Era la casa dei Fodri, ma soprattutto è ora un gioiello
artistico inaspettato, nascosto nel centro di Cremona. In via Beltrami 16 si
era iniziato semplicemente con il rimuovere i controsoffitti dello studio al
piano terreno. Oggi, alla conclusione dei lavori diretti da Giovanni Puerari,
architetto e progettista dell’intervento, ci troviamo di fronte al salone di
ricevimento di una dimora nobiliare dei primi anni del Cinquecento, ottenuto
con la demolizione dei precedenti locali quattrocenteschi, l’innalzamento dei
solai, la realizzazione di nuove finestre, l’inserimento di un porticato a
colonne nel cortile, l’esecuzione di affreschi sulle pareti. Purtroppo,
nonostante gli sforzi delle due restauratrici, Alberta Carena e Sandra Ragazzoni,
incitate e sostenute dai proprietari, Anna Puerari Bodini e Angelo Bodini, poco
si è salvato dalla distruzione, ma quel poco è di una bellezza straordinaria.
Un artista ancora ignoto, ma sicuramente di mano felice e non estraneo alla
temperie culturale di quegli anni, ha dipinto sulla parte superiore delle
pareti del salone scene di chiaro stampo rinascimentale che si sono poi
rivelate la raffigurazione del mito di Tereo e Procne così come riportato,
nella ricostruzione offerta da Luca Lupatelli, nelle metamorfosi di Ovidio. Un
soggetto raro, ma già raffigurato nel 1510-1511 da Sebastiano Del Piombo nelle
parti superiori della sala di Galatea nella villa Farnesina di Roma, e, più
tardi, verso la fine del secolo, ripreso in numerose incisioni. Il mito domina
e pervade la parte alta del salone, mentre le zone sottostanti erano
originariamente decorate con motivi architettonici con marmi e bugnati colorati
fino a circa due metri e mezzo da terra, di cui restano però pochi frammenti. I
protagonisti della vicenda si muovono su uno sfondo neutro, su un registro
fortemente dinamico enfatizzato dai volti sgomenti, dall’ampia gestualità,
dalle vesti gonfiate dal vento, ma non privi di eleganza sottolineata dalle
ricche vesti e dalle acconciature femminili. La drammaticità della vicenda
è solo parzialmente temperata
dalla compostezza manierata di qualche figura femminile, anche se poi basta la
crudezza della testa di fanciullo mozzata mostrata al padre ignaro dalla madre
ormai refrattaria a qualsiasi emozione, per riportarci all’efferatezza del
dramma che si sta consumando, in una sequenza narrativa quasi cinematografica,
davanti ai nostri occhi. Il mito è stato ricostruito grazie a quell’uomo dalla
testa di uccello che altri non è se non Tereo. Ce ne parla Ovidio nelle
Metamorfosi. Atene, assediata da non meglio specificati barbari, è stata
liberata con l'aiuto di Tereo; in segno di riconoscenza, Pandione gli concede
in sposa Procne, in un matrimonio in cui però a officiare non sono Giunone o
Imeneo, ma le Eumenidi. Tereo e la moglie tornano dunque in Tracia, dove nasce
il loro figlio Iti. Passano cinque anni felici, finché Procne prega Tereo di
andare a Atene, a chiedere al vecchio Pandione di lasciare venire in Tracia
Filomela, sua sorella, di cui sente grande mancanza. Tereo fa come chiede la
moglie, ma appena vede Filomela ad Atene viene preso da una sconfinata passione
per lei. Pandione non si accorge di nulla e permette a Filomela di lasciare
Atene, sotto la promessa di un rapido ritorno, sebbene abbia dei presagi. I
presagi sono ben motivati: appena sbarcati, Tereo porta in una stalla Filomela
e la violenta. In preda alla disperazione, Filomela lamenta la sua condizione
di anima ferita e colpevole contro la propria volontà, assicurando che rivelerà
quanto è avvenuto agli uomini, ai monti, agli dèi. Tereo, preso da rabbia e
paura, le mozza dunque la lingua con spada e tenaglia. Dopodiché si reca
nuovamente da Procne, con la falsa notizia della morte di Filomela. Passa un
anno e Filomela finalmente riesce ad ingegnarsi di scrivere su una tela la
denuncia di quanto ha subito e a farla portare da una serva a Procne. Procne,
scoperto il tutto, sfrutta la notte seguente, quella in cui la Tracia celebra i
baccanali, per liberare la sorella. Quindi, in cerca di vendetta, si sfoga su
Iti, cucinandolo per Tereo. Dopo che questi ha mangiato, ignaro di tutto, la
carne di suo figlio, Filomela salta fuori sozza di sangue e gli tira in faccia
il capo di Iti. Tereo si getta dunque dietro di loro, ma tutti e tre si trovano
mutati in uccelli: Tereo in upupa, Filomela in rondine, Procne in usignolo.
