Il ventilatore di Alessandro Capra |
Una leggenda vuole che il più famoso
orologiaio di ogni tempo, genio celebrato dell’ingegneria idraulica
e meccanica, vedesse la luce in una notte di tempesta proprio nel
momento in cui uno dei tanti fulmini che si abbatterono nei suoi
tanti secoli di storia sul Torrazzo, ne distruggeva il famoso
orologio.
“Novello Archimede, principe degli
artifici, brutto come bue in forma umana, ma acutissimo di cervello.”
Così Garcia Diego descrive Janello, o Giannello Torriani, il più
famoso tra i fabbricieri di artifici al servizio della cattolicissima
corona di Spagna, precursore di generazioni di meccanici, architetti
e inventori cremonesi, nato forse nel 1511. “Fabbricieri” erano,
allora, quei maestri di agricoltura che, immessi nel sistema della
“encomienda” che era poi la terra assegnata ai Commendatori della
Corona di Spagna, avrebbero dovuto divulgare nel mondo, nelle
intenzioni della Corona di Spagna, le tecniche agrarie maturate in
Lombardia, terra solcata dai fiumi e considerata la più fertile di
quell’impero su cui mai tramontava il sole. Studiando e diffondendo
elementi di ingegneria idraulica e molitoria giunsero al punto alla
fine del XVI Secolo di fondare la specifica cattedra “cremonese”
di Coimbra grazie al lavoro del benedettino Don Joao Torriani a sua
volta, con ogni probabilità, nipote di Janello che, proprio per
appartenere all’ordine dei benedettini, doveva essere espertissimo
di coltivazioni e bonifiche. Janello Torriani, a Cremona, già negli
anni della sua prima adolescenza, era stato individuato come un
precocissimo talento dal medico, filosofo e matematico Giorgio
Fondulo, un cattedratico dell’Ateneo di Padova che lo aveva guidato
nelle prime ricerche e indirizzato negli studi di meccanica ed
astronomia. L’allievo di Fondulo prometteva un grande avvenire:
sarebbe stato un eccellente meccanico delle sfere celesti, un maestro
nella difficile arte dell’aequatorium, un principe degli orologiai
degno, un giorno, di stare, come “Principe degli artifici” al
fianco del grande imperatore. Sì, perché quando gli eventi, grazie
a Carlo V cambiarono, allora fu anche il tempo di aggiustare gli
orologi astronomici delle grandi torri: per segnare il tempo nuovo di
un nuovo regno. L’orologio della Torre Viscontea di Pavia era
guasto da tempo, ma era opera di un genio, il Dondi, capolavoro
assoluto di ogni età (tuttora lo si conserva presso lo Smithsonian
Museum di Washington). A nessuno era riuscito di rimetterlo in sesto
neppure in occasione della incoronazione di Carlo V, avvenuta in
Bologna nel 1530. Il solo Janello vi riuscì, ma per rifarlo, e più
complicato di prima, impiegò quasi vent’anni. Però, una volta
veduta l’opera, re Carlo, che per gli orologi aveva una vera e
propria mania, volle con se l’orologiaio di Cremona che l’aveva
compiuta. Così cavalcarono insieme per anni nelle guerre di Sassonia
e poi in Fiandra ove Janello inventò macchine da guerra e giochi per
divertire, secondo i racconti dell’abate Strada: “Un mulino era
così piccolo da stare nella manica d’un monaco e pure macinava
grano per otto persone al giorno: uccelletti di legno volavano via
per la finestra e poi rientravano dalla stessa; marionette facevano
battaglie tra fulmini, tuoni e piogge”. Ormai si era affermata la
fama della maestria di Janello nell’aequatorium, cioè l’arte di
costruire orologi planetari e negli “automata”, pupazzi e bambole
danzanti ora sparsi nei musei di mezza Europa, ma soprattutto nelle
sfere armillari: quelle da lui costruite in giovane età già
contenevano i presupposti della riforma gregoriana del calendario che
si sarebbe concretata mezzo secolo più tardi, nel 1582. Janello ebbe
pure una squisita sensibilità musicale, se è vero che, interpellato
circa l’intonazione delle campane del monastero dell’Escorial,
ordinò a mente i pesi esatti e le forme delle campane soprano,
contralto, tenore e contrabbasso senza l’uso di scrittura o
comunque di verifiche sperimentali: pochissimi musicisti vantano
l’orecchio assoluto, ossia la facoltà di riconoscere una nota,
suonata, ad esempio da una campana, senza l’aiuto di un corista o
diapason che intoni il “la” di riferimento.
