicina e
astrologia.
Chi si è occupato di Monteverdi
solitamente ha cercato di minimizzare questo aspetto, considerandolo
quasi una sorta di innocente passatempo per non offuscare la fama del
grande artista. In realtà l’interesse del Divin Claudio per
l’alchimia è molto concreto e non ha nulla di strano, qualora si
dimentichi per un momento il significato riduttivo che noi moderni
siamo abituati a dare al termine, considerando l’alchimia alla
stregua di una pratica magica, per considerare invece la materia come
una disciplina esoterica praticata dalle persone colte per
raggiungere gradi sempre più profondi di conoscenza, di se stessi e
dell’ambiente. In un‘epoca in cui non vi era un confine netto tra
scienza e stregoneria, astronomia e astrologia, aritmetica e
kabbalah, l’alchimia era una scienza che poteva portare ad un
livello di conoscenza superiore.
Maneggiare ampolle ed alambicchi,
mescolare piombo con mercurio nella ricerca della pietra filosofale,
dissertare degli elementi, non doveva poi essere un’occupazione
così strana se pensiamo che negli ultimi anni del Cinquecento a
Cremona si contavano circa 36 spezierie.
E la città, ricca e culturalmente
vivace, da tempo sede di posizioni ereticali a cui si era nel
frattempo aggiunta la Riforma protestante, doveva essere
particolarmente stimolante per chi era disposto alla sperimentazione,
anche e soprattutto intellettuale.
Il duca Vincenzo II Gonzaga |
Le cinque lettere in cui Monteverdi
confessa i suoi interessi per l’alchimia sono state scritte a
Ercole Marigliani, segretario del duca di Mantova Ferdinando, tra il
23 agosto 1625 e il 28 marzo 1626.
Nella prima di queste il musicista
descrive in modo molto dettagliato il procedimento della calcinazione
dell’oro con il piombo e il recipiente necessario a completare
l’operazione, informazioni che avrebbe ricevuto da due esperti
della materia, un certo Piscina e un medico chiamato De Santi,
citando poi anche una soluzione molto corrosiva di mercurio che
chiama “acqua rettificata”.
In una delle lettere inviate al
segretario del duca di Mantova Ferdinando, Claudio Monteverdi così
scrive dopo una lunga digressione su una vicenda riguardante una
controversia ereditaria: “Circa al vaso per calcinar l’oro con il
saturno (piombo, ndr) mi ha detto il Signor Piscina, et il Signor
Medico de Santi, ambiduoi sogetti grandi in tal arte; che si piglia
un avo come un orinale di terra, o purre una pignatella, et si
luttano bene atiò stiano salde al foco, in fondo del uno de quali
vasi vi si mette piombo onestamente, più tosto tendente al molto che
al poco atiò caminano àssai fumi; poi si piglia del filo di ferro
suttile, e si batte un cecchino (zecchino, moneta d’oro della
Repubblica di Venezia, ndr.) facendolo venire alquanto sottile, et si
fora il vaso verso la cima in quattro lochi et in mezzo si pone il
ditto cechino apiccato da quattro parti acomodato in quadro che sia
in aria.
“Poi sopra al ditto vaso et nella
cima del ditto coperchio - prosegue Monteverdi - si fa un buco
picciolo poi si da foco sotto al ditto vaso facendo bollire il ditto
saturno, così li fumi vanno circolando intorno al ditto cechino e lo
calcinano in maniera che si può pestare il qual viene così sottile
che è quasi impalpabile; si può anche ataccare un filo solo a la
cima del coperchio et nel ditto filo di rame metterle il ditto
chetino et duoi et più secondo piacerà ma però alquanto lontani
l’uno al altro così in tal modo si calcina l’oro con il saturno
et non in altro melio di questo. Il vaso sarà come per esempio
questo: quel filo che perpendicolarmente nel mezzo del zechino potrà
star solo senza gli quatro fili, opure potrà staccarlo con li
quattro fili senza quello che pende; faccia mo lei.
“Io poi gli notifico - conclude
Monteverdi - come saperò fare il mercurio del vulgo che si converta
in acqua chiara, et se bene sarà in acqua non però perderà
l’essere mercurio, et il suo peso perché ho provato pigliarne una
goccia e l’ho posta sopra un chuchiaro di ottone et fregatolo, et è
divenuto tutto tinto in color d’argento; de la qual aqua ratificata
spererò fa qualche cosa degna essendo che solve l’argento
gagliardamente”.
Nella lettera successiva del 19
settembre 1625 accenna alla realizzazione di un vaso necessario alla
fabbricazione di un liquido che poi avrebbe spedito al destinatario
in un’ampolla: “Tra otto giorni si poneranno a lavoro le fornaci
di Murano, dè primi loro lavoreri vi sarà compreso di certo il mio;
i qual vaso subbito hauto subbito si ponerà l’opera ditta a farsi,
la quale finita che sarà credd’io in otto giorni ne manderò
(piacendo a Dio) un ampolletta a V. S.”.
Passa qualche mese e il 15 febbraio
1626 il musicista scrive ancora a Ercole Marigliani per la spedizione
di una libbra di mercurio: “Credevo poterne mandare alla mano un
lipra et l’amico havendone pochissimo non me ne ha potuto dar che
la presente mezza lipra questa egli me l’ha donata si che non
occorrerà alcuna sodisfatione, starò su l’avertito se ne potrò
avere così subbito lo invierò a V. S. mi duole al anima non averla
potuta interamente soddisfare come tengo et terrò sempre il molto
obligo et il molto desiderio di effetuare quanto disegnerà sempre
comandarmi”.