Il tema delle metamorfosi torna nel vicino studiolo, ma la
rappresentazione, probabilmente per un cambio di mano, diventa più
convenzionale. Se resta al momento ignoto il nome dell’artista, grazie alle
ricerche archivistiche condotte da Gianantonio Pisati siamo oggi in grado però
di conoscere i committenti. Si tratta dei fratelli Pietromaria, Baldassarre e
Gerolamo Fodri, figli di Guglielmo. Nel 1476 Bartolomeo Fodri aveva lasciato in
eredità il palazzo avito al secondogenito Benedetto, costringendo il
primogenito Guglielmo, di fatto diseredato, a trasferirsi nella vicina di San
Donato nel palazzo che, ristrutturato nel 1911, è diventato prima la sede della
Camera di Commercio, poi delle Cooperative e della Confesercenti in via
Beltrami 18. Ai primi del Cinquecento i figli di Guglielmo Giovanni,
Baldassarre, Pietro Maria e Gerolamo si divisero il patrimonio paterno: il
primo rimase nel palazzo di famiglia con la maggior parte delle sostanze, gli
altri tre acquistarono il palazzo confinante, trasferendovisi stabilmente nel
secondo decennio del secolo. In seguito alla morte dei fratelli Pietro Maria
rimase a partire dal 1524-1525 unico proprietario dell’immobile. La nobile
famiglia abitò qui ininterrottamente fino al 1559 ed è in questo lungo arco di
tempo che va collocata la realizzazione degli affreschi del salone e del
camerino attiguo. Un ciclo splendido e sconosciuto, che costituisce un’altra
testimonianza del grande secolo del manierismo cremonese.
Il linguaggio formale è evidentemente quello del primo
Cinquecento, nella monumentalità piena e risoluta perfettamente risolta nello
svolgimento narrativo, con inflessioni cremonesi che affiorano in qualche
esasperazione quasi disarticolata dei movimenti, in certe grafie insistite sui
contorni, nei passaggi a volte bruschi del chiaroscuro. Elementi che si può
provare a confrontare con certi fatti che ormai si cominciano a conoscere bene
in città agli esordi del secolo, tra Galeazzo Campi e Alessandro Pampurino, o
tra Tommaso Aleni e altri 'minori' come Bernardino Ricca e Lorenzo de Beci.
Sembra infatti di poter incominciare a sistemare il nostro misterioso artista,
per il quale manca qualsiasi appiglio documentario, nelle coordinate di fatti pittorici
che a Cremona si dipanano tra la conoscenza di novità ormai moderne di assoluta
importanza - Boccaccino, Gianfrancesco Bembo, Altobello - il cui palcoscenico
principale è l'inizio della decorazione delle pareti all'interno del Duomo, e
dall'altra parte una persistenza di formule ancora tradizionali che implicano
una certa rigidità dei gesti e delle pose, come anche ad esempio una sorta di
ripetizione di fisionomie standard, che ben si notano ricorrenti anche nel
ciclo in questione.