La ballerina di J. Torriani |
Le realizzazioni per
cui Janello andava famoso furono comunque gli “automata”, quelle
specie di robot, capaci di fare determinate cose che, fin dal tempo
degli egizi, l’uomo si era appassionato a costruire e proprio
Janello, vista la familiarità di questi meccanismi con quelli degli
orologi, ne divenne il costruttore più abile a fantasioso. Dal 1556
al 1558 ne realizzò un’infinità per allietare il ritiro monastico
di Carlo V nel convento di San Yuste in Estremadura. E’ curioso,
tuttavia, osservare come il suo principale estimatore, il grande
medico e matematico pavese Gerolamo Cardano, non ne parli, lasciando
alla leggenda questa prerogativa, ma proprio la leggenda gli
attribuisce la costruzione di quegli “androidi” che sono
senz’altro i più difficili da realizzare tra gli automi. Al
Kunsthistorische Museum di Vienna è conservata la “danzatrice”
il primo “automata” attribuito a Janello Torriani, capace
naturalmente di danzare: anche esteriormente la realizzazione appare
stupenda; la capigliatura fulva, i particolari curatissimi nonostante
le piccole dimensioni, il portamento maestoso, splendido il vestito,
e il meccanismo le consente movimenti straordinari. Il “frate” è
invece conservato al Museo di Washington. E’ alto solo 39
centimetri ed è programmato per percorrere un quadrato di circa 60
metri di lato. I piedi sono visibili, si muovono spuntando sotto
l’abito, però corre su piccole ruote e compie piccoli movimenti
con le braccia come a dare la benedizione e muove costantemente la
testa assentendo, aprendo e muovendo la bocca e gli occhi.
Alessandro Capra |
Con ogni probabilità mutuò qualche
idea da Giannello Torriani anche Alessandro Capra (1608-1683) per i
suoi libri di architettura, dove descrive una quarantina di macchine
che oscillano tra l’utilità e il fantastico, tratte in parte
dall’esperienza quotidiana dell’uso fatto in famiglia e parte
frutto di autentica invenzione. Un vizio di famiglia il suo, visto
che già il padre Agostino, e in seguito i figli Domenico e Angelo,
era stato un esperto nella costruzione di macchine e si era
interessato ai problemi del controllo dell’erosione delle sponde
del Po causata dalla corrente. Alessandro aveva aperto in casa sua
anche una bottega dove, oltre a svolgere i compiti derivanti dalla
sua attività ufficiale di geometra o architetto, ma anche
agrimensore, aveva sistemato le macchine di sua invenzione, grazie
alle quali riuscì a ottenere non poche commesse anche dall’estero.