Neppure dieci giorni dopo, il 24
febbraio 1626, in una quarta lettera Monteverdi si rallegra che la
spedizione del mercurio promesso a Marigliani sia andata a buon fine.
Nel frattempo il segretario del duca evidentemente deve aver chiesto
al nostro delucidazione su come ottener il mercurio ghiacciato e
Monteverdi, rispondendo, conferma che il medico De’ Santi è alla
ricerca della pietra filosofale.
Proseguiamo nella lettura delle lettere
inviate da Monteverdi al segretario del Duca di Mantova. Nella quarta
il compositore scrive: “Ho sentito sommo apiacere del gusto ella ha
hauto nel ricevere il mercurio vergine mandato come ella mi comise.
Starò su l’avertito se potrò averne altro per compitamente
servire alla sua voluntà quando però altro gliene facesse bisogno.
Ho inteso dopo quanto m’impone cioè che operi in maniera che un
tal Signor Medico per haver da lui il modo come fa a far un certo
mercurio agiacciato mi opererò in dimandare diligentemente qual
possa essere questo Signorr Medico et farò ogni opera per servir V.
S., conosco un tal Sig. r Medico de’ Santi di pelo rosso qual si
diletta molto d’investigare la pietra filosofica quando che questo
non sij, altri non conosco che mi possa insegnare quanto V. S. mi
comanda pe lo venturo ordinario potrò forsi meglio sodisfarla che la
presente, perciò m’haverà per scusato hora”. Che Monteverdi
fosse poco più di un dilettante della materia lo conferma
ironicamente lui stesso con l’ultima lettera inviata a Ercole
Marigliani del 28 marzo 1626 dove, prendendo a pretesto una nuova
fornitura di mercurio purissimo, dopo aver raccomandato il proprio
figlio Massimiliano perché possa esercitare la professione di medico
a Mantova, conclude scherzosamente: “Hora son dietro a far foco
sotto ad un orinale di vetro con sopra il suo capello per cavarne un
non so che per far di poi un non so che, che piacia a Dio che possi
allegramente poi esplicare al mio Signor Marigliani questo non so
che”.
Si è dubitato che la grande quantità
di mercurio richiesta da Ercole Marigliani servisse in realtà a
curare dalla sifilide sia il duca Ferdinando Gonzaga, morto
nell’ottobre del 1626, che il fratello Vincenzo II, deceduto un
anno più tardi nel giorno di Natale del 1627. I sali d’oro e i
composti mercuriali erano infatti un presidio farmacologico molto in
voga per la cura delle malattie veneree e non è di conseguenza
escluso che fossero più di altro esigenze di tipo farmacologico e
non filosofico a determinare l’interessamento del nostro Claudio
Monteverdi.
Altri invece hanno messo in relazione
gli studi alchimistici del compositore cremonese con l’essenza
stessa della musica barocca. Alcuni legami sono diretti: fra
questi si può citare il provato interesse di Claudio Monteverdi
per l’alchimia e il suo intento dichiarato di intessere nella
sua musica verità filosofiche. Fra le deduzioni che si possono
trarre c’è quella che la pratica dell’alchimia era
all’epoca diffusa nel Nord Italia e che i gruppi di dotti e di
compositori che si adoperavano a creare una nuova forma di
musica, possono quasi certamente avere incluso l’alchimia fra
i loro studi di metafisica e di mistica. Infine, si può
tracciare un parallelo fra la pratica alchimistica e la musica
barocca, nella misura in cui entrambe mirano ad una comprensione
più ampia del processo creativo che sta alla base del lavoro
di composizione.
Un altro parallelo tra l’alchimia e
la musica barocca riguarda la generazione di coppie conflittuali
di opposti. “Ero consapevole del fatto che sono gli opposti
a smuovere in modo potente la nostra mente, e... questo è
il traguardo che tutta la buona musica si dovrebbe porre”: così
scrisse Monteverdi nel tentativo di descrivere la sua ricerca di
una forma musicale adatta a rappresentare la conflittualità.
Secondo quanto sostenevano gli alchimisti, le prime fasi del
processo sono caratterizzate da una scissione violenta della
materia prima in due parti, che liberano così le polarità
dinamiche racchiuse al suo interno. Questa fase è spesso
dipinta come una battaglia, un duello fra una coppia di uomini,
cani o draghi. Questa energia può successivamente venire
utilizzata per attivare la trasformazione alchimistica; per
giungere ad una soluzione finale e alla trasformazione, bisogna
dunque provocare un conflitto. Un’altra corrispondenza
riguarda i modi dell’espressione musicale: la triade fondamentale
dell’alchimia è costituita secondo Paracelso (il medico e
alchimista svizzero Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von
Hohenheim) da sale, mercurio e zolfo, che corrispondono a corpo,
anima e spirito, che Monteverdi trasferisce nei tre stili
“concitato”, “molle” e “temperato”: “Ho riflettuto sul
fatto che le principali passioni o affezioni della nostra mente
sono tre, cioè ira, moderazione e umiltà o supplica; i
migliori filosofi sostengono questa veduta e la natura stessa
della nostra voce ce lo dimostra con i suoi registri alto, medio
e basso”.
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