Non è affatto agevole ovviamente proseguire su questo
terreno e la frammentarietà del ciclo riscoperto, accentuata dal restauro
incompleto, non facilita il discorso. Sembra emergere però come vena
caratterizzante dell'autore di queste scene quella di un temperamento bizzarro
e in un certo senso discontinuo, che non arriva a far supporre l'intervento di
più personalità di artisti nel lavoro, ma si sviluppa in una molteplicità di
soluzioni diverse che denota una certa curiosità quasi sperimentale, pur non se
non sostenuta da una qualità sempre al massimo livello. Queste soluzioni hanno
fatto pensare a Francesco Casella, un eccentrico poco noto la cui personalità è
stata sostanzialmente ricostruita da Marco Tanzi a partire dalle due sole opere
firmate: la pala del 1510 oggi al Museo Borgogna di Vercelli e l'altra del
1517, arrivata invece a Brera. Nei nostri affreschi, secondo Giovanni Vaagussa,
ricordano il Casella alcuni volti barbuti e corrucciati, caratterizzati anche
dall'invadenza di alcuni elementi accessori, come le grosse corone sul capo.
Certamente un Casella semmai più vicino alla seconda delle due pale d'altare,
dove si sperimenta, in una scena movimentata coma la Lapidazione di Santo
Stefano, una serie di gesti dinamici e concitati, di ascendenza nordica e
dureriana in particolare, molto accentuati eppure un po' goffi nella eccessiva
rigidità: qualcosa di simile a quanto accade ad esempio nella iterazione delle
pose esagerate di Deucalione e Pirra, nella scena loro dedicata nella stanza
più piccola.
Anche qualche altro elemento potrebbe far propendere per il
poco noto Casella, come ad esempio il gusto per la ripetizione di personaggi
perfettamente di profilo, quasi ritagliati sullo sfondo e che faticano un po' a
trovare una vera tridimensionalità, apparendo come se fossero sagome piatte. Ma
si potrebbe comunque notare negli affreschi ora riscoperti, in particolare
nelle scene sulla voltina dello 'studiolo', una modernità ancora maggiore che
accentua lo slancio dei movimenti e la torsione esasperata, quasi già manierista,
di certe soluzioni anatomiche, come ad esempio nella figura di Giove che si
infila il neonato nella carne viva della sua stessa coscia. Qualcosa che
dovrebbe far pensare ad un Casella che ha già cominciato a ragionare sulle
prime prove di Pordenone in Cattedrale, dunque tra il 1520 e il 1522: guardando
per esempio il celebre profilo della Maddalena urlante pordenoniana preso a
modello per la testa della donna che dovrebbe essere nelle intenzioni
altrettanto stravolta come quella che regge in mano la testa mozza del figlio.
E altri elementi potrebbero far pensare ad una visita a Mantova: una ipotesi
che servirebbe a spiegare la curva del mantello gonfiato dal vento della figura
femminile orante, sempre nel cosiddetto 'studiolo', secondo una soluzione che è
prima antica e poi mantegnesca, ma che in verità potrebbe essere anche arrivata
tramite qualche placchetta o incisione. Insomma si dovrebbe pensare ad un
Casella attivo dopo il 1517, anno a partire dal quale, fino ad ora, non si
avevano altre sue notizie; e che lavorerebbe qui approssimativamente attorno al
1520-25. Cioè in un momento che ormai non può prescindere dagli esordi di
Giulio Campi, al quale in effetti potrebbero ben rimandare le soluzioni più
fluide dei panneggi, rifluenti in pieghe ondulate, con alcune invenzioni come
la manica vistosamente arrotolata, che era già nell'Allegoria della Vanità,
oggi al Museo Poldi Pezzoli di Milano, che Giulio firmava e datava nel 1520.E
proprio all’ambito di Bernardino Campi potrebbero riferirsi certe figure femminili
e maschili che costiuscono dei veri e propri calchi dei prototipi che stava
elaborando quell’artista. Il che sposterebbe i nostri affreschi verso la metà
del secolo.