Di queste macchine è rimasto il ricordo nel quinto libro della
“Nuova architettura famigliare” pubblicata a Bologna nel 1678. Si
tratta perlopiù di battipali, di macchine per il sollevamento e
quindi di uso cantieristico, a fianco di altre per rassodare la pasta
o setacciare la farina, e quindi di uso artigianale o familiare. Di
una di queste dice: “Questa Gramola fu fatta l’anno 1632, e
sempre si è adoperata fino all’anno 1677, à gramolare la pasta da
far il pane alla mia famiglia di dieci, e quattordici persone, si si
gramola alla volta un partone di pasta di un peso, e mezo
comodamente, con un’huomo alla stanga, e l’altro a tener sotto la
pasta”. Ma si tratta soprattutto di mulini, di svariati tipi,
manovrabili da uomini, animali, oppure idraulici: meccanismi che
nascono da esperienze, ingegnosi e semplici anche quando svolgono
funzioni complesse. Spesso Capra presenta anche meccanismi curiosi,
costruibili, ma di dubbia praticità o di applicazione molto
limitata, come il ventilatore azionato da pesi mobili, di cui
fornisce anche l’immagine e la scheda tecnica: “Bisogna dunque
formare una ruota di legno sottile, e leggiera, mà grande nel suo
diametro brazza 3 in circa, più o meno, in guisa che, con cinque o
sei ventagli, di larghezza oncie 6, incirca, e oncie 12, in circa di
lunghezza, posti in declivio nella sua circonferenza, coma la segnata
P. riempia tutto il cassaro del camino. E parimente sa di mestieri
aggiustare la stessa ruota sopra de’ poli, et a suo centro la
ruotella, con’è dissegnato nella figura 32. Oltre ciò, s’hanno
da formare due girelle R. entro la mazza del Camino, ouero in altro
sito eminente, conforme al luogo che piace, poi attaccata una fune
per un capo alla ruotella Q e ravoltatagliela attorno, si faccia
passar con l’altro capo sorpa una dlle girelle R. à quello si
attacchi un peso sufficiente, per muovere, e girare la ruota P. Mà
perchè il peso, dopo hauer scaricato la ruotella Q. della fune, che
se gli avolge attorno, non ha più forza di muovere la ruota, è
necessario attaccare pure alla medesima ruotella altra fune per un
capo volgendogliela intorno, come la prima; per l’altro capo
passata sopra la seconda girella R. attaccarli un peso minore
dell’altro, conciosiache tirandolo poi, scaricarà la ruotella
della sua fune, e la caricarà con l’altra del peso maggiore, e si
verranno à continuare con il moto della ruota, e suoi ventagli, le
delizie del fresco”.
Carrozza a tachimetro di A. Capra |
Oltre a questi meccanismi veri e propri Capra
progetta anche una fontana perpetua che lui afferma di aver
sperimentato con successo, ma che in realtà è irrealizzabile. Sono
invece probabilmente il frutto di attività teatrali, destinate a
suscitare curiosità e meraviglia, le fontane pensili, che per
effetto di pesi e contrappesi manovrabili a mano, zampillano in
continuazione. Un’altra curiosità riguarda il metodo inventato dal
Capra per suonare più campane contemporaneamente con un solo
campanaro, grazie ad una serie di contrappesi. Un metodo frutto della
sperimentazione, come spiega lui stesso: “Mi sono servito nelle
occasioni delle balle di ferro dell’Artigliere, che furono sbarrate
dai francesi nella guerra sotto la città di Cremona, l’anno 1648,
e con le sudette balle ho fatti molti contrapesi in diverse occasioni
di campane, e frà l’altre adì 19 dicembre 1675, fece accomodare
la campana grossa delli RR.PP. Di S. Domenico, la quale per suonarla
vi volevano almeno quattro huomini, per essere di pesi 200, e io gli
feci ponere il contrapeso nel modo sudetto, e ora un’huomo solo la
suona, e quando devono suonarla lungamente, con due huomini suonarà
tutto il giorno”. E che dire del primo esempio di contachilometri?
Il Capra propone il disegno di due carrozze a due e quattro ruote,
con un meccanismo che permette di misurare il percorso compiuto
attraverso una trasmissione basata su una vite senza fine.
Fu un bizzarro emulo di Janello
Torriani, quel Francesco Antoniazzi che nel 1783 aveva inventato una
macchina meccanica, simile ad una donna, in grado di lavorare al
telaio 24 ore su 24. Avrebbe voluto farne una produzione industriale
vera e propria, ma i suoi concittadini non gli diedero fiducia e
così, deluso e in preda allo sconforto, prima di morire la distrusse
senza lasciarne alcuna traccia. Eppure Antoniazzi doveva avere un
genio particolare per la meccanica ed anche per il marketing, visto
che della sua particolare invenzione se ne occupa anche il periodico
“Notizie del mondo”, pubblicato a Firenze dal 1768 e poi fuso nel
1791 con la “Gazzetta Universale”. All’inventore cremonese è
dedicata una corrispondenza del 14 maggio 1783, ricca di particolari
sulla donna meccanica. Di lui parla anche Vincenzo Lancetti nella sua
“Biografia Cremonese”, da cui apprendiamo la fine ingloriosa del
progetto, per cui si era scomodato anche l’arciduca di Milano: “Il
serenissimo arciduca Ferdinando d’Austria governatore dello stato
di Milano venne espressamente a Cremona l’anno 1783 per ammirar
questa macchina – scrive il Lancetti - e non equivoci pegni
d’aggradimento lasciò all’autore. Ma essa non venne altrimenti
posta in uso da alcuno, tanto è l’indolenza degli Italiani
rispetto alle invenzioni nate in casa loro, nè sappiamo dove sia
andata a finire. Credesi che l’Antoniazzi (che era di un umore
stranamente bizzarro), indispettito di non poterla ripetere per
commissione de’ negozianti ne rompesse il modello poco prima della
sua morte, avvenuta verso la fine del secolo”.
Come funzionava dunque la prodigiosa
invenzione dell’Antoniazzi? L’inventore cremonese aveva calcolato
tutto, predisponendo un vero e proprio business plan: la sua donna
era in grado di svolgere il lavoro di cinque filatrici in carne e
ossa, non aveva necessità di riposare e, calcolando che avrebbe
potuto lavorare anche di notte, i proventi dell’attività sarebbero
raddoppiati. Ma vediamo come i contemporanei descrivevano il
marchingegno: “Francesco Antoniazzi, nativo cremonese, ha inventata
una macchina consistente in una donna al naturale, che siede ad un
tavolino sul quale si trova un ben concepito, e galante mulinello, e
lo tiene in azione per sette ore continue veggendosi in tutto il
braccio destro tutti i movimenti naturali, che corrispondono a quello
della mano. Colla sinistra poi, la quale si trova a proporzione
alzata dirimpetto al mento, stringe con le prime due dita il filo
della seta tenendo le atre tre dita elegantemente distese, e muore
regolarmente la mo solo per quanto è lungo il cannoncino, acciochè
la seta possa essere sul medesimo distribuita colla più perfetta
uguaglianza, come in fatti succede. Se si incontra un groppo nella
seta, ella si ferma; tosto però, che qualche persona si accosti a
scioglierlo, essa continua a lavorare senza che sia necessaria altra
operazione verso di lei. Se poi la seta per qualche accidente si
rompe, o si trova rotta, essa continua bensì a travagliare
inutilmente, ma senza produrre niuno sconcerto. E tanto nel primo,
che nel secondo caso accorgendosi il padrone, che può ritrovarsi
anche in un’altra camera, dell’imbarazzo della sua macchina, può
correre in un momento a soccorrerla col solito nodo. Quando la
macchina lavora, se il padrone ha piacere di fermarla, non fa che
toccare leggiermente con due dita un perno del mulinello, e co due
dita parimente tocando lo stesso perno le restituisce il moto.
L’autore di questa macchina, oltre il merito dell’invenzione, ha
ancora quello dell’esecuzione, poiché tutto è lavoro delle sue
mani, non eccettuando cosa alcuna. Egli ha fatto un calcolo, e trova
che la sua donna di legno gli guadagna quattro lire al giorno di
questa moneta, e potrebbe guadagnargli anche di più facendola
lavorare la notte. Gli ha speculato quasi tre anni per ridurre la sua
macchina a questo stato: ora la mostra a tutto il mondo, ed essa è
ammirata da tutti come cosa singolare. Ove questo industrioso
meccanico trovasse incoraggiamento e protezione, potrebbonsi
certamente da lui sperar cose ancor maggiori”.
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